Da: Sbatti il mostro in prima pagina
Ormai
da svariati anni è di moda evitare di usare il maschile per
riferirsi a gruppi di persone che prevedono la presenza anche di
donne, per cui si scrive, per esempio, “Cari/Care” per non
ricadere nel sessismo. Questa nuova sensibilità scaturisce
certamente dalla scoperta del valore delle parole nei processi che
plasmano la mentalità degli individui con significative ricadute sui
loro comportamenti sociali [1].
Si
potrebbe osservare che, nonostante
l’importanza delle parole,
che sempre chiudono in sé tutta una visione del mondo, sicuramente
esse non sono sufficienti a cambiare lo stato delle cose esistenti;
pertanto, credo che insieme a questa ipersensibilità linguistica
bisognerebbe mobilitarsi effettivamente affinché una buona metà del
genere umano abbia gli stessi stipendi dell’altra metà, affinché
siano disponibili effettivamente gli asili nido (soprattutto nel
nostro paese), affinché le donne siano sollevate dal grave peso del
lavoro domestico, meccanico e rutinario. E tutto ciò non si può
certo risolvere semplicemente con qualche nuova legge spesso invocata
a destra e a manca, dato che si
tratta di questioni strutturali e di atteggiamenti,
che hanno profonde radici nella nostra storia e nella nostra
tradizione culturale.
Ora,
che lingua sia un potente strumento ideologico non è cosa nota solo
ai linguisti, agli storici, agli antropologi; di ciò era pienamente
informato anche il
signor Winston Churchill, il
quale nel 1943 in un discorso– forse non tanto celebre come quello
della “cortina di ferro” – dichiarò che: “una lingua comune
costituisce un’eredità inestimabile, tanto da potersi tradurre nel
fondamento di una cittadinanza comune”. Sulla base di questa
osservazione Churchill propose la costituzione di un comitato di
ministri per elaborare un inglese di base, fondato sul linguaggio
britannico e statunitense scientifico, commerciale da diffondere a
livello internazionale. Con queste parole commentava con un certo
cinismo la sua proposta subito trasformata in un piano d’azione:
“Questi piani offrono guadagni ben migliori che portando via le
terre o le province agli altri popoli, o schiacciandoli con lo
sfruttamento [pratica che tuttavia gli anglofoni non hanno
abbandonato]. Gli imperi del futuro sono imperi della mente”.
Non
si può negare, constatando ogni giorno di più l’azione
manipolatrice dei mezzi di comunicazione, che Churchill avesse
ragione, benché trascurasse in quel momento l’importanza degli
altri apparati di dominio, quali per esempio quello militare o
economico, che egli aveva avuto la possibilità di gestire a fondo.
Nonostante gli
individui di madre lingua inglese siano circa la metà di coloro la
cui madre lingua è il cinese mandarino, l’inglese è la lingua più
parlata al mondo (1375 persone) ed
ha invaso gli ambienti intellettuali e politici oltre che la nostra
vita quotidiana, provocando un graduale ma significativo
impoverimento del nostro ricchissimo patrimonio linguistico e
culturale. Persino i gruppi della sinistra radicale o le
mobilitazioni contro il ‘sistema’ prediligono l’inglese e
scelgono di autodefinirsi con un termine proprio di quella lingua,
anche quando avremmo a disposizione efficaci espressioni italiane;
questo fenomeno è meno forte negli altri Stati europei, come per
esempio la Francia o la Spagna, perché più marcato è il sentimento
identitario dei loro cittadini e perché i loro intellettuali, memori
del passato imperiale dei loro paesi, sono forse meno acquiescenti.
Facciamo
un esempio banale che tutti conoscono. L’uso internazionale
dell’espressione OK al posto di varie espressioni locali; in
italiano, per esempio, sostituisce “certo”, “va bene”, “sono
d’accordo” etc., facendo scomparire tutte le sfumature di
significato presenti in queste parole e – cosa ancora più
rilevante – conducendoci in quel mondo americanizzato, in cui tutto
è veloce, rapido, volto al risparmio di sillabe e di tempo. Perché
– come è noto – il tempo da alcuni secoli, ma non da sempre, è
denaro. Forse qualcuno penserà che sto cercando il pelo nell’uovo
e che esistono varianti locali di OK come OKA (Cuba), OKAPPA
(Italia), che garantiscono la nostra ormai sbiadita specificità
culturale.
Nonostante
quanto si è detto e si scrive contro l’omologazione culturale,
certo il caso di OK non rappresenta un evento poi così grave, ma
possiamo continuare la nostra analisi riportando altri esempi ben più
devastanti e produttori di profonde mistificazioni, non derivanti
solo dall’uso non necessario dell’inglese, ma di vari termini
anche italiani, il cui scopo è indirizzare una certa interpretazione
del discorso.
È
ormai uso comune ascoltare alla radio o alla televisione un politico,
un sindacalista (la non rimpianta Camusso in questo era una
specialista), un intellettuale che, parlando dei più svariati
argomenti, ad un certo punto del loro discorso tirano fuori la parola
“tema”. Per esempio, si può dire che “un tema importante
che il governo deve affrontare è quello della disoccupazione”,
oppure che per rilanciare la scuola disastrata da politiche di tagli
“bisogna porsi il tema degli investimenti in questo settore e
quello dell’aumento degli stipendi dei lavoratori di
quell’importante comparto”. Gli esempi possono essere
infiniti. Citiamo
le recenti parole del Presidente del Consiglio Conte sulla
questione immigrati: "Il tema dell'immigrazione
è sparito un po' dai radar. La propaganda può tenere accese le luci
dei riflettori su un tema in
modo strategico, ma stiamo ottenendo risultati per certi versi anche
migliori rispetto al precedente esecutivo”. Tra l’altro, dimostra
con queste parole di essere un continuatore delle politiche razziste
e demagogiche dell’esecrato Salvini.
Ma
torniamo alla parola tema e
domandiamoci: che nasconde? Basta sfogliare un qualsiasi dizionario
italiano e si scoprirà che la parola “tema” viene dal greco
“thema”, che indica “ciò che ci si pone”, “soggetto che si
intende trattare”. Come sempre accade, il problema non sta tanto
nella parola stessa, che sembra esser dotata di connotati neutrali,
ma nel suo uso; infatti, la struttura del discorso di Conte – come
quella dei suoi simili oppositori o no – assomiglia una sorta di
lista della spesa: un elenco di temi, mai
effettivamente trattati e spiegati, solo enunciati e accompagnati dal
corollario di misure pratiche volte a contrastarlo. A questo punto
una domanda è legittima: come si possono elaborare misure risolutive
di un problema-tema se non ne individuiamo le cause, quindi se non lo
comprendiamo? Si potrebbe affermare che il processo conoscitivo, se
fosse condotto a fondo (ossia come ha fatto recentemente Bashar Al
Assad attribuendo alle potenze occidentali la responsabilità dello
sconquasso del Medio Oriente e quindi dell’emigrazione da quelle
terre devastate) non è in questo caso auspicabile, perché
metterebbe a nudo la nostra politica imperialistica.
Mi
è capitato qualche tempo fa di incontrare per la mia attività
sindacale vari uomini politici di questo inconsistente governo e
anche qui mi sono trovata di fronte l’uso del termine tema a
proposito del cosiddetto numero chiuso per l’accesso alle facoltà
universitarie presentato come qualcosa di assiomatico, un dato di
fatto da non discutere, ma che deve essere soltanto applicato nel
“modo migliore”. Con mia grande meraviglia, dinanzi alla mia
domanda se il parlamento aveva fatto un’inchiesta a proposito in
particolare del fabbisogno dei medici, odontoiatri ed altre figure
professionali (particolarmente sentito dalla popolazione), che
debbono tutti passare dei test d’ingresso selettivi, mi è stato
detto che una tale indagine sarebbe un’ardua e impraticabile
impresa.
Ora,
a chi volesse indagare (cosa del tutto fattibile e che il nostro
parlamento ha fatto in altri tempi, si pensi all’Inchiesta Jacini),
risulterebbe chiaro che il numero chiuso è soltanto una scusa,
ammantata dal velo meritocratico ipocrita, per giustificare i tagli
imposti all’università e alla ricerca negli ultimi decenni e per
evitare di porre rimedio ai gravi danni da questi prodotti. Insomma,
semplificando, come del resto l’ultima finanziaria dimostra, non si
vuole tirar fuori un centesimo per questi settori, anche se allo
stesso tempo si è molto generosi con il settore militare [3].
Giungiamo
ora a trattare brevemente una parola che esprime in maniera
condensata la radicale trasformazione economico-sociale che abbiamo
vissuto in questi decenni, nel corso dei quali il capitalismo in
grave crisi ha rielaborato una serie di strumenti per ristrutturarsi,
restare in vita e apparire accettabile ai più. Mi riferisco alla
parola “governance”
che gradualmente ha sostituito in tutti i campi il termine governo,
sancendo così un cambio di paradigma nella regolamentazione delle
relazioni sociali.
Secondo
Alain Deneault, studioso franco-canadese [4],
questa parola a tutta prima sembra innocua, ma occulta in sé una
logica che può essere violenta. Lasciando da parte la lunga storia
del termine, derivato dal greco kybernan ossia
dirigere una nave, la governance contiene in sé una “teoria
dell’organizzazione privata”, presa dal settore manageriale e
applicata ai più vari contesti, perché in questa prospettiva ogni
ambito perde la sua storia e la sua specificità. Sostanzialmente
essa indica un procedimento negoziale tra entità che condividono gli
stessi interessi, il cui scopo è quello di comporre conflitti ed
eventuali dissensi tra le parti. Essa si concreta per esempio nelle
società per azioni, nelle quali l’individuo entra solo in quanto
portatore di un capitale con l’intento di valorizzarlo, perdendo
ogni sua peculiarità.
L’espressione governance,
spesso accompagnata dall’altro ridicolo sintagma “buone
pratiche”,
costituisce “l’arte della gestione” che non ha più bisogno del
confronto politico, ma solo di abili tecnocratici che trovino
l’immediata soluzione a un qualsiasi problema, senza che il
problema venga inquadrato in una prospettiva di lungo periodo e di
valutazioni complessive. È
la brutale vittoria del pragmatismo
che fa strame di qualsiasi principio politico ed etico-morale,
inevitabile dato che non c’è più una controparte in grado di
negoziare con gli avversari di classe.
Note
[1] Scoperta ratificata del libro del filosofo statunitense R. Rorty, La svolta linguistica (1967)
[2] Dal 1881 al 1887 Stefano Jacini diresse la commissione parlamentare, il cui scopo era quello di indagare la situazione economica e sociale delle zone rurali.
[3] L’aumento del contributo italiano alla NATO e i 7 miliardi di euro promessi da Conte a Trump.
[4] Autore de un importante libro Governance. Il management totalitario, Milano 2018.
[1] Scoperta ratificata del libro del filosofo statunitense R. Rorty, La svolta linguistica (1967)
[2] Dal 1881 al 1887 Stefano Jacini diresse la commissione parlamentare, il cui scopo era quello di indagare la situazione economica e sociale delle zone rurali.
[3] L’aumento del contributo italiano alla NATO e i 7 miliardi di euro promessi da Conte a Trump.
[4] Autore de un importante libro Governance. Il management totalitario, Milano 2018.
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