venerdì 3 gennaio 2020

Tecnologia e imperialismo. Crisi economica, produzione intellettuale, sfruttamento e conflittualità tra capitali. - Francesco Schettino


Pubblicato su “materialismostorico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 1 (2019), TECNOLOGIA E IMPERIALISMO. CRISI ECONOMICA, PRODUZIONE INTELLETTUALE, SFRUTTAMENTO E CONFLITTUALITÀ TRA CAPITALI, a cura di Francesco Schettino, pp. 276-292, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
Francesco Schettino (Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli)


1. Introduzione

Il dominio della casse borghese sulla classe proletaria (o lavoratrice), quindi subalterna, è l’elemento che innegabilmente qualifica il modo di produzione capitalistico; il rapporto di proprietà instaurato tra le due classi – perno attorno a cui ruota tutto il sistema – si concreta nella produzione di plusvalore, ossia l’appropriazione da parte della classe dominante di una parte dell’attività erogata da quella subalterna, che è l’essenza della riproduzione dell’economia nel suo complesso. Se per il capitale nella sua astratta unicità ciò che interessa è l’incremento della massa di plusvalore e, ancor di più, essa in relazione al valore anticipato dalla totalità dei capitalisti, dal punto di vista del capitale individuale la produzione di plusvalore necessita di “schiudersi”, ossia trasformarsi per divenire utile, realizzandosi quindi in forma monetaria (quella del profitto). L’incremento del plusvalore, ossia dell’appropriazione di lavoro altrui non pagato, è dunque la condizione principale per cui l’accumulazione possa procedere a tassi crescenti ed è per questo motivo l’obiettivo prioritario del sistema nella sua totalità e quindi del singolo agente del capitale.

La contraddittorietà tra unicità del capitale e molteplicità dei suoi agenti si svolge mediata dalla concorrenza e agisce principalmente nel momento della trasformazione del plusvalore in profitto e del saggio di plusvalore in tasso di profitto: infatti, se la massa del profitto coincide con quella del plusvalore, non subendo le fluttuazioni del valore, ciò non avviene per i rispettivi tassi. In particolare, l’agire della concorrenza, nella fase della circolazione e le differenze nella composizione organica dei diversi capitali, rende impossibile tale convergenza. Di conseguenza, le strategie dei diversi partecipanti al “banchetto” del frutto espropriato dall’attività dell’operaio complessivo necessariamente si contrappongono avendo in comune l’obiettivo dell’incetta del maggior quantitativo di fette possibile. Dunque, nella fase della produzione, fermo restando il morboso interesse del capitalista per la quantità di ore non pagate ai propri lavoratori, appare lampante l’importanza della riduzione dell’esborso sostenuto anche per il capitale costante, macchinari e materie prime.

La trasformazione di plusvalore in profitto implica, infatti, che «se il plusvalore è dato, il saggio del profitto può essere aumentato soltanto mediante una diminuzione del valore del capitale costante necessario per la produzione delle merci» [Marx, Il capitale, III.5]: in sostanza, fermo il numeratore del rapporto che rappresenta il saggio del profitto, il capitale individua nella diminuzione del denominatore il fattore complementare all’aumento dello sfruttamento per poter incrementarne l’entità. In altri termini una riduzione del valore di macchinari e materie prime, ossia quella che Marx definisce «economia del capitale costante», implica che il costo connesso all’appropriazione di lavoro vivo altrui diminuisca, permettendo così un incremento della sua produttività che a sua volta si riflette direttamente sul saggio di profitto: nel caso limite in cui il costo di macchinari e materie prime fosse nullo, esso raggiungerebbe il livello massimo, essendo esattamente identico al saggio di plusvalore, ferma restando la variabilità determinata dalla circolazione delle merci, ossia «a prescindere da tutte le modificazioni apportate dal sistema creditizio, da tutte le soperchierie e truffe che i capitalisti commettono l’uno a danno dell’altro, e infine da ogni favorevole scelta del mercato» [C, III.7]. In questo caso, il costo del capitale costante per l’utilizzo della forza-lavoro essendo nullo, il capitalista potrebbe appropriarsi del lavoro pagato e non pagato in maniera totalmente gratuita, permettendo una opportuna accumulazione di capitale che «dipende ancor più dalla produttività che dalla massa di lavoro impiegato» [C, III.5].

Chiarita la centralità del concetto in analisi – che Marx specifica come «il fanatismo per l’economia dei mezzi di produzione» – il passo per comprendere come ciò sia determinato principalmente dal processo innovativo è sufficientemente breve. Le conseguenze che possono scaturire da una sostenuta produzione di invenzioni sono principalmente tre:

la prima, che generalmente definiremo come di “diminuzione del valore della merce” è causata dalla riduzione della parte aliquota del valore complessivo della macchina che, essendo più perfezionata, cede alla merce finita. Ciò avviene sia qualora il valore della macchina vecchia coincida con quella nuova, ma anche se questa complessivamente ha un valore superiore. Per quanto osservato, accanto a questo effetto c’è la diminuzione di ore di lavoro vivo contenute all’interno della merce finita, in quanto il perfezionamento tecnologico permette un minor lavoro da parte dell’operaio addetto alla macchina.

La seconda, conseguente, è un incremento del saggio di sfruttamento dell’operaio in quanto a parità di ore lavorate si sviluppa una maggiore intensificazione del lavoro – unità di merce prodotta per ora – fermo restando il salario erogato. Infine, nella fase della circolazione, tale diminuzione del valore complessivo della merce individuale permette un drenaggio maggiore di plusvalore prodotto socialmente e, quindi, una condizione di asfissia per i capitalisti che non sono in grado di adottare la medesima tecnologia “ottima”.

In una fase di crisi il processo innovativo assume ovviamente una rilevanza cruciale, ancora maggiore rispetto a periodi di normalità, in quanto, essendo la crisi caratterizzata da sovrapproduzione di merci, da caduta tendenziale del saggio di profitto e, dunque, dalla tendenza al monopolio, gli effetti indicati si amplificano poiché tali variabili sono più “sensibili” rispetto alla normalità. L’azione sul saggio di profitto sembrerebbe benefica. Infatti, se da una parte l’economia di capitale costante direttamente ne incrementa l’entità, d’altra parte, la concorrenza tra “fratelli nemici”, promuovendo prevalentemente una tecnologia cosiddetta “risparmiatrice di lavoro”, determina un incremento della composizione organica del capitale capovolgendo spesso l’effetto in termini di saggio di profitto. La diminuzione del valore a seguito dell’innovazione determina in ogni caso un incremento della sovrapproduzione. Infatti, sia che venga introdotta da un singolo o da una gran parte della classe, essa genera un numero crescente di capitali in asfissia perché proprietari di una merce di valore individuale superiore alla “norma” e quindi da destinare ai magazzini perché ragionevolmente invendibile. Entrambi questi fenomeni confluiscono logicamente nella tendenza storica alla centralizzazione dei capitali esistenti, ossia al fallimento o al “quasi-fallimento” dei singoli che sono fuori mercato che vengono naturalmente fagocitati – attraverso fusioni e acquisizioni incrementate non a caso violentemente negli ultimi decenni – da quelli più affamati e con una potenzialità di accumulazione quindi superiore che si propongono di avvicinarsi asintoticamente a una condizione monopolistica. Pertanto, l’innovazione appare come una necessità per il capitalista individuale gettando però in maniera contraddittoria le basi per l’inasprimento della crisi in una fase recessiva del sistema capitalistico come quella attuale. Da questo punto di vista è importante sottolineare come spesso, specie in un contesto di lotta efferata tra capitali, ciò avvenga anche in maniera indiretta, come avvenuto nel celebre processo di invenzione della rete internet.

La fenomenologia dei concetti che abbiamo appena affrontato è densa di elementi che vanno necessariamente affrontati nell’attuale fase imperialistica transnazionale. Con un efficace uso ideologico delle parole, infatti, gli agenti del capitale hanno svuotato quasi completamente il significato di innovazione relegandolo ad un sinonimo di progresso o di benessere mentre, come visto, tale processo deve essere scientificamente inteso come capacità di incrementare la produttività dei lavoratori – acquisizione di neo-valore al minimo costo – in particolare, e il profitto del capitalista individuale proprietario dell’innovazione, più in generale. La riduzione dei prezzi al consumo di merci ad alto contenuto tecnologico – elemento in cui gran parte del proletariato, e non, individua l’evoluzione di tale processo – sono, infatti, la parvenza di un progresso “filantropico”, quando, invece, esso è il riflesso più evidente e tangibile del funzionamento della legge del valore di Marx, basata sullo sfruttamento di una classe sociale su un’altra.

Non si tratta affatto di una casualità che proprio dall’inizio degli anni settanta, in coincidenza con l’inizio della crisi sancita dal fallimento degli accordi di Bretton Woods, gli investimenti pubblici e privati in ricerca e sviluppo abbiano registrato una violenta crescita e, con essi, sia incrementato con altrettanta veemenza il numero di brevetti tanto a livello europeo quanto statunitense, ossia lo stato più in sofferenza. L’assottigliamento tendenziale del saggio di profitto dal lato della produzione, e i fenomeni di sovrapproduzione, centralizzazione e conseguente tendenza al monopolio – ossia la nascita e l’inasprimento della lotta tra capitali [concetto frequentemente edulcorato col termine “concorrenza”] – sono i fattori che, prevalentemente, hanno elevato l’innovazione a categoria cruciale per la sopravvivenza (accumulazione) stessa dei singoli capitalisti generando però contraddittoriamente un’accelerazione del processo critico del sistema produttivo nel suo complesso, in particolare con la sempre più frequente e diffusa sostituzione di lavoro vivo con quello morto. In questo appare in tutta la sua inevitabile veemenza la sublimazione del movimento contraddittorio mediato dall’anarchia delle sregolate leggi del capitale.

L’incremento del numero di brevetti, tuttavia, non implica necessariamente un paritario aumento delle innovazioni. Infatti, ciò che questa evidenza mostra, è innanzitutto come il ricorso alla tutela legale delle invenzioni sia certamente cresciuto: ossia, di fronte ad una corsa alla “guerra economica” tra i capitali in ogni parte del mondo, ferma restando l’importanza dell’invenzione in sé, ciò che in una fase critica diviene altrettanto fondamentale, è la possibilità di poter ottenere il massimo rendimento dall’idea nell’ottica essere più competitivi degli altri, puntando così ad un potenziale extra-profitto. Il brevetto diviene così un ulteriore valido strumento per fronteggiare con la “spada della legge”, i concorrenti. È per questo stesso motivo che proprio dal decennio successivo i tentativi di parare tali veementi colpi si sono riassunti nell’attività di spionaggio industriale e imitazione.

L’articolo è organizzato come segue. Nel primo paragrafo verrà espressa la conflittualità che genera tra capitali nella loro molteplicità, ossia nella lotta concorrenziale. Successivamente, verrà individuato il ruolo dell’innovazione come strumento di coercizione della classe dominante. Infine, verranno esaminate le ragioni di come nella sua unicità il capitale generi attraverso lo sviluppo tecnologico molte delle patologie che tendenzialmente lo pongono come limite di sé stesso.

2. Capitale contro capitale

La crisi di tipo capitalistico si caratterizza per le difficoltà di realizzazione del saggio di plusvalore, problema che poi si trasforma nella caduta tendenziale del saggio di profitto, nella sovraproduzione di capitale e quindi nell’incapacità da parte del capitale (inteso nella sua accezione unitaria) di accumulare e quindi di adempiere alla sua funzione sociale di autovalorizzarsi ciclicamente. La causa principale di tale movimento contraddittorio è sicuramente l’aumento naturale della composizione organica del capitale, cioè l’incremento proporzionale del capitale costante (capitale fisso e circolante) rispetto a quello variabile (monte salari) che naturalmente avviene ad ogni riorganizzazione produttiva degli stabilimenti e delle fabbriche. Sostanzialmente, quindi, la tendenza è sostituire il lavoro manuale (umano) con quello delle macchine; e ciò, oltre a comportare una diminuzione del tasso di plusvalore e, conseguentemente di profitto, determina, più in generale, una diminuzione del valore delle singole merci: infatti, «poiché il capitale non paga il lavoro adoperato, ma il valore della forza usata, per esso l’uso delle macchine è limitato dalla differenza tra il valore della macchina e il valore della forzalavoro da essa sostituita» [Marx, C, I.13,1]. Quando questo processo è sufficientemente esteso, ovvero, tale innovazione di processo che risparmia lavoro viene adottata da una maggioranza di produttori di un determinato bene, si determina anche una diminuzione del valore sul mercato. Sostanzialmente, quindi, il numero di ore lavoro socialmente indifferenziato contenuto nella merce il cui processo produttivo ha subito tale riassetto, diminuisce generalmente. Attorno ad esso gravita (seguendo le leggi della sregolatezza) il prezzo di mercato della singola merce da cui, solo successivamente, verrà a determinarsi il profitto normale.

Nel momento in cui una nuova tecnica risparmiatrice di lavoro e, quindi, produttrice di merci più affidabili, viene diffusa su scala sufficientemente ampia, i capitalisti che non la adotteranno saranno rapidamente esclusi dal mercato. L’impresa che, nonostante le innovazioni di processo, ancora utilizzi la vecchia tecnica, ottenendo una merce teoricamente meno precisa e certamente con un valore individuale – ossia il numero di ore di lavoro contenute nella singola unità – superiore, sarà costretta a vendere ad un prezzo inferiore a quello che dovrebbe corrispondere al proprio valore. Questo è il processo che naturalmente la traghetterà verso un’inesorabile crisi, poiché il mercato non le garantirà di realizzare tutto il plusvalore prodotto; essa, infatti, sarà costretta, per ovvî motivi, a porre un prezzo orientativamente in linea con quello di mercato – che è più basso perché determinato in base alla nuova tecnica produttiva, risparmiatrice di lavoro – oppure, potrà decidere di imporre il proprio prezzo individuale (più alto di quello attorno a cui gravitano la maggioranza dei prezzi dei concorrenti), trovandosi però, inevitabilmente, dinanzi a grandi difficoltà nella vendita delle merci prodotte.

D’altra parte, qualora la tecnica ancor più risparmiatrice di lavoro venga appropriata (o creata) da un solo capitalista che produca il medesimo tipo di merce, costui troverà, al contrario, conveniente, avendone la possibilità, di alienare la propria merce al prezzo di mercato (questa volta più alto di quello individuale), accaparrandosi così non già il profitto normale, ma un extraprofitto. In altri termini potrà lucrare grazie al fatto di essere stato il primo ad adottare la nuova tecnica. In una fase di crisi come quella attuale, è normale che di fronte alla difficoltà di accumulazione, e di diminuzione tendenziale del tasso di profitto, sia fondamentale e, per certi versi un obiettivo primario, accaparrarsi quote di profitto eccedenti quello normale.

Il sistema teorico marxiano, del resto, si basa imprescindibilmente sulla teoria del valore descritta dettagliatamente, non a caso, nei primi capitoli del primo libro del Capitale. In sintesi, il numero di ore lavoro socialmente indifferenziato contenuto in ogni merce è quello che determina il valore (di scambio) di una singola merce. Inoltre, il valore di mercato di una merce, definito sulla base delle ore di lavoro socialmente necessario a produrla, tiene anche conto della vendibilità di essa nella circolazione, e quindi se è sovraprodotta oppure no. Tale entità è pari alla norma della distribuzione delle tecniche – unione di capitale costante e variabile – esistenti in un determinato momento storico. Tale (neo)valore contiene, oltre all’usura di capitale fisso e circolante, prevalentemente l’equivalente del valore già anticipato ai lavoratori sotto forma di salari e, cosa che più interessa ai capitalisti, il plusvalore. Attorno al valore di mercato gravita (seguendo le leggi della sregolatezza) il prezzo di mercato di una certa tipologia merce, così come il profitto sarà l’espressione monetaria del plusvalore che è il fattore che determina l’accumulazione netta del capitale. Ogni singolo capitalista organizza la produzione in base al contemporaneo stato della tecnica portando dunque al mercato la merce che incorpora un valore individuale che può rispettivamente essere maggiore, minore o uguale al valore medio sociale in base alla “modernità” della tecnica che utilizza: esso è l’elemento su cui si basa il prezzo di mercato, ossia quello a cui la maggioranza delle merci di un certo tipo viene venduto. Se il valore individuale è inferiore rispetto al valore medio sociale, l’alienazione della merce frutterà al singolo capitalista un guadagno in termini monetari relativamente superiore rispetto a quanto prodotto in termini di valore e plusvalore. In questo caso, la trasformazione monetaria del valore contenuto nella merce permetterà al singolo capitalista una sottrazione di plusvalore complessivamente prodotto dalla classe dei capitalisti, a tutto danno dei fratelli nemici: egli percepirà infatti un profitto maggiore rispetto a quanto teoricamente gli sarebbe spettato qualora la maggioranza dei capitalisti avesse organizzato la produzione con le medesime tecniche da lui utilizzate. Il contrario avviene, specularmente, nel momento in cui il valore individuale è superiore a quello medio sociale. Ne consegue che il capitalista che utilizza una tecnologia più avanzata, che permette di produrre una merce omogenea ad altre con un minor dispendio di lavoro rispetto alla media dei capitalisti, riuscirà a sottrarre maggiori quote dal monte di plusvalore prodotto, realizzando così una accumulazione di capitale superiore rispetto agli altri capitali impegnati nella stessa sfera di produzione.

Questo sistema di “furti” incrociati è stato legalmente organizzato attraverso il sistema dei brevetti (nazionali o sovranazionali) che ha, appunto, lo scopo di garantire i cosiddetti diritti di proprietà intellettuale, cristallizzando le innovazioni tecnologiche per un determinato periodo e impedendo agli altri capitalisti di appropriarsene senza costi, cosa che, altrimenti, stimolerebbe nell’immediato una convergenza del valore medio sociale ad un livello più basso, ossia quello individuale, proprio del capitalista che per primo è riuscito ad appropriarsi dell’innovazione, più conveniente in termini di valore, prodotta dai lavoratori del reparto di ricerca e sviluppo della propria azienda. È questa la ragione per cui la rincorsa al brevetto (locale o internazionale) è cresciuta a tassi incredibilmente elevati già dall’inizio della crisi quarantennale di cui oggi vediamo i risultati più drammatici. È chiaro, pertanto, che l’ottenimento di un brevetto diviene fondamentale, poiché, per quanto esposto, il primo che giunge ad appropriarsi privatamente di un’innovazione – ossia di un mutamento (o salto) tecnologico – ha, in un primo momento, la possibilità di usurpare quote di plusvalore prodotte da altri con una tecnologia più arretrata (lucrando appunto sulla differenza tra valore individuale e valore medio sociale) e, dall’altra di poter ingrandirsi acquisendo (o fondendosi) con quei capitali che, non essendo stati in grado di adeguarsi tecnologicamente, dell’innovazione sono divenuti, nel frattempo, vittime.

In particolare con l’incalzare della crisi, l’appropriazione privata del processo tecnologico è divenuta talmente importante che ogni singolo capitalista si è dotato di strumenti sempre più raffinati e aggressivi, tanto da far parlare persino un economista di chiara fama borghese, W. Baumol [La macchina dell’innovazione. Tecnologia e concorrenza nel capitalismo, Università Bocconi editore, Milano 2004], di una vera e propria “corsa agli armamenti”. Prima che le innovazioni vengano cristallizzate dalla legge, attraverso la brevettazione, una delle armi maggiormente utilizzate è quello dello spionaggio industriale. I costi connessi a questo tipo di pratica, che ha appunto la finalità di permettere al capitalista sciacallo di giungere all’innovazione tecnologica da brevettare prima dei “concorrenti”, sono stati stimati solo per gli Stati uniti nel 2001 pari a 59 mrd $; non a caso Bernard Esambert, presidente dell’Istituto Pasteur dal 1994 al 1997, ha recentemente affermato: «Stiamo vivendo in uno stato di guerra economica mondiale, e questa non è solamente una metafora militare… le industrie stanno realmente armandosi, e i disoccupati sono gli incidenti di percorso». Difatti, dopo la fine dell’Urss, molte agenzie di spionaggio, soprattutto dei paesi dell’est europeo, furono smantellate e, conseguentemente, è circolata per l’Europa e gli Usa un gran quantitativo di agenti abili nell’attività che furono rapidamente assunti dalle maggiori aziende mondiali. Addirittura, all’interno di esse, sempre con maggiori investimenti e rapidità vengono create le cosiddette Business or competitive intelligence units con lo scopo di raccogliere informazioni nei modi più diversi, ad esempio frugando nella spazzatura (dumpster diving) o cercando di ottenere informazioni riservate circuendo e ingannando ignari dipendenti (social engineering).

Meno evidente, ma forse ancor più importante, è invece il vero e proprio conflitto che si consuma, quando l’innovazione è pronta per essere brevettata, o quando è già coinvolta nell’iter legislativo di conferimento del diritto oppure addirittura questo lo ha già ottenuto. In particolare in Europa vige una legislazione che permette, maggiormente che altrove, questo tipo di azioni: infatti, nel momento in cui un capitalista presenta all’ufficio sopranazionale (ad es. l’Epo, che offre la tutela legale in tutti i paesi dell’area continentale) la domanda di brevettazione per una determinata merce o metodo produttivo, immediatamente, ossia prima che lo stesso venga concesso in maniera definitiva (cosa che avviene mediamente 3-5 anni dopo), la potenziale innovazione viene resa pubblica anche tramite il sito web dell’organizzazione (da questo momento in poi l’idea riceve la stessa tutela legale che avrebbe qualora il brevetto fosse concesso). All’interno dei reparti di ricerca e sviluppo delle più grandi transnazionali di ogni settore alcuni lavoratori sono addetti proprio al monitoraggio quotidiano di quelle potenziali invenzioni che possono andare ad intralciare lo sviluppo tecnologico delle stesse. Frequentemente accade che, qualora questa tipologia di dipendenti di un grande capitale si accorga delle velleità di un piccolo capitalista di brevettare un’idea che, in qualche maniera, può essere d’intralcio all’attività innovativa della propria azienda – ad esempio perché l’idea proposta è molto simile – immediatamente, attraverso vere e proprie minacce legali (e altre metodologie meno “istituzionali” e raffinate), il piccolo capitale viene indotto ad abbandonare il processo di innovazione perché incapace di sostenere economicamente una guerra legale contro la transnazionale di turno, sebbene sia spesso in grado di provare la giustezza della propria richiesta. Questa è una delle ragioni per cui, specialmente in ambito europeo, si assiste a “ritiri” (withdrawals), spesso “tecnicamente” immotivati dai rapporti di chi analizza l’eventuale presenza dei requisiti di brevettabiltà della potenziale innovazione, di idee proposte per ottenere tutela legale soprattutto da parte di piccoli capitalisti.

Se, per il grande capitale questa prassi è, sulla carta, poco impegnativa e il risultato è quasi sempre garantito, più complesso è l’impegno legato ad un’azione legale (opposizioni) mossa verso concorrenti della stessa entità economica. Lo scopo di questa pratica, sempre più diffusa, è di sospendere, in attesa di giudizio, l’effettivo utilizzo dell’innovazione già prodotta (e brevettata): chiaramente, a differenza dell’aggressione legale al piccolo/medio capitalista, i costi connessi sono maggiori e le conseguenze, anche in termini economici, possono essere gravi sia per il proponente che per il capitale che viene attaccato.

3. Capitale contro lavoratori

Specie per quanto riguarda le cosiddette innovazioni di processo, ossia quelle invenzioni che vanno a ridefinire il metodo di unione tra le condizioni oggettive e soggettive della produzione di merci, emerge, anche con maggior risalto rispetto a quanto esposto in precedenza, il secondo aspetto dell’asocialità del “progresso” tecnologico, ossia quello che mostra come esso sia ulteriore strumento di coercizione della classe dominante borghese su quella subalterna dei lavoratori, per molteplici ragioni.

Innanzitutto, l’utilizzo capitalistico delle innovazioni meccaniche consente in maniera fondamentale di «abbreviare quella parte della giornata lavorativa che l’operaio usa per sé stesso, per prolungare quell’altra parte della giornata lavorativa che l’operaio dà gratuitamente al capitalista e un mezzo per la produzione di plusvalore» [C, I.13]. Dunque, il semplice impiego di nuove macchine, aumenta la produttività del lavoro vivo, permettendo così una maggiore accumulazione di plusvalore, ferme restando le altre condizioni della produzione. Un’innovazione tecnologica, infatti, viene introdotta solo qualora il valore prodotto da un singolo lavoratore, a giornata lavorativa invariata, sia considerata superiore e ciò, inevitabilmente, comporta che il tempo di produzione del valore necessario alla riproduzione della forzalavoro sia inferiore, permettendo così automaticamente un maggiore sfruttamento da parte del capitalista: sarebbe del resto bizzarro immaginare che una merce di proprietà del capitale venga utilizzata per scopi differenti dal godimento della stessa classe (o del singolo appartenente) non intaccando le condizioni dell’operaio complessivo.

In precedenza si sono sommariamente discussi i motivi principali per cui lo sviluppo tecnologico promosso dal singolo capitalista assume l’obiettivo di far diminuire il valore (e il prezzo) della propria merce. Per far ciò egli incontra la necessità di procedere alla sostituzione del lavoro vivo con lavoro morto, cosa che accade molto spesso durante le cosiddette “riorganizzazioni” industriali. I macchinari, infatti, a differenza della forza-lavoro, hanno il vantaggio di trasmettere alla merce solamente la parte di valore complessivo usurata nel processo produttivo che sarà minore, quanto maggiore sarà la loro vita complessiva. L’unico limite che il capitale incontra in questo tipo di processo necessario consiste nel fatto che il valore necessario alla loro produzione deve essere inferiore rispetto a quanto il loro uso ne contribuisca a risparmiare. A riguardo, è frequente osservare come alcune tecnologie, specie nei paesi poveri, non vengano ancora applicate proprio perché il valore della forza-lavoro locale è ancora più basso rispetto a quanto il macchinario permetterebbe di risparmiare.

Quel che Marx chiama «economia del capitale costante», dunque consiste nel ridurre il più possibile il costo connesso all’appropriazione di lavoro vivo altrui, determinando così un aumento della sua produttività che ha, in un primo momento, un effetto diretto sul saggio di profitto: nel caso limite in cui il costo di macchinari e materie prime fosse nullo, esso raggiungerebbe il livello massimo, essendo esattamente identico al saggio di plusvalore, ferma restando la variabilità determinata dalla circolazione delle merci, ossia «a prescindere da tutte le modificazioni apportate dal sistema creditizio, da tutte le soperchierie e truffe che i capitalisti commettono l’uno a danno dell’altro, e infine da ogni favorevole scelta del mercato» [C; III.7]. In questo caso limite e astratto, il costo del capitale costante per l’utilizzo della forza-lavoro sarebbe nullo, e il capitalista avrebbe la possibilità di appropriarsi del lavoro pagato e non pagato in maniera totalmente gratuita, permettendo una opportuna accumulazione di capitale che «dipende ancor più dalla produttività che dalla massa di lavoro impiegato» [C, III.5]. Oltretutto, le macchine, essendo il mezzo più infallibile e adeguato ad accorciare il tempo di lavoro necessario alla produzione di una merce, in quanto depositarie del capitale, divengono «il mezzo più potente per prolungare la giornata lavorativa al di là di ogni limite naturale. Esse creano da un lato condizioni nuove che mettono il capitale in grado di lasciar briglia sciolta a questa sua tendenza costante, dall’altro creano motivi nuovi per istigare la sua brama di lavoro altrui» [C, I.13]: solamente la debolezza fisica e psicologica agiscono da limite a tale cattiva infinità del capitale.

Riassumendo, quindi, il grado di sfruttamento dell’operaio complessivo viene fortemente agevolato dal progresso tecnico in quanto esso agisce sul plusvalore relativo, su quello assoluto e sul valore della forza-lavoro (in riduzione) attraverso la disoccupazione tecnologica e la progressiva dequalificazione dei lavoratori addetti al funzionamento dei nuovi macchinari.

Da questo breve ragionamento dovrebbe emergere che, al contrario di quanto si vuol far credere oggi, le «invenzioni meccaniche» sono introdotte senza il minimo scopo filantropico o per alleviare la fatica umana quotidiana (si veda J. S. Mill): esse, correttamente, rivoluzionano dalle fondamenta la mediazione formale del rapporto capitalistico, cioè il contratto fra operaio e capitalista aumentando tendenzialmente la pressione della classe dominante su quella subalterna. È, tuttavia, di fondamentale importanza sottolineare come l’azione generalmente negativa del progresso tecnologico sulle condizioni della classe dei lavoratori sia vincolata alla proprietà del capitale e all’uso da parte dei suoi singoli agenti: con un assetto proprietario collettivo dei mezzi di produzione, l’innovazione, allo stesso tempo causa e risultato dello sviluppo delle forze produttive, agirebbe in maniera del tutto opposta.

4. Capitale contro se stesso

Si è appena osservato come l’innovazione di processo determini, generalmente, un aumento del saggio di sfruttamento dell’operaio complessivo principalmente attraverso l’intensificazione della giornata lavorativa e il suo prolungamento. Poiché l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro è, probabilmente, la causa antagonistica che maggiormente può contrastare o neutralizzare, momentaneamente, la legge generale della caduta del saggio di profitto (confermandola, quindi, “tendenziale”), lo sviluppo tecnologico, a prima vista, potrebbe apparire come un modo per moderare efficacemente ogni fase della crisi immanente. Tuttavia, lo stesso Marx definisce «vero segreto» della caduta tendenziale del saggio di profitto il fatto che tutti i metodi che puntano all’aumento del plusvalore relativo (e assoluto), mentre hanno l’obiettivo di convertire in plusvalore la maggior quantità possibile di una quantità di lavoro, tendono ad impiegare una quantità di lavoro vivo sempre inferiore rispetto al capitale complessivo anticipato (costante e variabile). Quindi, «le medesime cause che permettono di aumentare il grado di sfruttamento del lavoro, impediscono che – impiegando lo stesso capitale complessivo – venga sfruttata la stessa quantità di lavoro di prima» [C, III.14]. In sostanza, lo sviluppo tecnologico determina sicuramente un aumento del saggio di sfruttamento del lavoro ma, allo stesso tempo, agisce come forza che diminuisce la massa di plusvalore prodotta: ciò, perché le innovazioni puntano, sia a rendere la merce a più buon mercato che a migliorarla qualitativamente, per mezzo della sostituzione di lavoratori con macchinari sempre più precisi ed “economici”: dunque, il saggio di plusvalore, certamente maggiore, ma comunque limitato per natura almeno dalla durata dell’intera giornata, viene moltiplicato per un numero di lavoratori inferiore determinando la generale riduzione della massa di plusvalore prodotto.

In termini algebrici, lo sviluppo della forza produttiva del lavoro (l’innovazione), determina sia una riduzione del numeratore (massa del plusvalore) che un aumento del denominatore (capitale complessivo) del saggio di profitto, candidandosi così, contraddittoriamente, ad essere uno dei fattori più importanti del declino complessivo e tendenziale del saggio di profitto. L’immanenza di questa legge è confermata dal fatto che se l’entità del capitale complessivo (e della composizione organica) è illimitata e dunque adeguata alla brama di produzione “infinita” di merce da parte del capitale, il plusvalore ha un limite naturale: così come la giornata lavorativa necessaria al lavoratore per la riproduzione del proprio salario è limitata da un minimo fisico di merci, alla stessa maniera, anche il plusvalore ha un limite fisico nella durata della giornata lavorativa «ossia nella quantità complessiva del tempo di lavoro giornaliero che l’operaio può fornire in generale senza rendere impossibile la conservazione e riproduzione della sua forza-lavoro» [C, III.50]. Questa brama, sebbene sia immanentemente iscritta nell’immaginario codice genetico del modo di produzione organizzato dalla dittatura della borghesia è, per dirla con Hegel, una cattiva infinità in quanto «aspetta sempre delle nuove parti, delle nuove parti da aggiungere, ma non c’è veramente la coniugazione del finito con l’infinito»: essa trova un limite invalicabile nella finitezza del saggio di plusvalore producibile e, oltretutto, nella dimensione del mercato, luogo in cui avviene la sua trasformazione in termini monetari (profitto).

5. Imperialismo e innovazione

La petulante richiesta da parte dell’Ue di incrementare il quoziente di spesa in ricerca e sviluppo rispetto alla produzione globale (il Pil) di ogni paese membro entra perfettamente in questo contesto: la “Agenda di Lisbona”, condivisa e sottoscritta da tutti i rappresentanti dei paesi dell’Ue all’inizio del secolo, prevede esattamente che la crescita dell’area sia «guidata dall’innovazione» con il dichiarato obiettivo di colmare il divario esistente con il capitale prevalentemente legato al dollaro. Su questo punto, e in pochi altri, emerge come d’incanto che gli interessi economici tutelati dall’Ue sono dichiaratamente in posizione antitetica rispetto a quelli difesi dagli Usa. Su un argomento così decisivo, la tanto decantata “bandiera d’occidente”, sotto cui i sicofanti della politica e dell’economia narrano di una duratura coalizione del mondo libero e civile [imperialista] contro il “satanismo” mediorientale, viene immediatamente ammainata: si manifesta in questa maniera in tutta la sua mostruosa essenza la contraddizione interna alla classe dei capitalisti che si concreta storicamente nella fase imperialistica transnazionale dominata dallo scontro tra le aree valutarie.

Da questo punto di vista, se fino ad ora i capitali che basano la propria attività brevettuale sulle virtù del dollaro si sono posti in una posizione di assoluta preminenza (con grande distacco sugli inseguitori tedeschi), la violenta ascesa della realtà cinese potrebbe, anche qui, rimescolare le carte in modo chiaramente svantaggioso per gli attuali “primi della classe”. Fino alla fine del secolo scorso, infatti, il processo innovativo cinese non era di particolare rilievo sia per quanto riguardava il piano per gli investimenti in ricerca e sviluppo che per le idee originali sviluppate: basandosi fondamentalmente sull’imitazione dei prodotti finiti e processi già esistenti nei paesi occidentali, come in Giappone nel II dopoguerra, violando più volte le normative in ambito Omc, destava più preoccupazioni alla piccola borghesia che ai grandi capitali.

Tuttavia, nel nuovo millennio, accanto a tale fenomeno che si è solo modestamente ridimensionato a seguito dell’ingresso del paese nell’Omc, è avvenuta una netta inversione di tendenza che ha determinato conseguenze indubbiamente rilevanti, specie dal punto di vista qualitativo. Il PCC ha da allora compreso che, per competere realmente con le altre economie imperialistiche, sarebbe stato necessario intraprendere un percorso di finanziamenti crescenti nei varî settori della ricerca e sviluppo e renderne più efficiente l’intera struttura innovativa. I risultati sono stati immediatamente floridi: nel 2000, secondo il Wipo – organizzazione mondiale per i diritti intellettuali, legata all’Omc – è aumentato del 212% rispetto all’anno precedente il numero di brevetti di proprietà della Cina, che è così divenuta in pochi anni il quinto stato al mondo per quantità; tuttavia, se si conteggiassero i brevetti in base alla nazionalità dell’inventore e non dell’azienda – che detiene il diritto di proprietà e quindi di utilizzo e, ovviamente, di sfruttamento economico – probabilmente già da adesso il Dragone asiatico potrebbe superare gli Usa data la numerosa presenza di capitali stranieri in Cina che impiegano, oltre alla mano d’opera, anche personale tecnico-scientifico locale. Questo elemento in prospettiva diviene molto indicativo. La scelta politica del Pcc non è, infatti, limitata alla determinazione – diretta o indiretta – dell’incremento di finanziamenti alle imprese private o pubbliche, ma consiste anche nel dedicare una parte molto consistente dei piani al miglioramento delle capacità e conoscenze dei lavoratori cinesi, in modo da poter contare, in un futuro molto prossimo su validissimi ricercatori formati altrove e rientrati in patria – per contratto statale – alla fine della specializzazione.

Tuttavia, le statistiche sull’incremento dei brevetti rilasciati in Cina hanno stimolato recentemente alcune discussioni. In altri termini, ciò che viene contestato al governo – nell’ottica di una contrapposizione tra capitali legati a valute differenti – è il fatto che essi vengano concessi molto generosamente con lo scopo di “gonfiare” in maniera artefatta e poco aderente la realtà la dinamica del processo innovativo locale (e renderlo coerente con gli obiettivi predisposti in fase di pianificazione). È molto difficile smentire o al contrario aderire a entrambe le ipotesi, proprio per la mancanza di elementi oggettivi che possano agire da sostegno a queste osservazioni. Quel che però si può senza dubbio sostenere è che, in generale, gli uffici brevettuali nazionali tendono a elargire in maniera molto più semplificata, economica e rapida (rispetto agli analoghi internazionali) tutele brevettuali (talvolta creando delle difficoltà quasi inestricabili dal punto di vista legale). Inoltre, esistono i cosiddetti brevetti triadici (triadic patents) la cui contabilità può senza dubbio permettere di aggirare eventuali numeri poco veritieri e modificati ad hoc. Con la locuzione triadic patents si intendono quelle domande di brevettazione che vengono presentate contemporaneamente ai tre più importanti uffici brevettuali del mondo: Epo (European patent office), Uspto (US patent and trade office), Jpo (Japanese patent office). Chiaramente le statistiche relative a questi brevetti includono un sottoinsieme delle imprese innovative di un qualsiasi spazio economico, selezionando le più avanzate, ossia quelle che si collocano sulla frontiera della tecnologia. Ciò è dovuto al fatto che la semplice presentazione della domanda di protezione intellettuale nei tre spazi economici costa poco meno di circa 100 mila euro e non c’è alcuna garanzia di conseguimento del diritto: pertanto è una questione di pertinenza esclusiva di chi vede nella innovazione una prospettiva strategica di sviluppo. Da questo punto di vista, le aziende cinesi mostrano un livello di brevettazione ancora basso rispetto a quello di Usa e Giappone, pur avendo già raggiunto (e superato), in termini assoluti, Francia e Italia e avvicinandosi progressivamente alla Germania. Tuttavia, ciò che impressiona è il tasso di crescita dagli inizi del secolo che, se per gli inventori cinesi è monotonicamente positivo, nel caso delle imprese con sede nell’Occidente o in Giappone, specie dopo il 2008, assume una dinamica tendenzialmente in forte ribasso.

L’attività cinese, in un’ottica imperialistica dominata dallo scontro valutario, non può e non deve essere separata dal ruolo dell’organizzazione euro-asiatica, la “Cooperazione di Shanghai” che, anche in questo ambito, dimostra di essere, probabilmente, il “soggetto” da cui dipendono più strettamente le sorti dei capitali basati sul dollaro. Infatti la Russia, anch’essa tra i membri effettivi, a seguito di una evidente ripresa economica, dovuta in particolare all’evoluzione degli assetti proprietari del comparto energetico principale del mercato mondiale, ha nuovamente prodotto un flusso di ricerche e innovazioni che sempre più si avvicinano ai notevoli risultati raggiunti dall’Urss alcuni decenni fa. In particolare, l’elevato interesse per la ricerca su processi e prodotti di avanzato contenuto tecnologico, in particolare sulle Ict – tecnologie legate a informazione e comunicazione – e su quelli del comparto della difesa, biotecnologia e aerospaziali, sicuramente le più profittevoli e quelle che più di tutte hanno un effetto indiretto e positivo in tutti gli altri settori, la proiettano immediatamente ai vertici delle classifiche stilate dagli organismi sovranazionali.

6. Conclusioni

Con questo breve articolo si è dunque voluto fornire qualche spunto teorico necessario a sfatare sia il presunto carattere sociale/filantropico dell’innovazione ma soprattutto la sua capacità di superare qualsiasi fase di crisi (come quella attuale) nel modo di produzione capitalistico. Riepilogando, dunque, abbiamo osservato come l’asocialità del progresso tecnologico è garantita dall’assetto stesso del capitalismo e dalle sue leggi intrinseche e fondamentali: essa si concreta nella lotta fratricida tra capitali e nell’aumento del dominio del capitale sui lavoratori. Questo carattere è endemico, in quanto basato sull’appropriazione privata dei mezzi di produzione e sulla necessità di accumulazione attraverso la produzione diretta o pure la detrazione di quote di plusvalore prodotte altrove: dunque, i suoi eventuali benefici, con buona pace dei proclami volontaristici di economisti “illuminati”, sono anch’essi necessariamente privati dal godimento pubblico (a meno di eventuali, ritardate e marginali ricadute favorevoli). Lo straordinario e contraddittorio sviluppo del sistema cinese, non ha fatto altro che rimarcare tutte le tendenze tipiche del capitalismo nella sua fase superiore. Il monopolio della proprietà dei frutti della ricerca scientifica si è rafforzato, soprattutto nei settori high tech, attraverso un’evidente polarizzazione da parte di pochissimi trust transnazionali. Ciò ha inasprito inevitabilmente i rapporti interimperialistici, generando un nuovo piano che vede contrapporsi, questa volta tra pari, capitale legato al dollaro/euro contro i fratelli nemici asiatici. Da questo punto di vista la guerra commerciale legata al caso Huawei sulle licenze 5G è esemplare.

Per quanto riguarda, la presunta capacità dello sviluppo tecnologico di essere causa antagonista alla caduta tendenziale del saggio di accumulazione, abbiamo mostrato come in una fase come quella attuale, in cui i fenomeni legati alla crisi quarantennale immanente emergono in tutta la loro violenza, l’innovazione tecnologica al contrario, determini un ancor più accelerato sviluppo delle forze produttive, cosa che, naturalmente, traghetta lo stato di salute del capitale in uno stadio più serio ed irreversibile.

In questa maniera, essa contraddittoriamente – in modo prevalente rispetto ad altri fattori – pone le basi per un superamento dialettico del modo di produzione attuale: da questo punto di vista, ancora una volta, emerge in tutta la sua cruda realtà che «il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso».

Nessun commento:

Posta un commento