Pubblicato
su “materialismostorico. Rivista di filosofia, storia e scienze
umane", n° 1
(2019), TECNOLOGIA
E IMPERIALISMO. CRISI ECONOMICA, PRODUZIONE INTELLETTUALE,
SFRUTTAMENTO E CONFLITTUALITÀ TRA CAPITALI,
a cura di Francesco
Schettino,
pp. 276-292,
licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
Francesco Schettino (Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli)1. Introduzione
Il dominio della
casse borghese sulla classe proletaria (o lavoratrice), quindi
subalterna, è l’elemento che innegabilmente qualifica il modo di
produzione capitalistico; il rapporto di proprietà instaurato tra le
due classi – perno attorno a cui ruota tutto il sistema – si
concreta nella produzione di plusvalore, ossia l’appropriazione da
parte della classe dominante di una parte dell’attività erogata da
quella subalterna, che è l’essenza della riproduzione
dell’economia nel suo complesso. Se per il capitale nella sua
astratta unicità ciò che interessa è l’incremento della
massa di plusvalore e, ancor di più, essa in relazione al valore
anticipato dalla totalità dei capitalisti, dal punto di vista del
capitale individuale la produzione di plusvalore necessita di
“schiudersi”, ossia trasformarsi per divenire utile,
realizzandosi quindi in forma monetaria (quella del profitto).
L’incremento del plusvalore, ossia dell’appropriazione di lavoro
altrui non pagato, è dunque la condizione principale per cui
l’accumulazione possa procedere a tassi crescenti ed è per questo
motivo l’obiettivo prioritario del sistema nella sua totalità e
quindi del singolo agente del capitale.
La contraddittorietà
tra unicità del capitale e molteplicità dei suoi
agenti si svolge mediata dalla concorrenza e agisce principalmente
nel momento della trasformazione del plusvalore in profitto e del
saggio di plusvalore in tasso di profitto: infatti, se la massa
del profitto coincide con quella del plusvalore, non subendo le
fluttuazioni del valore, ciò non avviene per i rispettivi tassi.
In particolare, l’agire della concorrenza, nella fase della
circolazione e le differenze nella composizione organica dei diversi
capitali, rende impossibile tale convergenza. Di conseguenza, le
strategie dei diversi partecipanti al “banchetto” del frutto
espropriato dall’attività dell’operaio complessivo
necessariamente si contrappongono avendo in comune l’obiettivo
dell’incetta del maggior quantitativo di fette possibile. Dunque,
nella fase della produzione, fermo restando il morboso interesse del
capitalista per la quantità di ore non pagate ai propri lavoratori,
appare lampante l’importanza della riduzione dell’esborso
sostenuto anche per il capitale costante, macchinari e materie prime.
La trasformazione di
plusvalore in profitto implica, infatti, che «se il plusvalore è
dato, il saggio del profitto può essere aumentato soltanto mediante
una diminuzione del valore del capitale costante necessario per la
produzione delle merci» [Marx, Il capitale, III.5]: in
sostanza, fermo il numeratore del rapporto che rappresenta il saggio
del profitto, il capitale individua nella diminuzione del
denominatore il fattore complementare all’aumento dello
sfruttamento per poter incrementarne l’entità. In altri termini
una riduzione del valore di macchinari e materie prime, ossia quella
che Marx definisce «economia del capitale costante», implica che il
costo connesso all’appropriazione di lavoro vivo altrui diminuisca,
permettendo così un incremento della sua produttività che a sua
volta si riflette direttamente sul saggio di profitto: nel caso
limite in cui il costo di macchinari e materie prime fosse nullo,
esso raggiungerebbe il livello massimo, essendo esattamente identico
al saggio di plusvalore, ferma restando la variabilità determinata
dalla circolazione delle merci, ossia «a prescindere da tutte
le modificazioni apportate dal sistema creditizio, da tutte le
soperchierie e truffe che i capitalisti commettono l’uno a danno
dell’altro, e infine da ogni favorevole scelta del mercato» [C,
III.7]. In questo caso, il costo del capitale costante per l’utilizzo
della forza-lavoro essendo nullo, il capitalista potrebbe
appropriarsi del lavoro pagato e non pagato in maniera totalmente
gratuita, permettendo una opportuna accumulazione di capitale che
«dipende ancor più dalla produttività che dalla massa di lavoro
impiegato» [C, III.5].
Chiarita la
centralità del concetto in analisi – che Marx specifica come «il
fanatismo per l’economia dei mezzi di produzione» – il passo per
comprendere come ciò sia determinato principalmente dal processo
innovativo è sufficientemente breve. Le conseguenze che possono
scaturire da una sostenuta produzione di invenzioni sono
principalmente tre:
la prima, che
generalmente definiremo come di “diminuzione del valore della
merce” è causata dalla riduzione della parte aliquota del valore
complessivo della macchina che, essendo più perfezionata, cede
alla merce finita. Ciò avviene sia qualora il valore della macchina
vecchia coincida con quella nuova, ma anche se questa
complessivamente ha un valore superiore. Per quanto osservato,
accanto a questo effetto c’è la diminuzione di ore di lavoro vivo
contenute all’interno della merce finita, in quanto il
perfezionamento tecnologico permette un minor lavoro da parte
dell’operaio addetto alla macchina.
La seconda,
conseguente, è un incremento del saggio di sfruttamento dell’operaio
in quanto a parità di ore lavorate si sviluppa una maggiore
intensificazione del lavoro – unità di merce prodotta per ora –
fermo restando il salario erogato. Infine, nella fase della
circolazione, tale diminuzione del valore complessivo della
merce individuale permette un drenaggio maggiore di plusvalore
prodotto socialmente e, quindi, una condizione di asfissia per i
capitalisti che non sono in grado di adottare la medesima tecnologia
“ottima”.
In una fase di crisi
il processo innovativo assume ovviamente una rilevanza cruciale,
ancora maggiore rispetto a periodi di normalità, in quanto, essendo
la crisi caratterizzata da sovrapproduzione di merci, da
caduta tendenziale del saggio di profitto e, dunque, dalla tendenza
al monopolio, gli effetti indicati si amplificano poiché tali
variabili sono più “sensibili” rispetto alla normalità.
L’azione sul saggio di profitto sembrerebbe benefica. Infatti, se
da una parte l’economia di capitale costante direttamente ne
incrementa l’entità, d’altra parte, la concorrenza tra “fratelli
nemici”, promuovendo prevalentemente una tecnologia cosiddetta
“risparmiatrice di lavoro”, determina un incremento della
composizione organica del capitale capovolgendo spesso
l’effetto in termini di saggio di profitto. La diminuzione del
valore a seguito dell’innovazione determina in ogni caso un
incremento della sovrapproduzione. Infatti, sia che venga introdotta
da un singolo o da una gran parte della classe, essa genera un numero
crescente di capitali in asfissia perché proprietari di una merce di
valore individuale superiore alla “norma” e quindi da destinare
ai magazzini perché ragionevolmente invendibile. Entrambi questi
fenomeni confluiscono logicamente nella tendenza storica alla
centralizzazione dei capitali esistenti, ossia al fallimento o al
“quasi-fallimento” dei singoli che sono fuori mercato che vengono
naturalmente fagocitati – attraverso fusioni e acquisizioni
incrementate non a caso violentemente negli ultimi decenni – da
quelli più affamati e con una potenzialità di accumulazione quindi
superiore che si propongono di avvicinarsi asintoticamente a
una condizione monopolistica. Pertanto, l’innovazione appare
come una necessità per il capitalista individuale gettando però
in maniera contraddittoria le basi per l’inasprimento della crisi
in una fase recessiva del sistema capitalistico come quella attuale.
Da questo punto di vista è importante sottolineare come spesso,
specie in un contesto di lotta efferata tra capitali, ciò
avvenga anche in maniera indiretta, come avvenuto nel celebre
processo di invenzione della rete internet.
La fenomenologia dei
concetti che abbiamo appena affrontato è densa di elementi che vanno
necessariamente affrontati nell’attuale fase imperialistica
transnazionale. Con un efficace uso ideologico delle parole, infatti,
gli agenti del capitale hanno svuotato quasi completamente il
significato di innovazione relegandolo ad un sinonimo di
progresso o di benessere mentre, come visto, tale processo
deve essere scientificamente inteso come capacità di
incrementare la produttività dei lavoratori – acquisizione di
neo-valore al minimo costo – in particolare, e il profitto del
capitalista individuale proprietario dell’innovazione, più
in generale. La riduzione dei prezzi al consumo di merci ad alto
contenuto tecnologico – elemento in cui gran parte del
proletariato, e non, individua l’evoluzione di tale processo –
sono, infatti, la parvenza di un progresso “filantropico”,
quando, invece, esso è il riflesso più evidente e tangibile del
funzionamento della legge del valore di Marx, basata sullo
sfruttamento di una classe sociale su un’altra.
Non si tratta
affatto di una casualità che proprio dall’inizio degli anni
settanta, in coincidenza con l’inizio della crisi sancita dal
fallimento degli accordi di Bretton Woods, gli investimenti
pubblici e privati in ricerca e sviluppo abbiano registrato una
violenta crescita e, con essi, sia incrementato con altrettanta
veemenza il numero di brevetti tanto a livello europeo quanto
statunitense, ossia lo stato più in sofferenza. L’assottigliamento
tendenziale del saggio di profitto dal lato della produzione, e i
fenomeni di sovrapproduzione, centralizzazione e conseguente tendenza
al monopolio – ossia la nascita e l’inasprimento della lotta tra
capitali [concetto frequentemente edulcorato col termine
“concorrenza”] – sono i fattori che, prevalentemente, hanno
elevato l’innovazione a categoria cruciale per la sopravvivenza
(accumulazione) stessa dei singoli capitalisti generando però
contraddittoriamente un’accelerazione del processo critico
del sistema produttivo nel suo complesso, in particolare con
la sempre più frequente e diffusa sostituzione di lavoro vivo con
quello morto. In questo appare in tutta la sua inevitabile veemenza
la sublimazione del movimento contraddittorio mediato
dall’anarchia delle sregolate leggi del capitale.
L’incremento del
numero di brevetti, tuttavia, non implica necessariamente un
paritario aumento delle innovazioni. Infatti, ciò che questa
evidenza mostra, è innanzitutto come il ricorso alla tutela legale
delle invenzioni sia certamente cresciuto: ossia, di fronte ad una
corsa alla “guerra economica” tra i capitali in ogni parte del
mondo, ferma restando l’importanza dell’invenzione in sé, ciò
che in una fase critica diviene altrettanto fondamentale, è la
possibilità di poter ottenere il massimo rendimento dall’idea
nell’ottica essere più competitivi degli altri, puntando così ad
un potenziale extra-profitto. Il brevetto diviene così un
ulteriore valido strumento per fronteggiare con la “spada della
legge”, i concorrenti. È per questo stesso motivo che proprio dal
decennio successivo i tentativi di parare tali veementi colpi si sono
riassunti nell’attività di spionaggio industriale e imitazione.
L’articolo è
organizzato come segue. Nel primo paragrafo verrà espressa la
conflittualità che genera tra capitali nella loro molteplicità,
ossia nella lotta concorrenziale. Successivamente, verrà individuato
il ruolo dell’innovazione come strumento di coercizione della
classe dominante. Infine, verranno esaminate le ragioni di come nella
sua unicità il capitale generi attraverso lo sviluppo tecnologico
molte delle patologie che tendenzialmente lo pongono come limite di
sé stesso.
2. Capitale
contro capitale
La crisi di tipo
capitalistico si caratterizza per le difficoltà di realizzazione del
saggio di plusvalore, problema che poi si trasforma nella
caduta tendenziale del saggio di profitto, nella sovraproduzione di
capitale e quindi nell’incapacità da parte del capitale (inteso
nella sua accezione unitaria) di accumulare e quindi di adempiere
alla sua funzione sociale di autovalorizzarsi ciclicamente. La causa
principale di tale movimento contraddittorio è sicuramente l’aumento
naturale della composizione organica del capitale, cioè
l’incremento proporzionale del capitale costante (capitale fisso e
circolante) rispetto a quello variabile (monte salari) che
naturalmente avviene ad ogni riorganizzazione produttiva degli
stabilimenti e delle fabbriche. Sostanzialmente, quindi, la tendenza
è sostituire il lavoro manuale (umano) con quello delle macchine; e
ciò, oltre a comportare una diminuzione del tasso di plusvalore e,
conseguentemente di profitto, determina, più in generale, una
diminuzione del valore delle singole merci: infatti, «poiché il
capitale non paga il lavoro adoperato, ma il valore della forza
usata, per esso l’uso delle macchine è limitato dalla differenza
tra il valore della macchina e il valore della forzalavoro da essa
sostituita» [Marx, C, I.13,1]. Quando questo processo è
sufficientemente esteso, ovvero, tale innovazione di processo che
risparmia lavoro viene adottata da una maggioranza di produttori di
un determinato bene, si determina anche una diminuzione del valore
sul mercato. Sostanzialmente, quindi, il numero di ore lavoro
socialmente indifferenziato contenuto nella merce il cui processo
produttivo ha subito tale riassetto, diminuisce generalmente. Attorno
ad esso gravita (seguendo le leggi della sregolatezza) il
prezzo di mercato della singola merce da cui, solo successivamente,
verrà a determinarsi il profitto normale.
Nel momento in cui
una nuova tecnica risparmiatrice di lavoro e, quindi, produttrice di
merci più affidabili, viene diffusa su scala sufficientemente ampia,
i capitalisti che non la adotteranno saranno rapidamente esclusi dal
mercato. L’impresa che, nonostante le innovazioni di processo,
ancora utilizzi la vecchia tecnica, ottenendo una merce teoricamente
meno precisa e certamente con un valore individuale – ossia il
numero di ore di lavoro contenute nella singola unità – superiore,
sarà costretta a vendere ad un prezzo inferiore a quello che
dovrebbe corrispondere al proprio valore. Questo è il processo che
naturalmente la traghetterà verso un’inesorabile crisi,
poiché il mercato non le garantirà di realizzare tutto il
plusvalore prodotto; essa, infatti, sarà costretta, per ovvî
motivi, a porre un prezzo orientativamente in linea con quello di
mercato – che è più basso perché determinato in base alla nuova
tecnica produttiva, risparmiatrice di lavoro – oppure, potrà
decidere di imporre il proprio prezzo individuale (più alto di
quello attorno a cui gravitano la maggioranza dei prezzi dei
concorrenti), trovandosi però, inevitabilmente, dinanzi a grandi
difficoltà nella vendita delle merci prodotte.
D’altra parte,
qualora la tecnica ancor più risparmiatrice di lavoro venga
appropriata (o creata) da un solo capitalista che produca il medesimo
tipo di merce, costui troverà, al contrario, conveniente, avendone
la possibilità, di alienare la propria merce al prezzo di mercato
(questa volta più alto di quello individuale), accaparrandosi così
non già il profitto normale, ma un extraprofitto. In altri termini
potrà lucrare grazie al fatto di essere stato il primo ad adottare
la nuova tecnica. In una fase di crisi come quella attuale, è
normale che di fronte alla difficoltà di accumulazione, e di
diminuzione tendenziale del tasso di profitto, sia fondamentale e,
per certi versi un obiettivo primario, accaparrarsi quote di profitto
eccedenti quello normale.
Il sistema teorico
marxiano, del resto, si basa imprescindibilmente sulla teoria
del valore descritta dettagliatamente, non a caso, nei primi capitoli
del primo libro del Capitale. In sintesi, il numero di ore lavoro
socialmente indifferenziato contenuto in ogni merce è quello che
determina il valore (di scambio) di una singola merce. Inoltre, il
valore di mercato di una merce, definito sulla base delle ore di
lavoro socialmente necessario a produrla, tiene anche conto della
vendibilità di essa nella circolazione, e quindi se è sovraprodotta
oppure no. Tale entità è pari alla norma della distribuzione delle
tecniche – unione di capitale costante e variabile – esistenti in
un determinato momento storico. Tale (neo)valore contiene, oltre
all’usura di capitale fisso e circolante, prevalentemente
l’equivalente del valore già anticipato ai lavoratori sotto forma
di salari e, cosa che più interessa ai capitalisti, il plusvalore.
Attorno al valore di mercato gravita (seguendo le leggi della
sregolatezza) il prezzo di mercato di una certa tipologia merce, così
come il profitto sarà l’espressione monetaria del plusvalore che è
il fattore che determina l’accumulazione netta del capitale. Ogni
singolo capitalista organizza la produzione in base al contemporaneo
stato della tecnica portando dunque al mercato la merce che incorpora
un valore individuale che può rispettivamente essere maggiore,
minore o uguale al valore medio sociale in base alla “modernità”
della tecnica che utilizza: esso è l’elemento su cui si basa il
prezzo di mercato, ossia quello a cui la maggioranza delle merci di
un certo tipo viene venduto. Se il valore individuale è inferiore
rispetto al valore medio sociale, l’alienazione della merce
frutterà al singolo capitalista un guadagno in termini monetari
relativamente superiore rispetto a quanto prodotto in termini di
valore e plusvalore. In questo caso, la trasformazione monetaria del
valore contenuto nella merce permetterà al singolo capitalista una
sottrazione di plusvalore complessivamente prodotto dalla classe dei
capitalisti, a tutto danno dei fratelli nemici: egli percepirà
infatti un profitto maggiore rispetto a quanto teoricamente gli
sarebbe spettato qualora la maggioranza dei capitalisti avesse
organizzato la produzione con le medesime tecniche da lui utilizzate.
Il contrario avviene, specularmente, nel momento in cui il valore
individuale è superiore a quello medio sociale. Ne consegue che il
capitalista che utilizza una tecnologia più avanzata, che permette
di produrre una merce omogenea ad altre con un minor dispendio di
lavoro rispetto alla media dei capitalisti, riuscirà a sottrarre
maggiori quote dal monte di plusvalore prodotto, realizzando così
una accumulazione di capitale superiore rispetto agli altri capitali
impegnati nella stessa sfera di produzione.
Questo sistema di
“furti” incrociati è stato legalmente organizzato attraverso il
sistema dei brevetti (nazionali o sovranazionali) che ha, appunto, lo
scopo di garantire i cosiddetti diritti di proprietà intellettuale,
cristallizzando le innovazioni tecnologiche per un determinato
periodo e impedendo agli altri capitalisti di appropriarsene senza
costi, cosa che, altrimenti, stimolerebbe nell’immediato una
convergenza del valore medio sociale ad un livello più basso, ossia
quello individuale, proprio del capitalista che per primo è riuscito
ad appropriarsi dell’innovazione, più conveniente in termini di
valore, prodotta dai lavoratori del reparto di ricerca e sviluppo
della propria azienda. È questa la ragione per cui la rincorsa al
brevetto (locale o internazionale) è cresciuta a tassi
incredibilmente elevati già dall’inizio della crisi quarantennale
di cui oggi vediamo i risultati più drammatici. È chiaro, pertanto,
che l’ottenimento di un brevetto diviene fondamentale, poiché, per
quanto esposto, il primo che giunge ad appropriarsi privatamente di
un’innovazione – ossia di un mutamento (o salto) tecnologico –
ha, in un primo momento, la possibilità di usurpare quote di
plusvalore prodotte da altri con una tecnologia più arretrata
(lucrando appunto sulla differenza tra valore individuale e valore
medio sociale) e, dall’altra di poter ingrandirsi acquisendo (o
fondendosi) con quei capitali che, non essendo stati in grado di
adeguarsi tecnologicamente, dell’innovazione sono divenuti, nel
frattempo, vittime.
In particolare con
l’incalzare della crisi, l’appropriazione privata del processo
tecnologico è divenuta talmente importante che ogni singolo
capitalista si è dotato di strumenti sempre più raffinati e
aggressivi, tanto da far parlare persino un economista di chiara fama
borghese, W. Baumol [La macchina dell’innovazione. Tecnologia e
concorrenza nel capitalismo, Università Bocconi editore, Milano
2004], di una vera e propria “corsa agli armamenti”. Prima che le
innovazioni vengano cristallizzate dalla legge, attraverso la
brevettazione, una delle armi maggiormente utilizzate è quello dello
spionaggio industriale. I costi connessi a questo tipo di pratica,
che ha appunto la finalità di permettere al capitalista sciacallo di
giungere all’innovazione tecnologica da brevettare prima dei
“concorrenti”, sono stati stimati solo per gli Stati uniti nel
2001 pari a 59 mrd $; non a caso Bernard Esambert, presidente
dell’Istituto Pasteur dal 1994 al 1997, ha recentemente affermato:
«Stiamo vivendo in uno stato di guerra economica mondiale, e questa
non è solamente una metafora militare… le industrie stanno
realmente armandosi, e i disoccupati sono gli incidenti di percorso».
Difatti, dopo la fine dell’Urss, molte agenzie di spionaggio,
soprattutto dei paesi dell’est europeo, furono smantellate e,
conseguentemente, è circolata per l’Europa e gli Usa un gran
quantitativo di agenti abili nell’attività che furono rapidamente
assunti dalle maggiori aziende mondiali. Addirittura, all’interno
di esse, sempre con maggiori investimenti e rapidità vengono create
le cosiddette Business or competitive intelligence units con
lo scopo di raccogliere informazioni nei modi più diversi, ad
esempio frugando nella spazzatura (dumpster diving) o cercando
di ottenere informazioni riservate circuendo e ingannando ignari
dipendenti (social engineering).
Meno evidente, ma
forse ancor più importante, è invece il vero e proprio conflitto
che si consuma, quando l’innovazione è pronta per essere
brevettata, o quando è già coinvolta nell’iter legislativo di
conferimento del diritto oppure addirittura questo lo ha già
ottenuto. In particolare in Europa vige una legislazione che
permette, maggiormente che altrove, questo tipo di azioni: infatti,
nel momento in cui un capitalista presenta all’ufficio
sopranazionale (ad es. l’Epo, che offre la tutela legale in tutti i
paesi dell’area continentale) la domanda di brevettazione per una
determinata merce o metodo produttivo, immediatamente, ossia prima
che lo stesso venga concesso in maniera definitiva (cosa che avviene
mediamente 3-5 anni dopo), la potenziale innovazione viene resa
pubblica anche tramite il sito web dell’organizzazione (da questo
momento in poi l’idea riceve la stessa tutela legale che avrebbe
qualora il brevetto fosse concesso). All’interno dei reparti di
ricerca e sviluppo delle più grandi transnazionali di ogni settore
alcuni lavoratori sono addetti proprio al monitoraggio quotidiano di
quelle potenziali invenzioni che possono andare ad intralciare lo
sviluppo tecnologico delle stesse. Frequentemente accade che, qualora
questa tipologia di dipendenti di un grande capitale si accorga delle
velleità di un piccolo capitalista di brevettare un’idea che, in
qualche maniera, può essere d’intralcio all’attività innovativa
della propria azienda – ad esempio perché l’idea proposta è
molto simile – immediatamente, attraverso vere e proprie minacce
legali (e altre metodologie meno “istituzionali” e raffinate), il
piccolo capitale viene indotto ad abbandonare il processo di
innovazione perché incapace di sostenere economicamente una guerra
legale contro la transnazionale di turno, sebbene sia spesso in grado
di provare la giustezza della propria richiesta. Questa è una delle
ragioni per cui, specialmente in ambito europeo, si assiste a
“ritiri” (withdrawals), spesso “tecnicamente”
immotivati dai rapporti di chi analizza l’eventuale presenza dei
requisiti di brevettabiltà della potenziale innovazione, di idee
proposte per ottenere tutela legale soprattutto da parte di piccoli
capitalisti.
Se, per il grande
capitale questa prassi è, sulla carta, poco impegnativa e il
risultato è quasi sempre garantito, più complesso è l’impegno
legato ad un’azione legale (opposizioni) mossa verso concorrenti
della stessa entità economica. Lo scopo di questa pratica, sempre
più diffusa, è di sospendere, in attesa di giudizio, l’effettivo
utilizzo dell’innovazione già prodotta (e brevettata):
chiaramente, a differenza dell’aggressione legale al piccolo/medio
capitalista, i costi connessi sono maggiori e le conseguenze, anche
in termini economici, possono essere gravi sia per il proponente che
per il capitale che viene attaccato.
3. Capitale
contro lavoratori
Specie per quanto
riguarda le cosiddette innovazioni di processo, ossia quelle
invenzioni che vanno a ridefinire il metodo di unione tra le
condizioni oggettive e soggettive della produzione di merci, emerge,
anche con maggior risalto rispetto a quanto esposto in precedenza, il
secondo aspetto dell’asocialità del “progresso” tecnologico,
ossia quello che mostra come esso sia ulteriore strumento di
coercizione della classe dominante borghese su quella subalterna dei
lavoratori, per molteplici ragioni.
Innanzitutto,
l’utilizzo capitalistico delle innovazioni meccaniche consente in
maniera fondamentale di «abbreviare quella parte della giornata
lavorativa che l’operaio usa per sé stesso, per prolungare
quell’altra parte della giornata lavorativa che l’operaio dà
gratuitamente al capitalista e un mezzo per la produzione di
plusvalore» [C, I.13]. Dunque, il semplice impiego di nuove
macchine, aumenta la produttività del lavoro vivo, permettendo così
una maggiore accumulazione di plusvalore, ferme restando le altre
condizioni della produzione. Un’innovazione tecnologica, infatti,
viene introdotta solo qualora il valore prodotto da un singolo
lavoratore, a giornata lavorativa invariata, sia considerata
superiore e ciò, inevitabilmente, comporta che il tempo di
produzione del valore necessario alla riproduzione della forzalavoro
sia inferiore, permettendo così automaticamente un maggiore
sfruttamento da parte del capitalista: sarebbe del resto bizzarro
immaginare che una merce di proprietà del capitale venga utilizzata
per scopi differenti dal godimento della stessa classe (o del singolo
appartenente) non intaccando le condizioni dell’operaio
complessivo.
In precedenza si
sono sommariamente discussi i motivi principali per cui lo sviluppo
tecnologico promosso dal singolo capitalista assume l’obiettivo di
far diminuire il valore (e il prezzo) della propria merce. Per far
ciò egli incontra la necessità di procedere alla sostituzione del
lavoro vivo con lavoro morto, cosa che accade molto spesso durante le
cosiddette “riorganizzazioni” industriali. I macchinari, infatti,
a differenza della forza-lavoro, hanno il vantaggio di trasmettere
alla merce solamente la parte di valore complessivo usurata nel
processo produttivo che sarà minore, quanto maggiore sarà la loro
vita complessiva. L’unico limite che il capitale incontra in questo
tipo di processo necessario consiste nel fatto che il valore
necessario alla loro produzione deve essere inferiore rispetto a
quanto il loro uso ne contribuisca a risparmiare. A riguardo, è
frequente osservare come alcune tecnologie, specie nei paesi poveri,
non vengano ancora applicate proprio perché il valore della
forza-lavoro locale è ancora più basso rispetto a quanto il
macchinario permetterebbe di risparmiare.
Quel che Marx chiama
«economia del capitale costante», dunque consiste nel ridurre il
più possibile il costo connesso all’appropriazione di lavoro vivo
altrui, determinando così un aumento della sua produttività che ha,
in un primo momento, un effetto diretto sul saggio di profitto: nel
caso limite in cui il costo di macchinari e materie prime fosse
nullo, esso raggiungerebbe il livello massimo, essendo esattamente
identico al saggio di plusvalore, ferma restando la variabilità
determinata dalla circolazione delle merci, ossia «a prescindere da
tutte le modificazioni apportate dal sistema creditizio, da tutte le
soperchierie e truffe che i capitalisti commettono l’uno a danno
dell’altro, e infine da ogni favorevole scelta del mercato» [C;
III.7]. In questo caso limite e astratto, il costo del capitale
costante per l’utilizzo della forza-lavoro sarebbe nullo, e il
capitalista avrebbe la possibilità di appropriarsi del lavoro pagato
e non pagato in maniera totalmente gratuita, permettendo una
opportuna accumulazione di capitale che «dipende ancor più dalla
produttività che dalla massa di lavoro impiegato» [C,
III.5]. Oltretutto, le macchine, essendo il mezzo più infallibile e
adeguato ad accorciare il tempo di lavoro necessario alla produzione
di una merce, in quanto depositarie del capitale, divengono «il
mezzo più potente per prolungare la giornata lavorativa al di là di
ogni limite naturale. Esse creano da un lato condizioni nuove che
mettono il capitale in grado di lasciar briglia sciolta a questa sua
tendenza costante, dall’altro creano motivi nuovi per istigare la
sua brama di lavoro altrui» [C, I.13]: solamente la debolezza
fisica e psicologica agiscono da limite a tale cattiva infinità del
capitale.
Riassumendo, quindi,
il grado di sfruttamento dell’operaio complessivo viene fortemente
agevolato dal progresso tecnico in quanto esso agisce sul plusvalore
relativo, su quello assoluto e sul valore della forza-lavoro (in
riduzione) attraverso la disoccupazione tecnologica e la progressiva
dequalificazione dei lavoratori addetti al funzionamento dei nuovi
macchinari.
Da questo breve
ragionamento dovrebbe emergere che, al contrario di quanto si vuol
far credere oggi, le «invenzioni meccaniche» sono introdotte senza
il minimo scopo filantropico o per alleviare la fatica umana
quotidiana (si veda J. S. Mill): esse, correttamente, rivoluzionano
dalle fondamenta la mediazione formale del rapporto capitalistico,
cioè il contratto fra operaio e capitalista aumentando
tendenzialmente la pressione della classe dominante su quella
subalterna. È, tuttavia, di fondamentale importanza sottolineare
come l’azione generalmente negativa del progresso tecnologico sulle
condizioni della classe dei lavoratori sia vincolata alla proprietà
del capitale e all’uso da parte dei suoi singoli agenti: con un
assetto proprietario collettivo dei mezzi di produzione,
l’innovazione, allo stesso tempo causa e risultato dello sviluppo
delle forze produttive, agirebbe in maniera del tutto opposta.
4. Capitale
contro se stesso
Si è appena
osservato come l’innovazione di processo determini, generalmente,
un aumento del saggio di sfruttamento dell’operaio complessivo
principalmente attraverso l’intensificazione della giornata
lavorativa e il suo prolungamento. Poiché l’aumento del grado di
sfruttamento del lavoro è, probabilmente, la causa antagonistica che
maggiormente può contrastare o neutralizzare, momentaneamente, la
legge generale della caduta del saggio di profitto (confermandola,
quindi, “tendenziale”), lo sviluppo tecnologico, a prima vista,
potrebbe apparire come un modo per moderare efficacemente ogni fase
della crisi immanente. Tuttavia, lo stesso Marx definisce «vero
segreto» della caduta tendenziale del saggio di profitto il fatto
che tutti i metodi che puntano all’aumento del plusvalore relativo
(e assoluto), mentre hanno l’obiettivo di convertire in plusvalore
la maggior quantità possibile di una quantità di lavoro, tendono ad
impiegare una quantità di lavoro vivo sempre inferiore rispetto al
capitale complessivo anticipato (costante e variabile). Quindi, «le
medesime cause che permettono di aumentare il grado di sfruttamento
del lavoro, impediscono che – impiegando lo stesso capitale
complessivo – venga sfruttata la stessa quantità di lavoro di
prima» [C, III.14]. In sostanza, lo sviluppo tecnologico
determina sicuramente un aumento del saggio di sfruttamento del
lavoro ma, allo stesso tempo, agisce come forza che diminuisce la
massa di plusvalore prodotta: ciò, perché le innovazioni puntano,
sia a rendere la merce a più buon mercato che a migliorarla
qualitativamente, per mezzo della sostituzione di lavoratori con
macchinari sempre più precisi ed “economici”: dunque, il saggio
di plusvalore, certamente maggiore, ma comunque limitato per natura
almeno dalla durata dell’intera giornata, viene moltiplicato per un
numero di lavoratori inferiore determinando la generale riduzione
della massa di plusvalore prodotto.
In termini
algebrici, lo sviluppo della forza produttiva del lavoro
(l’innovazione), determina sia una riduzione del numeratore (massa
del plusvalore) che un aumento del denominatore (capitale
complessivo) del saggio di profitto, candidandosi così,
contraddittoriamente, ad essere uno dei fattori più importanti del
declino complessivo e tendenziale del saggio di profitto. L’immanenza
di questa legge è confermata dal fatto che se l’entità del
capitale complessivo (e della composizione organica) è illimitata e
dunque adeguata alla brama di produzione “infinita” di merce da
parte del capitale, il plusvalore ha un limite naturale: così come
la giornata lavorativa necessaria al lavoratore per la riproduzione
del proprio salario è limitata da un minimo fisico di merci, alla
stessa maniera, anche il plusvalore ha un limite fisico nella durata
della giornata lavorativa «ossia nella quantità complessiva del
tempo di lavoro giornaliero che l’operaio può fornire in generale
senza rendere impossibile la conservazione e riproduzione della sua
forza-lavoro» [C, III.50]. Questa brama, sebbene sia
immanentemente iscritta nell’immaginario codice genetico del modo
di produzione organizzato dalla dittatura della borghesia è, per
dirla con Hegel, una cattiva infinità in quanto «aspetta sempre
delle nuove parti, delle nuove parti da aggiungere, ma non c’è
veramente la coniugazione del finito con l’infinito»: essa trova
un limite invalicabile nella finitezza del saggio di plusvalore
producibile e, oltretutto, nella dimensione del mercato, luogo in cui
avviene la sua trasformazione in termini monetari (profitto).
5. Imperialismo e
innovazione
La petulante
richiesta da parte dell’Ue di incrementare il quoziente di spesa in
ricerca e sviluppo rispetto alla produzione globale (il Pil) di ogni
paese membro entra perfettamente in questo contesto: la “Agenda di
Lisbona”, condivisa e sottoscritta da tutti i rappresentanti dei
paesi dell’Ue all’inizio del secolo, prevede esattamente che la
crescita dell’area sia «guidata dall’innovazione» con il
dichiarato obiettivo di colmare il divario esistente con il capitale
prevalentemente legato al dollaro. Su questo punto, e in pochi altri,
emerge come d’incanto che gli interessi economici tutelati dall’Ue
sono dichiaratamente in posizione antitetica rispetto a quelli difesi
dagli Usa. Su un argomento così decisivo, la tanto decantata
“bandiera d’occidente”, sotto cui i sicofanti della politica e
dell’economia narrano di una duratura coalizione del mondo
libero e civile [imperialista] contro il “satanismo”
mediorientale, viene immediatamente ammainata: si manifesta in questa
maniera in tutta la sua mostruosa essenza la contraddizione
interna alla classe dei capitalisti che si concreta storicamente
nella fase imperialistica transnazionale dominata dallo scontro tra
le aree valutarie.
Da questo punto di
vista, se fino ad ora i capitali che basano la propria attività
brevettuale sulle virtù del dollaro si sono posti in una posizione
di assoluta preminenza (con grande distacco sugli inseguitori
tedeschi), la violenta ascesa della realtà cinese potrebbe, anche
qui, rimescolare le carte in modo chiaramente svantaggioso per gli
attuali “primi della classe”. Fino alla fine del secolo scorso,
infatti, il processo innovativo cinese non era di particolare rilievo
sia per quanto riguardava il piano per gli investimenti in ricerca e
sviluppo che per le idee originali sviluppate: basandosi
fondamentalmente sull’imitazione dei prodotti finiti e processi già
esistenti nei paesi occidentali, come in Giappone nel II dopoguerra,
violando più volte le normative in ambito Omc, destava più
preoccupazioni alla piccola borghesia che ai grandi capitali.
Tuttavia, nel nuovo
millennio, accanto a tale fenomeno che si è solo modestamente
ridimensionato a seguito dell’ingresso del paese nell’Omc, è
avvenuta una netta inversione di tendenza che ha determinato
conseguenze indubbiamente rilevanti, specie dal punto di vista
qualitativo. Il PCC ha da allora compreso che, per competere
realmente con le altre economie imperialistiche, sarebbe stato
necessario intraprendere un percorso di finanziamenti crescenti nei
varî settori della ricerca e sviluppo e renderne più efficiente
l’intera struttura innovativa. I risultati sono stati
immediatamente floridi: nel 2000, secondo il Wipo – organizzazione
mondiale per i diritti intellettuali, legata all’Omc – è
aumentato del 212% rispetto all’anno precedente il numero di
brevetti di proprietà della Cina, che è così divenuta in pochi
anni il quinto stato al mondo per quantità; tuttavia, se si
conteggiassero i brevetti in base alla nazionalità dell’inventore
e non dell’azienda – che detiene il diritto di proprietà e
quindi di utilizzo e, ovviamente, di sfruttamento economico –
probabilmente già da adesso il Dragone asiatico potrebbe superare
gli Usa data la numerosa presenza di capitali stranieri in Cina che
impiegano, oltre alla mano d’opera, anche personale
tecnico-scientifico locale. Questo elemento in prospettiva diviene
molto indicativo. La scelta politica del Pcc non è, infatti,
limitata alla determinazione – diretta o indiretta –
dell’incremento di finanziamenti alle imprese private o pubbliche,
ma consiste anche nel dedicare una parte molto consistente dei piani
al miglioramento delle capacità e conoscenze dei lavoratori cinesi,
in modo da poter contare, in un futuro molto prossimo su validissimi
ricercatori formati altrove e rientrati in patria – per contratto
statale – alla fine della specializzazione.
Tuttavia, le
statistiche sull’incremento dei brevetti rilasciati in Cina hanno
stimolato recentemente alcune discussioni. In altri termini, ciò che
viene contestato al governo – nell’ottica di una contrapposizione
tra capitali legati a valute differenti – è il fatto che essi
vengano concessi molto generosamente con lo scopo di “gonfiare”
in maniera artefatta e poco aderente la realtà la dinamica del
processo innovativo locale (e renderlo coerente con gli obiettivi
predisposti in fase di pianificazione). È molto difficile smentire o
al contrario aderire a entrambe le ipotesi, proprio per la mancanza
di elementi oggettivi che possano agire da sostegno a queste
osservazioni. Quel che però si può senza dubbio sostenere è che,
in generale, gli uffici brevettuali nazionali tendono a elargire in
maniera molto più semplificata, economica e rapida (rispetto agli
analoghi internazionali) tutele brevettuali (talvolta creando delle
difficoltà quasi inestricabili dal punto di vista legale). Inoltre,
esistono i cosiddetti brevetti triadici (triadic patents) la
cui contabilità può senza dubbio permettere di aggirare eventuali
numeri poco veritieri e modificati ad hoc. Con la locuzione
triadic patents si intendono quelle domande di brevettazione
che vengono presentate contemporaneamente ai tre più importanti
uffici brevettuali del mondo: Epo (European patent office), Uspto (US
patent and trade office), Jpo (Japanese patent office). Chiaramente
le statistiche relative a questi brevetti includono un sottoinsieme
delle imprese innovative di un qualsiasi spazio economico,
selezionando le più avanzate, ossia quelle che si collocano sulla
frontiera della tecnologia. Ciò è dovuto al fatto che la semplice
presentazione della domanda di protezione intellettuale nei tre spazi
economici costa poco meno di circa 100 mila euro e non c’è alcuna
garanzia di conseguimento del diritto: pertanto è una questione di
pertinenza esclusiva di chi vede nella innovazione una prospettiva
strategica di sviluppo. Da questo punto di vista, le aziende cinesi
mostrano un livello di brevettazione ancora basso rispetto a quello
di Usa e Giappone, pur avendo già raggiunto (e superato), in termini
assoluti, Francia e Italia e avvicinandosi progressivamente alla
Germania. Tuttavia, ciò che impressiona è il tasso di crescita
dagli inizi del secolo che, se per gli inventori cinesi è
monotonicamente positivo, nel caso delle imprese con sede
nell’Occidente o in Giappone, specie dopo il 2008, assume una
dinamica tendenzialmente in forte ribasso.
L’attività
cinese, in un’ottica imperialistica dominata dallo scontro
valutario, non può e non deve essere separata dal ruolo
dell’organizzazione euro-asiatica, la “Cooperazione di Shanghai”
che, anche in questo ambito, dimostra di essere, probabilmente, il
“soggetto” da cui dipendono più strettamente le sorti dei
capitali basati sul dollaro. Infatti la Russia, anch’essa tra i
membri effettivi, a seguito di una evidente ripresa economica, dovuta
in particolare all’evoluzione degli assetti proprietari del
comparto energetico principale del mercato mondiale, ha nuovamente
prodotto un flusso di ricerche e innovazioni che sempre più si
avvicinano ai notevoli risultati raggiunti dall’Urss alcuni decenni
fa. In particolare, l’elevato interesse per la ricerca su processi
e prodotti di avanzato contenuto tecnologico, in particolare sulle
Ict – tecnologie legate a informazione e comunicazione – e su
quelli del comparto della difesa, biotecnologia e aerospaziali,
sicuramente le più profittevoli e quelle che più di tutte hanno un
effetto indiretto e positivo in tutti gli altri settori, la
proiettano immediatamente ai vertici delle classifiche stilate dagli
organismi sovranazionali.
6. Conclusioni
Con questo breve
articolo si è dunque voluto fornire qualche spunto teorico
necessario a sfatare sia il presunto carattere sociale/filantropico
dell’innovazione ma soprattutto la sua capacità di superare
qualsiasi fase di crisi (come quella attuale) nel modo di produzione
capitalistico. Riepilogando, dunque, abbiamo osservato come
l’asocialità del progresso tecnologico è garantita dall’assetto
stesso del capitalismo e dalle sue leggi intrinseche e fondamentali:
essa si concreta nella lotta fratricida tra capitali e nell’aumento
del dominio del capitale sui lavoratori. Questo carattere è
endemico, in quanto basato sull’appropriazione privata dei mezzi di
produzione e sulla necessità di accumulazione attraverso la
produzione diretta o pure la detrazione di quote di plusvalore
prodotte altrove: dunque, i suoi eventuali benefici, con buona pace
dei proclami volontaristici di economisti “illuminati”, sono
anch’essi necessariamente privati dal godimento pubblico (a meno di
eventuali, ritardate e marginali ricadute favorevoli). Lo
straordinario e contraddittorio sviluppo del sistema cinese, non ha
fatto altro che rimarcare tutte le tendenze tipiche del capitalismo
nella sua fase superiore. Il monopolio della proprietà dei frutti
della ricerca scientifica si è rafforzato, soprattutto nei settori
high tech, attraverso un’evidente polarizzazione da parte di
pochissimi trust transnazionali. Ciò ha inasprito
inevitabilmente i rapporti interimperialistici, generando un nuovo
piano che vede contrapporsi, questa volta tra pari, capitale legato
al dollaro/euro contro i fratelli nemici asiatici. Da questo
punto di vista la guerra commerciale legata al caso Huawei
sulle licenze 5G è esemplare.
Per quanto riguarda,
la presunta capacità dello sviluppo tecnologico di essere causa
antagonista alla caduta tendenziale del saggio di accumulazione,
abbiamo mostrato come in una fase come quella attuale, in cui i
fenomeni legati alla crisi quarantennale immanente emergono in tutta
la loro violenza, l’innovazione tecnologica al contrario, determini
un ancor più accelerato sviluppo delle forze produttive, cosa che,
naturalmente, traghetta lo stato di salute del capitale in uno stadio
più serio ed irreversibile.
In questa maniera,
essa contraddittoriamente – in modo prevalente rispetto ad altri
fattori – pone le basi per un superamento dialettico del modo di
produzione attuale: da questo punto di vista, ancora una volta,
emerge in tutta la sua cruda realtà che «il vero limite della
produzione capitalistica è il capitale stesso».
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