Leggi anche: Del materialismo storico - Antonio Labriola
Dopo
gli eventi del 1989 e la rapida dissoluzione dell’impero sovietico,
fu facile pronosticare la prossima morte del “marxismo teorico”
(secondo la definizione che, in un saggio del 1937, ne aveva data
Benedetto Croce). Con la fine del comunismo, si ripeté, anche il
marxismo come filosofia era destinato a perire, a vantaggio di un
orizzonte culturale ormai dominato dalle figure del mercato globale e
della liberaldemocrazia.
L’89 e la crisi del “marxismo teorico”
La
diagnosi si rivelò per molti versi esatta, nel senso che la lunga
tradizione di pensiero che aveva sostenuto le esperienze del
movimento operaio mostrò presto la corda, e su aspetti tutt’altro
che marginali. Sia lo schema socialdemocratico – scaturito
dall’ultimo Engels e dall’ortodossia di Kautsky – sia le
dottrine del “materialismo dialettico” – da Lenin a Stalin fino
ai loro ultimi seguaci –, si trovarono meritatamente ai margini del
dibattito europeo. Anche le teorie marxiste meno sclerotizzate, si
pensi a un Lukács o a un Korsch, per quanto capaci di mediarsi con
le novità degli scritti giovanili di Marx (l’alienazione) e di
generare correnti originali (la Scuola di Francoforte), pagarono il
pegno di un’impostazione fondata sull’idea hegeliana di totalità
e su nozioni di ordine etico o metafisico.
Tuttavia
il “marxismo teorico” non morì (né nel 1900, come aveva
sentenziato Croce, né nel 1989), e in certo modo riuscì persino a
ravvivare la sua immagine, spesso fondandosi su uno strumento
incisivo, e direi persino di “purificazione” intellettuale, come
la filologia. È il caso di Marx, la cui opera, dal 1975 e con un
secondo inizio nel 1998, viene pubblicata nella seconda MEGA
(Marx-Engels-Gesamtausgabe,
edizione delle opere complete di Marx ed Engels) con scoperte
inesauribili, che vanno dai manoscritti preparatori del Capitale a
duecento quaderni di appunti. È il caso di Gramsci, che dopo l’89
ha conosciuto la sua maggiore e più vasta fortuna globale, anche con
l’avvio della Edizione nazionale degli scritti (promossa dalla
Treccani e dalla Fondazione Gramsci) e grazie a innovative ricerche
filologiche e cronologiche. È interessante osservare come in
questo Marx
Revival (così
lo ha definito Marcello Musto nella sua recente biografia einaudiana)
gli studiosi italiani abbiano acquistato una posizione ragguardevole,
osservata con attenzione in tutto il mondo.
L’importanza della figura di Antonio Labriola
Il
motivo di questa presenza della cultura italiana nelle recenti
ricerche sul “marxismo teorico” non deriva solo dalla vicenda
storica di un grande partito comunista, che per altro si è conclusa
nel 1991, né dagli sviluppi, spesso caotici, successivi al 1968 (a
cui si richiama prevalentemente la così detta “Italian Theory”),
ma da una traccia profonda della filosofia italiana, che solo ora si
comincia a ricostruire in maniera appropriata, oltre le improbabili
“genealogie” che hanno attraversato le “politiche culturali”
del passato.
Al
centro di tale processo può essere collocata la figura di Antonio
Labriola. Non solo perché, come aveva indicato Croce, è con lui che
nasce il “marxismo teorico” in Italia e perché egli fu il primo
a portare nella nostra cultura una conoscenza completa dell’opera
di Marx, traducendo il Manifesto e
svolgendone in maniera originale, nei tre saggi editi sul
materialismo storico, i princìpi filosofici. Ma anche per la ragione
più specifica che Labriola fu, per così dire, un “grande
mediatore” nella storia intellettuale italiana e perciò
l’epicentro dei suoi movimenti più profondi e radicali. I
documenti di cui oggi disponiamo attestano l’influenza che le sue
idee esercitarono sulla formazione delle filosofie di Croce e Gentile
(per non parlare di un altro autore presto dimenticato come Rodolfo
Mondolfo), anche oltre il periodo che i due maestri dell’idealismo
dedicarono al pensiero di Marx.
Il marxismo arricchito con aspetti originali
Arrivato
tardi alla scoperta delle idee marxiste, Labriola vi portò l’intero
bagaglio dei suoi studi precedenti, segnati dall’influsso dello
hegelismo meridionale e dello herbartismo, riuscendo così ad
arricchire la lezione marxiana di aspetti originali. Soprattutto pesò
il magistero di Bertrando Spaventa (che si è ricominciato a
studiare, per fortuna, in occasione del bicentenario della nascita),
di cui “tradusse” nel lessico marxista i due concetti
fondamentali: la circolazione del pensiero europeo, che nel suo
quarto saggio (Da
un secolo all’altro)
diventò una teoria dell’interdipendenza globale, e la riforma
della dialettica hegeliana, che egli ripensò come una “filosofia
della praxis”, secondo la felice formula adoperata nel terzo saggio
(Discorrendo
di socialismo e di filosofia).
Attraverso Spaventa, poi, Labriola “mediò” il marxismo con i
grandi classici della tradizione nazionale, a cominciare da Bruno e
Vico.
Per
lungo tempo, anche per reazione a quelle “genealogie” di cui si
diceva, il rapporto fra Gramsci a Labriola è stato negato o
indebolito. Molti ricordano le parole con cui, in un saggio
pubblicato nella Storia
d’Italia Einaudi
nel 1973, Cesare Luporini liquidò tale rapporto, parlando di
«profonda frattura», «discontinuità» e «interruzione». Gli
esempi potrebbero moltiplicarsi. Rimane il fatto che nei Quaderni
del carcere,
al di là delle critiche che non mancò di rivolgergli (per il
colonialismo e per un certo residuo di determinismo), Gramsci
considerò Labriola una eccezione pressoché unica nella vicenda del
marxismo, se si eccettua Lenin per il solo aspetto pratico e
politico, al punto da concludere il Quaderno
11,
quello in cui più forte si era dipanata la polemica contro Bucharin,
con l’auspicio di «rimettere in circolazione» e di «far
predominare la sua [di Labriola] impostazione del problema
filosofico».
L’influsso di Labriola nel pensiero di Gramsci
La
lezione di Labriola penetrò in profondità nel marxismo rinnovato e
non poco eretico dei Quaderni,
e non fu un caso, né un espediente per sviare la censura carceraria
(come riteneva Felice Platone), se nel 1932 Gramsci adoperò quella
formula, filosofia
della praxis,
che proprio Labriola aveva per primo utilizzato, sostituendola in
maniera sistematica alle antiche ricorrenze del «materialismo
storico».
L’uno
verso l’ortodossia della Seconda Internazionale, l’altro contro
il dogma stalinista, Labriola e Gramsci delinearono, in due epoche
diverse, la traiettoria di un marxismo molto peculiare. Un marxismo
che aveva saputo aprirsi ad altre correnti della cultura europea,
dallo herbartismo all’idealismo. Queste osservazioni aiutano a
comprendere l’importanza della Edizione Nazionale delle opere di
Labriola, istituita nel 2007 (con la presidenza di Fulvio Tessitore)
e pubblicata da Bibliopolis, di cui è uscito nel 2018 il volume
dedicato alla Prelezione del 1887 su I
problemi della filosofia della storia e
alle recensioni degli anni 1870-1896. Un volume, curato da Giuseppe
Cacciatore e Maurizio Martirano, di particolare interesse e
difficoltà, specie per la scelta e l’attribuzione delle recensioni
pubblicate sulla «Nuova Antologia» e su «La Cultura» di Ruggiero
Bonghi, spesso non firmate o ambiguamente siglate, di cui i curatori
danno conto in una distesa Nota
al testo.
Al
di là dei problemi filologici sorprende, nei testi di questi anni,
la delineazione e l’anticipazione di molti temi che entreranno nel
successivo marxismo di Labriola, a cominciare dalla radicale
confutazione di ogni finalismo, dalla critica dei fattori storici e
del monismo, con l’attenzione caratteristica rivolta alla genesi e
all’epigenesi delle neoformazioni sociali. Per certi versi, ancora
prima della lettura di Marx, siamo già nel cuore teorico dei tre
saggi sul materialismo storico.
Quando non si risolvono in una
operazione “monumentale”, ma raccolgono un lavoro rigoroso e di
lungo periodo, le edizioni nazionali dei filosofi arrivano anche a
trasformare l’immagine tradizionale di un autore. Così è
accaduto, per fare alcuni esempi prossimi, per Croce e Gramsci. Il
caso di Labriola è particolarmente delicato, per un certo oblìo che
ha colpito questa figura, per la dispersione delle fonti edite e per
la presenza di un considerevole patrimonio archivistico (basti
ricordare il Fondo Dal Pane alla Società napoletana di storia
patria).
L’Edizione
Nazionale, prevista in tredici volumi, ci ha dato già risultati
cospicui: i cinque volumi del Carteggio,
curati dal compianto Stefano Miccolis, gli scritti 1863-1868 e la
nuova edizione del quarto saggio (Da
un secolo all’altro),
curata da Miccolis e Alessandro Savorelli, che ha sostanzialmente
rinnovato tutta la fisionomia degli ultimi anni, aggiungendo
(rispetto alle precedenti edizioni di Croce e Dal Pane) testi e
documenti di fondamentale rilievo. È lecito attendersi, dunque, un
“altro Labriola” rispetto a quello della tradizione e,
auspicabilmente, una nuova stagione di studi.
Nessun commento:
Posta un commento