Francesco Schettino (Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli) è un economista italiano. (http://www.contraddizione.it/Contraddizioneonline.htm)
Leggi anche: MES, l'intervento di Vladimiro Giacché in audizione alla Commissione Bilancio.
Ascolta anche: https://www.radiondadurto.org/2018/09/15/2008-10-anni-dalla-crisi-tra-passato-e-futuro-di-una-fase-mai-finita-lintervista-a-francesco-schettino/
Il MES è lo strumento del capitale europeo per difendersi dalla concorrenza e scaricare i costi delle ristrutturazioni sui lavoratori. Ecco perché.
La
questione del Mes in pillole
Cavalcando
il puledro del nazionalismo ormai palesemente vincente in larga parte
d’Europa, l’estrema destra italiana ha colto l’occasione della
cosiddetta riforma del Mes (Meccanismo europeo di stabilità) per
gridare all’ennesimo schiaffo da parte della Germania verso
l’Italia e i “poveri” paesi del sud del continente – tentando
così di racimolare qualche voto in più in vista delle varie tornate
elettorali locali che la vedranno principale attrice.
Prima
di tentare di capire come si colloca nella fase attuale e perché una
lettura “locale” è giustamente coerente con un quadro proprio
delle “teorie” nazionaliste, mentre è incompatibile con una
visione di classe dei fenomeni economici, sembra corretto, senza
alcuna velleità di essere esaustivi, data la brevità del saggio,
almeno descrivere sinteticamente di cosa si tratta.
Per
dirla in parole molto semplificate, il Meccanismo europeo di
stabilità, come lo stesso acronimo suggerisce, nasce nello stesso
ambito politico economico del processo di integrazione politica ed
economica iniziato sostanzialmente negli anni ‘90 con il famoso
patto di Maastricht, passando per l’adozione della valuta unica tra
la fine dello stesso decennio e l’inizio del nuovo millennio,
attraversando l’esplosione della crisi post 2008, l’imposizione
della disciplina del pareggio di bilancio e il fallimento ellenico
“gestito” dalla troika intorno
all’anno 2012.
In
sostanza il Mes, che sostituisce di fatto il precedente Efsf, Fondo
europeo per la stabilità finanziaria, ha l’obiettivo di definire
un meccanismo automatico
– che
riduca dunque gli spazi di discrezionalità –
di stabilizzazione finanziaria che, attraverso potenziali “aiuti”
monetari, di cui si fanno carico i contribuenti di tutti gli stati
membri, eviti che eventuali difficoltà legate principalmente al
debito di un singolo paese producano effetti contagiosi o di
cosiddetto trascinamento per l’intera zona euro. Non a caso,
utilizzando un pessimo eufemismo, in gergo viene anche chiamato
“fondo salva-stati”.
Trovandosi
dunque a ragionare con le medesime categorie ispiratrici del “Fiscal
compact” e all’interno della filosofia della disciplina di
bilancio come obiettivo imprescindibile dell’intera area, il Mes
(così come l’Efsf) dovrebbe attivarsi a richiesta di uno dei paesi
europei in rischio default.
Si tratta, inoltre, di un fondo composto proporzionalmente in base al
Pil degli stati aderenti e ammonta a circa 700 mrd €: qualora uno
stato dovesse trovarsi in una fase particolarmente delicata – per
capirci, modello Grecia dello scorso decennio – condizionatamente a
delle riforme strutturali,
il paese in crisi potrebbe attingere a questo fondo per evitare di
affondare e “contagiare” gli altri stati dell’area anche a
causa di eventuali attacchi speculativi esterni (vedi dopo).
Si
tratta dunque di un modello apparentemente molto semplice nella
finalità (meno nel funzionamento) che vede nell’elemento delle
riforme “strutturali” – che altro non sono se non lo
smantellamento del cosiddetto stato sociale (salario indiretto o
differito) e la frantumazione del mercato del lavoro, in altri
termini, migliori condizioni di produzione e appropriazione di
plusvalore – l’elemento cruciale e più controverso. In pratica,
la questione attorno a cui ruota il dibattito consiste nel fatto che
nella riforma proposta emerge l’idea che un paese che chiede aiuto
al Mes debba ristrutturare preventivamente il
proprio debito, se questo non è giudicato sostenibile dalle stesse
autorità. Dunque, a differenza della passata tragedia ellenica,
conclusasi con una sanguinosa “ristrutturazione”, a seguito
dell’elargizione di fondi e preceduta dall’accordo tra il governo
Tsipras e la troika, qui
essa diventa precondizione, pressoché automatica, per ottenere i
finanziamenti. Che questo tipo di automatismo sia proposto
principalmente da esponenti degli stati nord-europei e ovviamente
osteggiata dai rappresentanti di quelli meridionali ha indotto gli
analisti di estrema destra (o sovranisti che dir si voglia) a
soffiare sul fuocherello del nazionalismo quasi si stesse già
giocando gli europei di calcio.
Nazionalismo
vs. imperialismo
Stupisce,
da questo punto di vista, l’adesione pressoché acritica e
sguarnita di un numero eccessivo di compagni ad una “crociata”
(il termine non è usato a caso) montata contro questa ipotetica
riforma, facendo proprie le argomentazioni nazionaliste che nulla
hanno a che fare con la nostra tradizione politica e scientifica. È
di cruciale importanza dunque premettere senza ambiguità che
adottare chiavi di lettura come “il
Mes favorisce la Germania contro l’Italia”
implica andare in direzione opposta a una lettura di classe del
fenomeno. Tanto per essere chiari, il marxismo, le belle bandiere
rosse e i simboli gloriosi della nostra tradizione, che scarseggiano
sui luoghi di lavoro e che invece abbondano sui social
network,
sono incompatibili scientificamente con questo tipo di
interpretazioni nazionaliste. Sostituire il conflitto di classe (e
dunque quello inter-imperialistico) con una ipotetica lotta nord-sud
o comunque tra stati-nazione è senza dubbio un errore politico molto
grave – peraltro non troppo dissimile nella sostanza a quello
commesso dai socialisti quasi un secolo fa.
Nella
stessa affermazione “il
Mes favorisce gli stati nord europei a scapito di quelli del
mediterranei”
risiede questo tipo di colpevole ambiguità perché si elimina la
specificità scientifica del marxismo sia nella teoria dello stato
(in sintesi, come forma sovrastrutturale del potere borghese) che nel
materialismo storico inteso come lotta tra classi. In altri termini,
quando si parla di “Germania che ci guadagna”, bisognerebbe
chiedersi se si intendono i grandi
proprietari della
Siemens oppure gli operai metalmeccanici delle industrie di
Stoccolma. Ci si riferisce dunque al proprietario della Volkswagen o
ai lavoratori interinali che raggiungono a stento la sussistenza
grazie al “magnifico” Hartz IV? Siamo sicuri che quando si dice
che “l’Italia ci perde” si comprende Benetton che ci rimette i
suoi miliardi e lo fa al pari dei disoccupati del meridione, così
come degli operai della Whirpool di Napoli a rischio licenziamento?
In altre parole, possiamo dire che il Mes agirà in maniera omogenea
su tutti questi soggetti? Il buon senso, così come la nostra teoria,
per una volta evidentemente appaiate, ci aiuterebbero a
rispondere NO! se
la questione viene vista dal punto di vista di classe. Se invece, in
maniera molto miope, accomuniamo costoro solo sulla base della
provenienza geografica, la risposta sarebbe erratamente affermativa.
La
famiglia Benetton, così come i proprietari di Siemens o di
Volkswagen, o gli Elkann, al pari delle grandi banche ispaniche a
capo della Repsol, hanno tutto da guadagnare da un meccanismo come il
Mes che, rimpinguato in grandissima parte con le tasse pagate dai
salariati, permette una automatica stabilizzazione degli stati in
caso di rischio default.
Destino comune, ma probabilmente di segno opposto hanno i lavoratori
di Whirpool, i disoccupati, i lavoratori interinali tedeschi,
italiani o spagnoli che, come già avvenuto per il caso ellenico,
saranno costretti a caricarsi sulle spalle non solo i costi (diretti)
del Mes, attraverso una più elevata tassazione, ma anche la
cosiddetta eventuale “ristrutturazione” automatica, proprio come
previsto dalla riforma, che altro è se non una decurtazione del
salario indiretto, ossia quello che viene chiamato il welfare
state.
A
rendere ancora più evidente il collante di classe, antitetico a una
presunta antonimia nazionale tra
i popoli appartenenti all’area dell’euro, è l’evidente
conflitto valutario inter-imperialistico dollaro\euro
che proprio nel 2012 era alla base dell’attacco speculativo che
hanno subito i titoli di stato ellenici ordito proprio dal capitale
legato al dollaro (cfr. La
Contraddizione no.
131). Non a caso, gli strumenti finanziari, tra cui l’Efsf (oggi
Mes) – inteso da più parti come deterrente anti-speculazione, più
che come dispositivo efficace – , varati proprio in quel periodo in
ambito europeo anche da Mario Draghi, furono definiti
giustamente bazooka avendo
l’obiettivo “bellico” di porre al riparo l’intera area e
l’euro da eventuali nuovi attacchi speculativi degli imperialismi
concorrenti: il “whatever
it takes”dell’allora
governatore Bce da questo punto di vista rappresentò un punto di
svolta nel lungo conflitto valutario. Dunque il rischio che si
innalzino nuovamente i livelli di scontro con gli imperialismi
concorrenti, sia da occidente che da oriente, potrebbe essere la
principale ragione di questa nuova impostazione del Mes. Pertanto, se
si vuole comprendere il perché di questa urgenza di riforma e
renderlo più stringente è necessario svincolarsi da una sterile
prospettiva nazionalista, analizzando dapprima la fase in cui il
capitale mondiale sta per entrare e dunque le dinamiche
interimperialistiche che ne deriverebbero e che già si stanno
mettendo in moto.
Ad
un passo dal baratro
Il
rapporto annuale pubblicato nell’ultimo trimestre del 2019 dal Fmi
(IMF annual report 2019), che sostanzialmente invita gli operatori
alla prudenza perché le prospettive non sono affatto rosee, fa da
eco ai campanelli d’allarme già suonati negli anni passati, che
nel frattempo si sono moltiplicati dacché una parte cospicua di
analisti inizia a tenere in adeguata considerazione il fatto che il
2020 potrebbe essere l’anno in cui le bolle finanziarie gonfiatesi
almeno dal 2008 potrebbero esplodere con una violenza forse
sconosciuta. Un’avvisaglia in questo senso, che ha terrorizzato gli
operatori almeno un po’ coscienti delle dinamiche dei mercati
finanziari, si è materializzata il 17 settembre 2019, giorno che,
per ora, racconta poco ma che in futuro potremmo trovare sui libri di
storia.
In
quella data, nonostante l’impressionante liquidità pompata già
nel sistema dai quantitative
easing (stimata
intorno ai 20 mila mrd $ complessivamente) promulgati dalle banche
centrali di mezzo mondo nell’ultimo decennio – e dunque tassi di
interesse pari a zero o addirittura negativi (anche su titoli di
stato) –, il mercato interbancario statunitense si è trovato
paradossalmente in una situazione di stallo, ossia proprio di
mancanza di liquidità. Tradotto in termini più comprensibili,
improvvisamente alcuni tassi di interesse sui Repo (abbreviazione
di repurchase
agreement,
operazioni di pronti contro termine con cui le banche o i soggetti
non bancari si scambiano la liquidità) sono improvvisamente
schizzati al 10% nello stesso momento in cui quelli ufficiali, non si
discostavano dal 2-2,25%. Questo indicatore mostrava chiaramente un
inceppamento del sistema dovuto prevalentemente a una mancanza di
fiducia tra gli operatori che si occupano di erogare e restituire
capitale a prestito anche e soprattutto overnight.
In altre parole, sembrava di assistere alla storia purtroppo già
vista nei mesi immediatamente precedenti l’esplosione del 2008,
iconograficamente rappresentata dal fallimento pilotato di Lehman
Brothers.
La
Federal Reserve, dunque, per evitare il collasso del sistema è
dovuta intervenire iniettando nuovamente la cifra record di 260 mrd $
nei due mesi successivi (di cui 75 solo nella giornata del 17/9) –
dopo che per quasi un semestre aveva provato a gestire una
“normalizzazione” del mercato monetario ossia un suo progressivo
prosciugamento – riducendo di un quarto di punto i tassi già il
18/9 come segnale per i mercati. Ciò dimostra come, giacché la
quantità di soggetti che agisce nell’ambito del mercato del
credito (specie a breve termine) non appartiene a istituzioni
finanziarie (o bancarie) – e dunque può eludere la legislazione
bancaria e non può al contempo accedere direttamente alla liquidità
della Fed (come prestatore di ultima istanza) – una “stretta”
monetaria in ambito Usa sembra al momento impraticabile [1].
La
metafora di un sistema ormai dipendente al pari di un
tossicodipendente dalle iniezioni di liquidità funziona oggi in
maniera superba. Nonostante i 20 mila mrd $ di nuova liquidità
pompata nell’economia in 10 anni, il mercato è costantemente a
rischio di stallo proprio per scarsità della stessa. La ragione
risiede nel fatto che questo eccesso di moneta in gran parte finisce
per alimentare i giuochi di borsa e comunque il capitale
speculativo/fittizio e dunque non finiscono nella produzione di
merci, servizi e dunque di valore e plusvalore. Infatti, è ormai
innegabile che il principale risultato dei Qe sia
individuabile nella crescita spaventosa dei profitti del capitale
fittizio che rimane, in un mondo in crisi da sovrapproduzione,
l’unico ambito di guadagno lauto e possibile. Preme ancora
ricordare dunque come la questione debba essere completamente
ribaltata rispetto al discorso che normalmente viene presentato. La
crisi non è causata dal presunto abuso degli strumenti speculativi
(o, come si suole dire, finanziari): al contrario, essendo
impossibile accumulare denaro attraverso la merce (il celeberrimo
D-M-D’) si bypassa la merce tentando di valorizzare il proprio
capitale con il semplice movimento D-D’ che dunque diventa la
conseguenza della crisi e non già la sua ragione (per quanto poi
dialetticamente eserciti una azione peggiorativa sulla stessa).
In
conclusione
Mentre
il 2019 chiude come l’annus horribilis in
termini di accumulazione di capitale, ossia di crescita complessiva
del Pil mondiale (la più bassa dal 2008), operatori speculativi di
tutto il mondo hanno “brindato” per la frenetica corsa –
fittizia, ovviamente – dei valori dei titoli quotati nelle borse di
tutto il mondo. Mentre in Italia, l’intera classe dei lavoratori
fatica a trovare un impiego o a mantenere delle condizioni di lavoro
decenti (sia in termini di valore d’uso che di scambio), giacché
la crescita tarda a palesarsi da almeno un lustro, l’indice della
borsa di Milano si gonfia in 12 mesi del 29%. Mentre in Grecia la
situazione sociale è ancora devastante, nonostante una timida
ripresa dalle macerie lasciate dalla troika,
l’indice della borsa di Atene mostra un superbo +45%; nello stesso
periodo, la variazione del Pil, dopo essersi dimezzato in dieci anni,
comincia a segnare una tendenza positiva ma non troppo distante dallo
zero.
Questi
sono solo due esempi di una economia mondiale che, a parte casi
sporadici come quello della Cina, a fronte di tassi di crescita molto
modesti, presenta record straordinari sulle borse di ognidove. Il
giuoco è ormai chiaro ed è difficile negarlo: una economia drogata
di liquidità ha collocato una parte notevole del capitale monetario
ricevuto dalle banche centrali in attività speculative abbandonando
un settore, come quello della produzione di valore, che tarda ad
uscire dalla crisi da sovrapproduzione e riduzione del saggio di
profitto. Il rafforzamento del Mes rientrerebbe dunque nel tentativo
di serrare le fila in attesa di un inevitabile inasprimento delle
conflittualità che l’esacerbarsi della crisi porterà con sé. Il
grande capitale legato all’euro tenta di rafforzarsi per non
incappare negli errori del passato, imponendo ovviamente alla classe
subalterna del continente ulteriori perdite in termini di salario,
estromettendo anche, il più possibile, i capitali di dimensioni più
limitate e meno adeguati alla fase transnazionale dell’imperialismo
moderno. Del resto, le prime inconfondibili avvisaglie di una
fragorosa esplosione sono già emerse e le autorità statunitensi
sono riuscite per ora a mettere una toppa a una situazione
potenzialmente drammatica. I nuovi venti di guerra di certo potranno
mascherare questi ineludibili passaggi ma la sostanza di un modo di
produzione in fase decadente, prima o poi, non tarderà ad emergere
con tutta la sua veemenza.
Note
[1]
Per un approfondimento si veda Schettino F. (2020) – L’impatto
della crisi su povertà e disuguaglianza, mimeo.
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