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lunedì 16 luglio 2018

Federico Caffè e l’«intelligente pragmatismo». (in appendice “Intervista a Federico Caffè” di «Sinistra 77») - Fernando Vianello  

Da: Attilio Esposto e Mario Tiberi (A cura di), “Federico Caffè. Realtà e critica del capitalismo storico”, Meridiana Libri, 1995, pp. 25-42.  
http://gondrano.blogspot.com - Fernando_Vianello è stato un economista e accademico italiano. 
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/04/1978-la-svolta-delleur.html 
                       https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/05/la-multinazionale-ecumenica-eugenio.html 


Introduzione.

«Intelligente pragmatismo» è un’espressione che, forse con scarso scrupolo filologico, ho estratto da un saggio di Federico Caffè (1) per impiegarla come definizione generale di un atteggiamento intellettuale che gli era proprio: l’atteggiamento di chi pensa, con Keynes, che «la teoria economica non fornisca un insieme di conclusioni definitive immediatamente applicabili alla politica economica», ma rappresenti una «tecnica di pensiero» (2) suscettibile di essere applicata di volta in volta alla soluzione di problemi concreti e di suggerire linee d’azione diverse in diversi momenti e contesti. E’ questo un aspetto della posizione di Keynes cui Caffè si rifà espressamente, sottolineando, in particolare, come dalla teoria keynesiana discendano indicazioni di politica economica «adattabili nel tempo e che Keynes stesso modificò al delinearsi della seconda guerra mondiale» (3), quando il problema non era più la deficienza, ma l’imminente eccesso di domanda (4).

L’intelligente pragmatismo è in realtà, credo di poter dire, il «keynesismo di Keynes»: un keynesismo che non si affida a regole automatiche, ma considera ciascuna situazione nella sua specificità, sceglie caso per caso i rimedi più adatti e li applica in modo flessibile. Sapendo che vi sono di solito più vie per raggiungere un obiettivo, e che la scelta fra esse è una questione non tanto di principio quanto di opportunità (5). E sapendo altresì che ogni intervento, nel risolvere certi problemi, è suscettibile di crearne altri, che vanno a loro volta affrontati e risolti con opportuni interventi (6).

2. La piena occupazione e il vincolo dei conti con l’estero. 

Una tipica applicazione dell’intelligente pragmatismo degli economisti che Caffè si scelse come maestri - e di altri che ebbe per compagni, come Giorgio Fuà e Sergio Steve (7) - è rappresentata dal modo di trattare il vincolo dei conti con l’estero. Tale vincolo - imposto dalla necessità, o dall’opportunità, di non superare un certo disavanzo di parte corrente - è spesso assimilato a quello della piena occupazione: se il vincolo dei conti con l’estero non viene spontaneamente rispettato, si argomenta, bisogna intervenire con misure deflazionistiche. Ragionare in questo modo significa rinunciare a chiedersi che cosa faccia sì che, nella concreta situazione in esame, il vincolo dei conti con l’estero si incontri prima che venga raggiunta la piena occupazione, e dunque che cosa possa essere fatto per allentare il vincolo stesso.

sabato 28 dicembre 2019

I danni economici dell’analfabetismo funzionale - Guglielmo Forges Davanzati

Da: Nuovo Quotidiano di Puglia” - Guglielmo Forges Davanzati 
Guglielmo Forges Davanzati, Università del Salento, è un economista italiano.
Leggi anche: Federico Caffè e l’«intelligente pragmatismo». (in appendice “Intervista a Federico Caffè” di «Sinistra 77») - Fernando Vianello  
                        L’economista in tuta da lavoro: Federico Caffè e il capitalismo in crisi - Riccardo Bellofiore 

Vi è ampia evidenza teorica ed empirica in merito al fatto che un’istruzione diffusa – oltre a essere desiderabile in quanto tale – è un rilevante fattore di crescita economica. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che l’acquisizione di conoscenze e competenze, sia attraverso i canali formali della scolarizzazione, sia attraverso i canali informali dell’acquisizione di conoscenze mediante reti amicali e relazionali (le c.d. soft skills), entra come input nel processo produttivo e agevola la crescita della produttività del lavoro.
La crescita economica italiana è al palo dalla svolta dei primi anni novanta, con le manovre restrittive dei Governi Amato e Ciampi (1992-1993), anche a causa del sistematico disinvestimento in istruzione, ricerca e sviluppo, dal momento che minore istruzione implica minore crescita. E vi è ampio accordo fra economisti in merito al fatto che il ventennio che inizia a far data dal 1998 è il peggiore della recente storia economica italiana in termini di tasso di crescita e andamento dell’occupazione.
A partire da quella data si fa strada quello che uno dei maggiori economisti italiani della seconda metà del Novecento, Federico Caffè, ebbe a definire l’allarmismo economico, con particolare riferimento – negli anni novanta e ancora più nel successivo decennio – alla convinzione diffusa che la disoccupazione italiana e, in particolare, la disoccupazione giovanile dipenda dal mismatch qualitativo fra domanda e offerta di lavoro. Ci si riferisce, in particolare, al fatto che si è incominciato a ritenere che la disoccupazione giovanile italiana dipenda dalla scarsa preparazione dei nostri giovani, quest’ultima imputabile all’incapacità delle nostre università di fornire conoscenze e soprattutto competenze tecniche adeguate a quelle domandate dalle nostre imprese.
Sia chiaro che il problema esiste, ma la narrazione dominante (e il connesso allarme) ne amplifica notevolmente le dimensioni. La realtà è che i nostri lavoratori, soprattutto giovani, ricevono per contro una preparazione adeguata, ma vengono assunti, laddove cioè accade, con contratti a tempo determinato, spesso in condizioni di sottoccupazione intellettuale e spesso costretti a emigrare o ad accettare forme di part-time involontario. Una condizione di precariato diffusa, con contratti di lavoro intermittenti, di incerta durata, che amplifica la spirale perversa composta da bassa crescita e peggioramento della qualità dell’occupazione. 

giovedì 4 marzo 2021

La lezione di De Cecco - Riccardo Bellofiore

 Da: https://sbilanciamoci.info - Riccardo Bellofiore, Docente di Economia politica all’Università degli Studi di Bergamo, i suoi interessi sono la teoria marxiana, l’approccio macromonetario in termini circuitisti e minskyani, la filosofia economica, e lo sviluppo e la crisi del capitalismo. (Economisti di classe: Riccardo Bellofiore & Giovanna Vertova - https://www.riccardobellofiore.info)

Leggi anche: 

Un economista ‘inattuale’: Augusto Graziani, o dell’economia critica come vera conoscenza. - Riccardo Bellofiore

L’economista in tuta da lavoro: Federico Caffè e il capitalismo in crisi - Riccardo Bellofiore

IL PROFETA DELLA CRISI. TRIBUTO A HYMAN MINSKY - intervento di Riccardo Bellofiore - 5 dicembre 2011

Pensare il proprio tempo. Ateismo positivo e uscita dal capitalismo in Claudio Napoleoni e Franco Rodano. - Riccardo Bellofiore -

Federico Caffè e l’«intelligente pragmatismo». (in appendice “Intervista a Federico Caffè” di «Sinistra 77») - Fernando Vianello

Il capitale monopolistico di Baran e Sweezy e la teoria marxiana del valore - CLAUDIO NAPOLEONI - (Testo a cura di Riccardo Bellofiore)

Tra Schumpeter e Keynes: l’eterodossia di Paul Marlor Sweezy e l'ortodossia di Paul Mattick - Riccardo Bellofiore 

Quale attualità di Claudio Napoleoni: il contributo di Politica Economica

H.G. Backhaus e la dialettica della forma di valore - Riccardo Bellofiore, Tommaso Redolfi Riva

La socializzazione degli investimenti: contro e oltre Keynes - Riccardo Bellofiore -

La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica - Riccardo Bellofiore e Joseph Halevi -

Tra Schumpeter e Keynes: l’eterodossia di Paul Marlor Sweezy e l'ortodossia di Paul Mattick - Riccardo Bellofiore

Vedi anche: ECONOMIA PER I CITTADINI - RICCARDO BELLOFIORE

Le principali teorie economiche - Riccardo Bellofiore

Augusto Graziani e la Teoria Monetaria della Produzione*- Giorgio Gattei 



“La lezione di un conservatore illuminato”

Un ricordo di Marcello de Cecco, economista sempre stato attento a non separare mai i suoi studi sul potere e sull’economia da un impegno civile e, in fondo, patriottico.


La notorietà internazionale venne a Marcello de Cecco dai suoi studi sul sistema monetario internazionale. Il libro più celebre è Moneta e impero. Il sistema finanziario internazionale dal 1890 al 1914 (Einaudi, Torino 1979). Il volume era in realtà già comparso in una prima versione dall’editore Laterza, nel 1971, con il titolo Economia e finanza internazionale dal 1890 al 1914. La ricerca risaliva al 1968, ed era stata stimolata dalla svalutazione della sterlina dell’anno precedente, come anche dalla impressione che l’autore sempre più nutriva che il sistema di Bretton Woods, fondato su ‘cambi fissi ma aggiustabili’, fosse sulla via del collasso. Grazie alla partecipazione ad un progetto di Robert Mundell sulle crisi per la National Science Foundation statunitense de Cecco potè studiare, a Chicago e a Londra, la presunta età dell’oro del gold standard, ma anche la sua interna e crescente fragilità. In un articolo del 1973 comparso, ancora in italiano, nella Rivista internazionale di storia della banca, de Cecco proseguì il discorso commentando la crisi bancaria del 1914, ed impiegando materiali che allora non erano ancora stati resi noti, in particolare le Crisis Conferences tenute da Lloyd George in occasione della crisi del luglio 1914, trascritte dalla moglie Julia Bamford (professoressa di lingua inglese all’Orientale di Napoli). Questo saggio divenne l’ultimo capitolo di una versione ampliata in lingua inglese: Money and Empire. The International Gold Standard, 1890-1914, pubblicata da Basil Blackwell nel 1974. Il volume fu riedito dieci anni dopo da Frances Pinter, con il titolo invertito (The International Gold Standard. Money and Empire), una nuova prefazione e la correzione di una serie di errori segnalati dai recensori della prima edizione.

L’argomentazione di de Cecco era originale e in contrasto con le interpretazioni allora consuete.

lunedì 1 febbraio 2016

L’economista in tuta da lavoro: Federico Caffè e il capitalismo in crisi - Riccardo Bellofiore

Da:   http://elearning.unibg.it/economia/bellofiore/2016/caffe.pdf
Leggi anche:   http://gondrano.blogspot.it/2014/11/federico-caffe-e-lintelligente_16.html  con, in appendice, l'intervista concessa da F. Caffè a "Sinistra 77"
                               https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgpkK1Dc9Yfc_r_Nce412W1UR5Ha-9DoCeZ76TZilCdTaRk7zROlNT4nKdaG-vgCtqPKW2hd05q3i5pIPBGiD1fXhE7F-hLLl-typ7JAgV399VcDbuVIp1sYECQEPs4FGVJHFzhBp7yABk/s1600/amo.png




  Federico Caffè: riformista solitario e sempre combattivo, ma forse anche uomo per cui i dolori privati e l’infelicità pubblica avevano superato la soglia della sopportabilità. Non è facile parlarne in modo misurato. Come recita il titolo di un libro di qualche decennio fa, sopprimere la distanza uccide. Forte la tentazione di sovrapporre le proprie preferenze e i propri giudizi su una figura che ha sempre brillato per equilibrio dottrinale nella passione conoscitiva, per volontà determinata nella battaglia riformista, per approfondimento concettuale nella costante tensione all’intervento. Un economista che non ha mai voluto farsi profeta, e che ha però saputo essere un maestro.




...Il “rivoluzionario” Keynes, sostiene Caffè, lo si capisce appieno solo se del marginalismo che lo precede e che lo segue non si dà una rappresentazione stereotipata e caricaturale: se, insomma, se ne valorizzano le precisazioni e qualificazioni, come per esempio gli sforzi incessanti di introdurre imperfezioni e indeterminazioni. È del tutto coerente che il nostro autore, sul terreno della didattica dell’economia, si dichiari favorevole a quei tentativi che, più che manuali in senso proprio, provano sin dai primi anni dell’università, non a proporre soluzioni o a solidificare certezze, ma a suggerire al lettore e allo studente «ciò che andrebbe preso in considerazione quando egli cerchi di formarsi una opinione personale sui problemi che gli vengono presentati dall’epoca cui appartiene» [Economia senza profeti: Contributi di bibliografia economica, 1977 (d’ora in poi ESP), 55]. Dando sempre conto della pluralità delle teorie, del loro sfondo storico, delle loro premesse ideologiche. Il nostro autore dedica attenzione costante alle interpretazioni del Grande Crollo degli anni Trenta, e mette in guardia dal rischio di una ricaduta in vecchi errori. Non ne trae però spunto per una applicazione immediata delle lezioni di quella vicenda storica al presente: è semmai interessato a individuare le differenze e le novità. La più recente tendenza sistematica alla inflazione, e il suo accoppiarsi al rallentamento della crescita del reddito e all’impennarsi della disoccupazione, non hanno per Caffè un legame sostanziale né con la eccessiva creazione di mezzi monetari né lo stato di pieno impiego. Al contrario, l’inflazione continua ad avere una funzione di stimolo della crescita, e ciò cui si deve porre attenzione sono le implicazioni distributive. Il nostro autore condivide, peraltro, la tesi di una difficile conciliazione dei tre obiettivi dell’aumento del salario reale, della difesa del potere d’acquisto, del pieno impiego – problema che era ben noto a Keynes, e a cui si può porre rimedio solo per il tramite di una politica dei redditi (nell’onorato, anche se problematico significato di una epoca andata: quella di una crescita parallela di salario e produttività). Quel che è chiaro è che Caffè non si lascia in alcun modo sedurre dalle proposte di partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, o alla sua proprietà: l’autentico potere dei lavoratori sta «nella forza della organizzazione sindacale e nella pressione che quest’ultima è in grado di esercitare in sede di negoziazione contrattuale (intesa in senso non meramente salariale)» (ESP, 86).

sabato 24 novembre 2018

La vera emergenza non è il “populismo” ma una normalizzazione di tipo moderato - Federico Caffè

Da: “Il Manifesto”, 7 dicembre 1978 - Federico Caffè, La solitudine del riformista. A cura di Nicola Acocella e Maurizio Franzini. Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 129. - http://gondrano.blogspot.com - Federico_Caffè è stato un economista italiano.



Che spregiudicato quell’economista, ha scoperto la legge della giungla... 


Vedere nel sindacato la forza dirompente sia degli equilibri del mercato che delle potenzialità della programmazione è l’approdo più recente, e fuorviante, della saggezza convenzionale.

La riscoperta del mercato, che non è fenomeno esclusivamente italiano anche se nel nostro paese ha trovato conturbanti consensi perfino nelle forze politicamente progressiste, lascia sconcertati, in quanto appare immune da ogni ripensamento critico che sia frutto della imponente documentazione teorica ed empirica disponibile sui fallimenti del mercato: dalla sua incapacità di tutelare efficacemente il consumatore che dovrebbe esserne il sovrano, al suo assoggettamento alle forze che dovrebbero dipendere dalle sue indicazioni, al riconoscimento delle carenze che esso manifesta nella segnalazione di esigenze vitali,  ma non paganti, della collettività.

I propositi di programmazione, d’altro canto, non si discostano ancora oggi dall’antica riserva mentale, di stampo einaudiano, che esorcizzava, a suo tempo, lo stesso termine di piano, sfumandolo in quello più blando di schema, o svuotandolo di una connotazione specifica, in quanto “tutti fanno piani”.

Questo arretramento culturale si traduce, fatalmente, in una deformazione nell’attribuzione delle responsabilità di una situazione che si conviene definire meramente di emergenza.

Che di arretramento culturale si tratti non dipende meramente dal ritorno all’antico: il ricupero di idee del passato che siano state a torto trascurate o che non siano state adeguatamente comprese a tempo debito, risulta generalmente valido.

Ma allorché Hayek ha, del tutto recentemente, scritto che “la causa della disoccupazione risiede in una deviazione dai prezzi e dai salari di equilibrio che si stabilirebbero automaticamente, in presenza di un mercato libero e di una moneta stabile”, si è di fronte non a una fruttuosa rielaborazione di idee che abbiano radici lontane, ma all’ennesima attestazione dell’atteggiamento del ritorno retrivo di chi non ha saputo niente apprendere e niente dimenticare.

sabato 5 settembre 2020

Le contraddizioni delle soluzioni “keynesiane” al problema della disoccupazione e la sfida del “piano del lavoro” - Riccardo Bellofiore

Da: https://www.facebook.com/notes - INTRODUZIONE a «Tornare al lavoro. Lavoro di cittadinanza e piena occupazione», a cura di Jacopo Foggi, Castelvecchi, Roma, 2019, pp. 17-27
riccardo.bellofiore è professore ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di Bergamo. (Economisti di classe: Riccardo Bellofiore & Giovanna Vertova - https://www.riccardobellofiore.info)

  Occupati, disoccupati, inattivi...*- Giovanna Vertova
  Il mercato del lavoro e la piena occupazione - Giovanna Vertova
  Paul Mason: POSTCAPITALISMO – Riccardo Bellofiore
Leggi anche:  POTENZIALITÀ E LIMITI DEL REDDITO DI BASE*- Giovanna Vertova**
  La socializzazione degli investimenti: contro e oltre Keynes - Riccardo Bellofiore
  La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica - Riccardo Bellofiore e Joseph Halevi
  L’economista in tuta da lavoro: Federico Caffè e il capitalismo in crisi - Riccardo Bellofiore
  LA QUESTIONE DEL SALARIO*- Riccardo Bellofiore
  Marx e la fondazione macro-monetaria della microeconomia - Riccardo Bellofiore
  IL PROFETA DELLA CRISI. TRIBUTO A HYMAN MINSKY - intervento di Riccardo Bellofiore
  Il capitale monopolistico di Baran e Sweezy e la teoria marxiana del valore - CLAUDIO NAPOLEONI - (Testo a cura di Riccardo Bellofiore)



Il libro sui piani di lavoro garantito curato in modo esemplare da Jacopo Foggi per lo CSEPI è un volume importante, tanto per la qualità e la completezza di quello che contiene e che dice, quanto per quello che resta sullo sfondo e rimane ancora da articolare con più precisione e ricchezza, e magari da mettere meglio a fuoco. In queste poche righe di introduzione mi propongo di presentare al lettore, senza alcuna possibile pretesa di completezza, alcune considerazioni evidentemente soggettive, essendo io stesso parte attiva di questo dibattito in corso.

Il problema della disoccupazione in Italia è un problema che affonda le radici nel passato. Anche limitandoci al secondo dopoguerra, non solo esso non è stato mai risolto, ma alla sua risoluzione non hanno affatto contribuito né la apertura al commercio internazionale, né il miracolo economico, né gli abortiti tentativi di programmazione: semmai, l’emigrazione. La svolta degli anni ’80 prima peggiorò le cose, poi provvide una falsa soluzione nella sottoccupazione dovuta alla caduta della produttività e alla precarizzazione. Si può dubitare che sia mai davvero esistita da noi una fase keynesiana (molti guardano con nostalgia malriposta ai cosiddetti trent’anni gloriosi), e il keynesismo criminale stigmatizzato da de Cecco ne fu un povero sostituto. Il che lascia dubitare che sia possibile una soluzione keynesiana oggi, fondata sulla sola espansione della domanda effettiva, che rovesci l’austerità che ci accompagna da decenni. Si può dire che in varia forma la disoccupazione si sia tramandata tanto nello sviluppo quanto nella crisi, come anche che la crisi italiana sia di lunga durata, e risalga in realtà alle occasioni perse di metà anni ’60. È una crisi che ha aspetti strutturali, non solo congiunturali: e la stessa cosa si può dire della problematica della disoccupazione. La crisi recente, successiva alla nuova “grande crisi” esplosa nel 2007-2008 e aggravata dalle dinamiche interne all’area europea, va relativizzata come parte di questo quadro complessivo.

Il cuore del libro è costituito, di fatto, da una proposta di importazione chiavi in mano, ovviamente adattata al nostro paese, di una idea di origine anglosassone, l’insieme di programmi per un Job Guarantee, una volta denominata come proposta dello Stato come “occupatore di ultima istanza”, un’idea sostenuta con forza dalla corrente della cosiddetta Modern Money Theory. I “piani di lavoro garantito” vengono contrapposti con ragione, e qualche tentativo di mediazione, all’idea alternativa di un “reddito di esistenza”: è chiaro che mentre questa seconda politica di fatto accetta la precarizzazione e la disoccupazione permanente come un destino, cui mettere una pezza con sussidi prevalentemente monetari, i piani di lavoro garantito scommettono sulla compatibilità della piena occupazione permanente con la configurazione sociale capitalistica. I proponenti dell’Employer of Last Resort hanno scritto altrove che il punto è «ripensare il capitalismo»: i proponenti del basic income ritengono invece che il superamento del capitalismo si gioca essenzialmente su un piano distributivo.

giovedì 9 agosto 2018

Hyman Minsky: “Combattere la povertà. Lavoro non assistenza” - Alessandro Visalli

Da: http://tempofertile.blogspot.com - AlessandroVisalli è architetto e dottore di ricerca in pianificazione urbanistica.



In questo libro sono raccolti interventi di Hyman Misky, eretico economista keynesiano famoso per la sua tesi sulla instabilità intrinseca del capitalismo, che vanno dal 1965 al 1994 (l’autore muore nel 1996, prima che i crolli del 2001 e 2007 gli dessero clamorosamente ragione). Si tratta, come recita il titolo di interventi sul piano del lavoro, in polemica molto forte con la “guerra alla povertà” delle amministrazioni democratiche americane soprattutto perché imperniata sull’assistenza e non sull’offerta diretta di lavoro. Queste politiche (anche nelle varianti ben viste da destra che includono salari minimi e/o tasse negative) per Minsky sono conservatrici del sistema disfunzionale esistente ed incontrano peraltro il limite strutturale, in un capitalismo intrinsecamente fondato sulla speculazione, di poter provocare eccesso di investimenti (speculativi) e per questa via instabilità esplosiva.

Se questa strada è chiusa, quella invece da esplorare passa per il cambiamento del sistema; cioè per l’occupazione di ultima istanza diretta da parte dello stato, per il controllo degli investimenti e della natura delle produzioni per finalità utili. Sembra socialismo, ma Minsky amava il capitalismo e cercava invece di salvarlo da se stesso, attraverso la proposta di un “’nuovo’ nuovo modello di capitalismo” fondato sull’impegno per il pieno impiego e lo sviluppo delle risorse affidato ad una partnership tra agenzie pubbliche e private. Che unisca alla fallace visione a breve termine del mercato una visione lunga posseduta dal governo. Che prenda atto che “in quel complesso sistema di prodotti, lavoro e mercati finanziari che è l’economia capitalistica, il meccanismo di mercato non può raggiungere e mantenere il pieno impiego. Affinché il capitalismo possa avere successo sono necessarie istituzioni che integrino l’occupazione privata attraverso un’offerta illimitata di lavoro” (p. 258).

domenica 13 settembre 2020

Crisi del welfare e crisi del lavoro, dal fordismo alla Grande Recessione: un’ottica di classe e di genere. - Riccardo Bellofiore, Giovanna Vertova

Da: Economisti di classe: Riccardo Bellofiore & Giovanna Vertova - In: la Rivista delle Politiche Sociali / Italian Journal of Social Policy, 1/2014, pp. 103-122.
Giovanna Vertova, Università di Bergamo, Dipartimento di Scienze Aziendali, Economiche e Metodi Quantitativi. -
Riccardo Bellofiore, Università di Bergamo, Professore ordinario di Economia politica. -
Leggi anche:   POTENZIALITÀ E LIMITI DEL REDDITO DI BASE - Giovanna Vertova 
                         Le contraddizioni delle soluzioni “keynesiane” al problema della disoccupazione e la sfida del “piano del lavoro” - Riccardo Bellofiore 
                         All’Europa serve un “new deal” di classe - Riccardo Bellofiore 
                         Tra Schumpeter e Keynes: l’eterodossia di Paul Marlor Sweezy e l'ortodossia di Paul Mattick - Riccardo Bellofiore  
                         La socializzazione degli investimenti: contro e oltre Keynes - Riccardo Bellofiore 
                         La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica - Riccardo Bellofiore e Joseph Halevi 
                         Di una economia di mercato compatibile con la socializzazione delle sovrastrutture finanziarie - Federico Caffè 
                         IL PROFETA DELLA CRISI. TRIBUTO A HYMAN MINSKY - intervento di Riccardo Bellofiore - 5 dicembre 2011 
                         Il capitale monopolistico di Baran e Sweezy e la teoria marxiana del valore - CLAUDIO NAPOLEONI - (Testo a cura di Riccardo Bellofiore)
Vedi anche:   Donne e crisi - Giovanna Vertova


  1. Nelle pagine che seguono proveremo a impostare un discorso – sicuramente parziale – sull’intervento dello Stato in economia e la natura del welfare state. Discuteremo, in particolare, le proposte di introduzione di un reddito di esistenza e di riduzione di orario di lavoro, mettendole a confronto con una prospettiva incentrata invece sulla socializzazione dell’investimento e su un piano del lavoro, in un’ottica orientata ad una piena occupazione degna di questo nome. Nel nostro ragionamento, che muoverà sullo sfondo della dinamica capitalistica dal «fordismo» al neoliberismo e alla crisi attuale, ci muoveremo integrando la questione di classe con quella di genere.
  2. Definiamo come welfare quelle forme di intervento statale sulle economie di mercato che mirano a ridurre l’insicurezza nella soddisfazione dei bisogni fondamentali mediante l’erogazione di trasferimenti monetari, e/o di politiche regolative, e/o della fornitura di beni e servizi, e/o della creazione di infrastrutture. Tra le insicurezze cui porre rimedio vi è la disoccupazione – e dunque nel welfare rientra l’erogazione di un reddito indipendentemente dal lavoro; come anche le stesse politiche keynesiane di gestione della domanda, se finalizzate al pieno impiego. Altre forme di assicurazione sociale coprono malattie o infortuni, aiutano nella vecchiaia o nella maternità. Se passiamo dal lato della domanda di welfare a quello dell’offerta, o meglio della copertura dei suoi costi, troviamo (con maggiore o minor peso nelle diverse esperienze) i contributi sociali, l’imposizione fiscale, la fissazione di prezzi dei servizi, o ancora servizi in natura.
  3. Il welfare va ovviamente ricompreso nel sistema di riproduzione sociale della forza lavoro, essenziale per il sistema (capitalistico) di produzione di beni e servizi nella forma di merci. Il sistema di riproduzione sociale non si esaurisce nel sistema di welfare pubblico, che ne costituisce solo un sottoinsieme. Un secondo sottoinsieme è il sistema di welfare familiare, basato sul lavoro volontario e non pagato dei componenti della famiglia (ma anche sul lavoro pagato delle immigrate). Per riprodurre la forza lavoro non basta acquistare merci sul mercato o ottenerle tramite il settore pubblico, è necessaria pure una ingente quantità di lavoro non pagato per rendere queste merci usufruibili. Inoltre, è necessario che qualcuno/a si prenda cura dei bambini e degli anziani. Tutto questo lavoro non pagato comprende sia il lavoro domestico che il lavoro di cura.

sabato 15 marzo 2014

La socializzazione degli investimenti: contro e oltre Keynes - Riccardo Bellofiore -

[pubblicato in Alternative per il socialismo, n. 30, marzo aprile 2014, p. 77-90] - https://www.sinistrainrete.info/teoria-economica/3507-riccardo-bellofiore-la-socializzazione-degli-investimenti-contro-e-oltre-keynes.html 

Le note che seguono sono nient’altro che appunti, incompleti, sulla ‘socializzazione degli investimenti’: espressione che compare, in modo cruciale, nell’ultimo capitolo della Teoria generale di Keynes. Il termine, negli anni a noi più vicini, è diventato di moda, soprattutto in una certa sinistra (quella che non si sa più come chiamare: alternativa, radicale; certo non di classe). Come di consueto, ciò è avvenuto in modo generico e acritico, all’interno di una troppo confusa ripresa di Keynes. Essendo stato tra quelli che la socializzazione degli investimenti la avevano, per così dire, nel proprio codice genetico da decenni, ma in un senso non poco diverso dalla lettera dell’economista cantabrigense, ciò che proporrò qui è un percorso di lettura (spesso costituito da pure e semplici citazioni, parafrasi), che aiutino ad orientarsi. Seguirà un breve richiamo agli usi che ne ho proposto in passato, ben prima della nuova vulgata in formazione, e qualche considerazione più strettamente teorica e politica.


Keynes
L’ultimo capitolo del libro del 1936 si apre con la affermazione, comprensibile ma limitata e discutibile, che i limiti principali della società economica in cui viviamo son costituiti dall’incapacità di dar vita al pieno impiego (senza l’intervento attivo dello Stato) e da una distribuzione inegualitaria della ricchezza e del reddito (se non vi sono interventi correttivi).
Va da sé che questi limiti esistono davvero e sono gravi: abbiamo però qui un esempio di un modo di ragionare che mette al centro del proprio discorso il plesso domanda-distribuzione, invece di partire, come sarebbe necessario, da moneta e produzione. Questa ultima è una lezione che, in fondo, discende da Marx, e che Kalecki (l’economista polacco che prima di Keynes raggiunse alcuni dei contributi analitici della Teoria generale) non aveva affatto scordato.
Qualche pagina più oltre, Keynes afferma che lo Stato deve esercitare una influenza determinante sulla propensione a consumare (per esempio grazie alla tassazione) e sull’investimento privato (attraverso una politica monetaria che conduca al ribasso il tasso di interesse di lungo termine, e conduca all’eutanasia del rentier)Ciò non sarà sufficiente: Keynes era per varie ragioni convinto di una tendenza al ristagno nel capitalismo sviluppato, una previsione su cui fu smentito, e su cui pesavano errori significativi contenuti nella sua costruzione teorica. Ne traeva perciò la conclusione che fosse opportuna una significativa ‘socializzazione dell’investimento’, unico strumento in grado di condurci nella zona della piena occupazione delle risorse produttive, incluso il lavoro.
Keynes qualificava però subito il suo discorso. Erano da approvare tutti i ‘compromessi’ e gli strumenti grazie ai quali l’autorità pubblica potesse cooperare con l’iniziativa provata (privata). La ‘socializzazione’ che proponeva andava non solo distinta dalla nazionalizzazione (la proprietà dei mezzi di produzione non era così importante, sosteneva). Essa era in contrasto netto con il socialismo di Stato. Per questo definiva la teoria esposta nel libro come moderatamente conservatrice nelle sue implicazioni. Certo, alcuni ‘controlli’ andavano stabiliti: ma ‘bastava’ che lo Stato, gradualmente e senza alcuna ‘rottura’ nelle tradizioni della società, muovesse le sue leve tanto quanto era necessario a indurre una piena utilizzazione di capitale e lavoro. A quel punto la teoria tradizionale, neoclassica, tornava ad essere del tutto accettabile, e non si poteva obiettare alle sue tesi sul come gli interessi privati guidassero l’allocazione ottimale delle risorse.
Non vi è ragione alcuna per supporre che il presente sistema determini una cattiva distribuzione delle risorse, sostiene Keynes. Se 10 milioni di lavoratori potrebbero essere occupati, e solo 9 lo sono, il problema è trovare occupazione al milione rimanente, non destinare ad altri lavori i 9 milioni di occupati dalle forze del mercato.  E’ nel determinare il volume, e non la direzione, dell’occupazione effettiva che il sistema attuale fallisce. Un discorso che non si può certo accusare di oscurità. 


Michał Kalecki
Michał Kalecki aveva colto con lucidità alcuni problemi nel discorso di Keynes. Era certo possibile che, sulla carta, i capitalisti potessero guadagnarci, e non poco, con politiche di pieno impiego: una più elevata massa dei profitti poteva davvero essere il correlato di una più alta occupazione dei lavoratori. Non era dunque il riformismo una opzione attraente, in grado di aprire la strada ad un ‘compromesso’ tra le classi? La stessa teoria di Kalecki - nella sostanza già formulata prima del 1936 in saggi in polacco, e derivata da un uso creativo degli schemi di Marx via Luxemburg e Tugan Baranovski - chiariva che (in una società capitalistica pura, dove i lavoratori consumano integralmente il salario) la massa dei profitti è identica a (e causata da) investimento e consumo dei capitalisti. Dato il grado di monopolio (la quota dei profitti lordi sul reddito, in fondo riconducibile al saggio di sfruttamento), se ne poteva derivare il livello di produzione complessiva, e dunque di occupazione.
Se lo Stato fosse intervenuto con una spesa pubblica in disavanzo (magari finanziata con nuova moneta: o direttamente via istituto di emissione, o indirettamente via banche commerciali), ciò avrebbe avuto lo stesso effetto che la Luxemburg aveva attribuito alle esportazioni (nette) in aree non capitalistiche: per questo le aveva definite esportazioni ‘interne’ o ‘domestiche’. D’altronde, la stessa Luxemburg, aveva in qualche misura anticipato conclusioni keynesiane nel caso in cui la spesa pubblica fosse stata di sostegno al militarismo. E questa era, in qualche misura, la conclusione di Kalecki. Il capitalismo ‘keynesiano’ a venire sarebbe stato incentrato sulla spesa militare. Un capitalismo di pieno impiego era possibile, ma non su base permanente. Se raggiunto, uno stato di piena occupazione avrebbe ridotto, sia il controllo capitalistico sulla composizione della spesa (e dunque della produzione), sia il controllo sulla classe operaia interno ai processi di lavoro (favorendo episodi di insubordinazione operaia), con conseguente richiesta di migliori condizioni per i lavoratori dentro e fuori la produzione. Più che la lotta sul salario, era questo conflitto (o forse antagonismo) che poteva garantire risultati, nella logica kaleckiana. L’ostilità della classe capitalistica al pieno impiego si traduceva in un ‘ciclo economico-politico’: quando ci si avvicinava al pieno impiego le politiche keynesiane sarebbero state usate all’incontrario, per ricostituire l’esercito industriale di riserva. 


Joan Robinson
L’attacco più violento al keynesismo ‘realmente esistente’ viene nel 1972 da Joan Robinson, una keynesiana di sinistra (oggi verrebbe definita una postkeynesiana, versante inglese). Le sue parole non lasciano dubbi sul fatto che è lo stesso Keynes del capitolo finale della Teoria generale ad essere, almeno in parte, direttamente coinvolto nella critica. Un articolo che ho ben presente, perché è stato uno dei primissimi che ho letto, poco dopo la sua pubblicazione, all’inizio dei miei studi di economia.
Robinson sostiene che nei primi anni Settanta si era nel bel mezzo di una ‘seconda’ crisi della teoria economica. La ‘prima’ è quella da cui emerge, negli anni Trenta, la ‘rivoluzione keynesiana’ (titolo di un libro allora famoso di Lawrence Klein, del 1947, tratto dalla sua tesi di Ph.D. al MIT, nel 1944: quando prese il dottorato Klein, Premio Nobel nel 1980, era iscritto al partito comunista, il che spiega il capitolo del suo libro in cui compara Keynes e Marx). La prima crisi ruotava attorno al nodo del livello dell’occupazione, il fallimento del laisser faire per insufficienza di domanda effettiva. La seconda crisi era tutta diversa, e investiva di petto le carenze della teoria dominante nel trattare il nodo del contenuto dell’occupazione. Era una crisi sul terreno anche della distribuzione. Per chi leggeva l’articolo della Robinson nella Torino dei primi anni Settanta - a contatto con i lavoratori che contestavano ormai apertamente non soltanto il ‘per chi’ ma anche il ‘cosa’ si produceva, oltre che il ‘come’; e che in verità già da qualche anno, a partire dalle lotte sulla salute, iniziavano ad aver ben chiaro il nodo del ‘quanto’ produrre – non era difficile vedere che il discorso della economista di Cambridge parlava anche alle lotte sulla produzione.
Cosa c’entrava Keynes? Per portare a casa la sua critica alla teoria neoclassica sul livello dell’occupazione, Keynes aveva dovuto dimostrare che lo Stato può aumentare l’occupazione, che gli investimenti (anche pubblici) inducono una spesa derivata di consumi, e che questa seconda ondata è del tutto indipendente dalla natura dell’impulso iniziale di spesa. Per questo scriveva che scavare buche per poi riempirle andava altrettanto bene, dal punto di vista del suo ‘modello’, di una spesa pubblica che producesse valori d’uso per la società. Possiamo dar per scontato che lui preferisse il secondo tipo di spesa, non è questo il punto. E’ il medesimo Keynes che, preoccupato dalla disoccupazione di massa degli anni Trenta, può scrivere nella prefazione alla traduzione tedesca pubblicata in Germania nello stesso 1936 che un paese totalitario come il nazismo costituisce uno sfondo istituzionale dove meglio che nelle democrazie la sua teoria potrebbe essere messa all’opera.
Bene: quando i ‘keynesiani’ diventano la nuova ortodossia, e il pieno impiego assurge a obiettivo dichiarato e praticato dai governi capitalistici dei trent’anni successivi alla guerra, tanto conservatori quanto progressisti, si guardano bene dal cambiare la domanda, e passare dalla questione del livello a quella del contenuto dell’occupazione, come secondo Robinson sarebbe stato opportuno. La Guerra, scrive, era stata una grandiosa lezione di ‘keynesismo’. Se in astratto qualsiasi spesa andava bene, il ruolo trainante lo ebbe però la spesa per armamenti, costruendo il complesso militare-industriale, e guadagnandosi il consenso non solo di capitalisti e lavoratori ma anche degli ‘economisti’ che la consigliavano come profilassi contro la stagnazione e la disoccupazione, infischiandosene della ‘finanza sana’. La spesa in disavanzo favorita dai consiglieri keynesiani e la conseguente centralità del sistema militare-industriale trasformarono il sogno ad occhi aperti di Keynes in un incubo di terrore. Le nuove forme della povertà in mezzo all’abbondanza e l’emergere drammatico dell’inquinamento, nel mondo ‘keynesiano’ di allora (ricordate: i ‘trenta gloriosi’, il compromesso capitale-lavoro, l’era aurea del fordismo di cui ci racconta la sinistra; assieme all’idolatria del PIL), ne furono l’esito necessario. 


Hyman P. Minsky
E’ qui che si inserisce a proposito la ripresa, tre anni dopo (1975), del tema della ‘socializzazione degli investimenti’ nel primo e negli ultimi due capitoli del primo libro di Minsky (John Maynard Keynes, tradotto in italiano con il titolo, per una volta più perspicuo, Keynes e l’instabilità del capitalismo: ristampati entrambi, sull’onda del ritorno della grande crisi nel capitalismo, sia negli Stati Uniti che in Italia, rispettivamente nel 2008 e nel 2009). E’ un libro che Minsky andava scrivendo dai primi anni Settanta, in parte nella stessa Cambridge, dove ebbe senz’altro modo di discuterne con Joan Robinson. Certo, basta leggere quelle pagine per trovarsi gettati nello stesso ordine di idee della Robinson, persino radicalizzato, mille volte lontano dalla timida ripresa del keynesismo che predomina a sinistra.
Keynes proponeva un controllo sociale sull’investimento e sognava una società più egualitaria; e certamente questo messaggio è stato imbastardito da quella Sintesi Neoclassica che aveva puntato sullo stimolo all’investimento privato per conseguire alti profitti, facendone discendere elevata occupazione e aumento del reddito anche dei ceti più poveri grazie allo ‘sgocciolamento’ in basso (trickle down) della maggiore ricchezza e del maggior reddito dei ceti abbienti. Così la diseguaglianza (relativa) cresceva e il problema dell’impoverimento non era affrontato per la via di una migliore (oltre che più piena) occupazione ma per il tramite di sussidi monetari e ‘assistenza’.
Il problema, insiste Minsky, è che non solo le novità di Keynes erano imprecise e confuse, ma che la stessa ‘vecchia’ teoria era in buona misura ancora lì – e proprio nei punti chiavi della teoria degli investimenti, del tasso di interesse, della determinazione dei prezzi delle attività-capitale (assets). In parte ciò era voluto, per rendere più accettabile il messaggio ritenuto più urgente sulla politica economica anti-ciclica; in parte era involontario, per l’incapacità di sfuggire al peso della teoria tradizionale in cui era stato educato. I keynesiani hanno finito con il cancellare lo stesso problema dinamico del ciclo economico, da cui l’opera di Keynes nasceva, per ridurlo ad un orizzonte statico di equilibrio. D’altra parte, tra i Quaranta e i Sessanta, non era forse scomparso il problema del ciclo, sostituito dalla regolazione fine del meccanismo economico? Lo sgonfiamento prima, e la repressione poi (almeno per un po’, sino ai primi Sessanta), della finanza speculativa, facilitavano l’illusione ottica di una stabilità permanente. Se Kalecki, in anticipo di trent’anni, ne aveva smontato le basi ingannevoli per quel che riguardava i rapporti tra le classi sociali, Minsky, in anticipo di almeno un decennio, faceva lo stesso per quel che riguardava il rapporto tra finanza e investimento.
Qui Minsky innestava la sua critica non solo al keynesismo ma allo stesso Keynes. Non era vero quello che diceva la nuova ortodossia, che bastavano cambiamenti al margine alle istituzioni del capitalismo per garantire che crisi e depressioni fossero roba del passato. Al contrario, era tutto da discutere se le politiche anti-congiunturali potessero sostenersi nel tempo senza creare altre contraddizioni, ed era fallace pensare di poter ricacciare sotto il tappeto le domande del ‘per chi’ si dovesse produrre, di ‘che tipo’ di occupazione dovesse essere stimolata, di quale natura dovesse avere il pieno impiego. Il limite risaliva dritto dritto a Keynes, il Keynes che aveva accantonato con troppa facilità le questioni gemelle di una radical reformulation, di una ricostruzione radicale della società, e di un diverso insieme di criteri per valutare l’evoluzione di quella stessa società.
Il lettore vede subito che siamo di fronte a una messa in stato d’accusa dell’ultimo capitolo della Teoria generale. E questo stato d’accusa viene da un economista che non si vergogna di essere stato socialista (l’American Socialist Party: sua madre era attiva nel movimento sindacale, il padre nel partito socialista di Chicago, e si incontrarono sul tram andando a una celebrazione della nascitadi Marx). Anzi, che lo è ancora. Certo, un socialismo rigorosamente antileninista, oltre che antistalinista. Ciò, evidentemente, poteva fare problema. Pochi anni dopo, quando Minsky iniziò a collaborare stabilmente al Centro Studi Confindustria, diretto da Guido Carli (è grosso modo da quegli anni che iniziò ad abitare a Bergamo, ed ebbi la fortuna di conoscerlo), vi fu ancora chi, come Karl Brunner,  si infuriò, con Paolo Savona, per aver loro “portato in casa un comunista” (l’episodio è riportato dallo stesso Savona in “Guido Carli in Confindustria: maestro di pensiero e statista”, in Carli G., Savona P., Guido Carli Presidente di Confindustria 1976-1980, Bollati Boringhieri, 2008). Non a Minsky stesso, almeno a quell’epoca. E gli ultimi capitoli del suo libro del 1975 esplicitamente propongono uno tra i 57 tipi di capitalismo, dai tratti però marcatamente ed esplicitamente socialisti (il riferimento di Minsky alle 57 varietà possibili del capitalismo rimandava alle 57 varietà pubblicizzate dalla ditta Heinz).
Seguiamo il filo di ragionamento di Minsky. Keynes negli anni Venti era un uomo della sinistra. Non più negli anni Trenta, e ciò sicuramente era dovuto anche a quello che era la Russia comunista, centralizzata e autoritaria. La Teoria generale avrebbe reso finalmente obsoleta e inutile la teoria marxiana, con tutte le sue confusioni. Negli anni Venti, in fondo, Keynes flirtava ancora con un socialismo decentralizzato e ‘umano’. Negli anni Trenta ritiene che il mercato risolva in modo soddisfacente il problema di una allocazione efficiente; che le politiche di pieno impiego che suggerisce facciano un bel tratto di strada per risolvere il problema della giustizia sociale, e che vadano solo affiancate dalla eutanasia del rentier (politiche che riducano il tasso di interesse), da una adeguata tassazione diretta, e da una incisiva imposta di successione. Il capitalismo come regno della libertà e dell’iniziativa individuale andava ‘salvato’.
Ovviamente, commenta Minsky, l’idea di Keynes che il capitale potesse divenire ‘scarso’ era l’altra faccia della sua ingenua teoria dei bisogni assoluti come ‘saziabili’ (una generalizzazione indebita delle proprie preferenze), mentre al contrario ciò che è avvenuto dopo è l’esplosione, indotta dal sistema stesso, dei bisogni relativi. In ciò hanno svolto un ruolo importante il modo del sostegno statale all’economia come domanda di beni e servizi, il privilegio fiscale dei redditi da capitale rispetto a quelli disponibili per il consumo, la politica di trasferimenti meramente monetari, di cui è stato intessuto il keynesismo. Il disciplinamento dei bisogni che con tutta evidenza sarebbe opportuno non lo si può affidare, come crede Keynes, al mercato, con solo un piccolo aiuto da parte del sistema della tassazione e dei sussidi. Il vantaggio della spesa militare è che distrugge continuamente il suo stesso prodotto, non rientra in circolo (è una politica di investimento adeguata al capitale proprio perché non è utile), e in più favorisce un sistema produttivo ad alta intensità di capitale.
A dover esser messa sul banco degli imputati, secondo Minsky, è la contraddizione palese in Keynes tra l’idea della ‘socializzazione degli investimenti’ e quella secondo cui il mercato svolgerebbe bene il suo ruolo di allocatore delle risorse. Esisteva, ed esiste, una alternativa: un ‘socialismo di mercato’ che controlli i centri di comando (towering heights) e promuova il consumo collettivo (communal consumption); a cui potremmo aggiungere nello stesso spirito il controllo diretto del movimento dei capitali. Ciò che i ‘keynesiani’ hanno perseguito, non del tutto tradendo la lettera di Keynes, è stato il Big Government, uno Stato grande a sufficienza da stabilizzare l’economia e sussidiare il consumo. Un modello di alti profitti-alti investimenti, ma dunque anche elevato ‘spreco’ (non siamo lontani, con tutta evidenza dal mondo di Sweezy (con Baran), citato in JMK, oltre che di Kalecki, anche se Minsky non aveva ancora recepito il contributo di quest’ultimo, e non lo cita ancora). Un modello, insomma, che è predicato proprio sulla esplosione dei bisogni relativi, e che sostenendo rendite, interessi e profitti nutre nel suo seno il risorgere della finanza speculativa e di una instabilità sempre più accentuata. Un universo destinato ad una necessaria implosione, e a cui non si può rispondere con la nostalgia di un keynesismo ‘buono’ (che peraltro mai si è dato); e che intanto destina il pianeta al degrado sociale e naturale.
E’ a questo che deve rispondere la ‘socializzazione degli investimenti’, in un senso ben più profondo di quello inevitabilmente aporetico di Keynes. Basta confrontare le frasi di Minsky con quelle di Keynes: occorre, scrive l’economista di Chicago, una economia in cui i settori chiave siano socializzati; dove il consumo in comune [dunque non monetario, ma per così dire provveduto ‘in natura’] soddisfi la parte maggiore dei bisogni privati; dove la tassazione del reddito e della ricchezza sia disegnata per abbattere la diseguaglianza; dove la speculazione nella struttura delle passività sia regolata da leggi che ne definiscano rigidamente l’ammissibilità. Un ‘capitalismo’ del genere può rendere raggiungibile il pieno impiego con meno tensioni e instabilità di quelli emersi nel capitalismo degli anni Sessanta e Settanta. 
Su questa strada i fini socialisti, propri di un socialismo libertario, possono essere riconciliati con il capitalismo. Ma per giungere a una analisi adeguata di come funziona una economia capitalistica, e di come intervenire lungo le linee di una teoria ad un tempo razionale e radicale, è necessario comprendere non soltanto che il capitalismo ha difetti costitutivi, non risolvibili per la via di una tiepida regolamentazione, ma anche che si deve tornare ai problemi degli anni Trenta. E qui, con tutta evidenza, Minsky ha in mente il New Deal. Quel New Deal che non era keynesiano: per certi versi, negativamente (Roosevelt, prima della Seconda Guerra Mondiale, non apprezzava affatto i disavanzi nel bilancio dello Stato); ma anche, per altri versi, positivamente (Roosevelt, sulla spinta del conflitto sociale, aveva promosso una spesa che aveva inciso potentemente sulla composizione della produzione, e che dunque aveva coniugato sostegno alla domanda e ridefinizione dell’offerta; e dove lo Stato si faceva occupatore diretto di manodopera).
Da questo punto di vista aveva di nuovo torto Keynes quando nella sua lettera aperta a Roosevelt pubblicata nel New York Times del 31 dicembre del 1933, se giustamente lo invitava a spingere sull’acceleratore della recovery, della ripresa, discutibilmente gli suggeriva una politica dei due tempi, rimandando a tempi migliori la reform, la riforma radicale dell’economia e della società. Il punto di Minsky è evidentemente che le due gambe debbano camminare insieme. Sul New Deal, e su quel Piano del Lavoro o sull’ispirazione liberalsocialista di Ernesto Rossi o Sylos Labini, ho scritto a più riprese (da solo o con Joseph Halevi) dal 2008, anzi in verità da prima. Un punto che ritorna negli anni più recenti anche nelle riflessioni di Luciano Gallino e Laura Pennacchi. 


Federico Caffè, Augusto Grazianie Claudio Napoleoni
Criticando i keynesiani Paul M. Sweezy, a ragione sosteneva che parlare di riformare il capitalismo significava peccare di ingenuità o di doppiezza. Il capitalismo difenderà fino in fondo i suoi privilegi, consentendo soltanto quelle riforme e quel margine di libertà ai riformatori che non tocchino i loro interessi.
Federico Caffè era sicuramente un riformista, pur a un certo punto disilluso e disperato. Ma certo non ingenuo. Cita il Franco Fortini che sul Corriere della sera scrive che “lo sviluppo capitalistico, grazie alle sue crisi e ai suoi ritorni, drena sempre nuovi strati sociali, produce anzi sempre nuovi colonizzati interni, almeno da noi, da usare come deterrente nei confronti del lavoro comunque privilegiato”. La alternativa che propone è una economia di piena occupazione, ma è chiaro – aggiunge - che ciò dipende da una riforma fondamentale del contesto istituzionale. Di questa riforma fanno parte controlli sul commercio con l’estero, controlli sui prezzi, controlli sulla localizzazione delle industrie, estensione dell’azione dello Stato anche ai fini della regolamentazione complessiva dell’investimento privato.
Forse alludendo a Abba P. Lerner, la definisce una vera e propria ‘economia dei controlli’. Di più, si tratterebbe di una autentica ‘amministrazione globale della offerta’. Siamo chiaramente nello stesso orizzonte di Minsky, quello di una socializzazione industriale e della struttura produttiva, della banca e della finanza, dell’occupazione. Di fatto, e di nuovo, della rimessa in questione del ‘che cosa’, ‘quanto’ e ‘per chi produrre’ – qualcosa a cui una sinistra autentica non può non aggiungere una rimessa in questione anche del ‘come’ produrre. Caffè qualifica questa prospettiva come ‘riformismo gradualistico’, ma non si vede (almeno, io non vedo) proprio cosa vi sia di moderato in tutto ciò. Tant’è che lui stesso rimanda a Gramsci che scrive che si tratta di proporre fini discreti, raggiungibili pur nell’intento di approfondirli ed estenderli.
Se cerchiamo da noi l’esempio massimo di un keynesismo ‘strutturale’, mille miglia lontano dal keynesismo corrente e un po’ facile degli economisti alternativi dei nostri giorni, l’autore a cui penserei per primo è però Augusto Graziani: non a caso un autore che ha costruito il suo pensiero più originale sulla critica al Keynes della Teoria generale, e sul recupero semmai del Keynes del Trattato sulla moneta. Per quel Keynes - come per Wicksell, Schumpeter, e prima ancora Marx - l’accesso privilegiato alla moneta è ‘comando’ sulle decisioni attinenti alla produzione e alla occupazione. Quell’accesso è, certo, prerogativa anche dei governi: ma Graziani non ha mai ceduto a illusioni ‘sovraniste’; né gli si fa un gran servizio nel ridurlo a un postkeynesiano, ad un ‘eterodosso’ tra i tanti, fautore di politiche espansive della domanda effettiva, e magari di una qualche svalutazione corretta ‘da sinistra’. Graziani ha sempre ben chiara la natura di classe delle decisioni politiche; e ha sempre rigorosamente distinto tra governo e Banca Centrale. Per lui, il conflitto sociale – che si svolge fuori dall’arena del mercato è di natura, in senso lato, politica: come per Kalecki, il riferimento è non tanto alle lotte sul salario, piuttosto alle lotte nella produzione, che può (e deve) imporre i contenuti della spesa pubblica.
Graziani si è inoltre ben guardato dal farsi fautore di un aumento generico della domanda. I fallimenti del sistema privato sono profondi, e i bisogni collettivi sono insoddisfatti: proprio per questo, sostiene, ogni spesa va accuratamente valutata e indirizzata ad una composizione del prodotto che sia socialmente utile. Lo Stato deve inoltre assicurare ai cittadini, per così dire ‘in natura’, la disponibilità reale di beni e servizi, andando al di là di una politica di meri sussidi monetari o di riduzioni fiscali. Per ultimo ma non da ultimo, lo Stato ha la responsabilità di aprire la strada ad un investimento che migliori la qualità strutturale dell’economia in un orizzonte di lungo periodo che solo lui può garantire. Di nuovo, siamo nell’orizzonte della ‘socializzazione degli investimenti’ intesa in un senso complessivo e radicale.
E’ indubitabile che troppe siano le differenze tra Graziani e Claudio Napoleoni per accomunarli in modo generico sotto un’unica prospettiva. Pure, è altrettanto indiscutibile che esista una convergenza, almeno sul problema. In un intervento al CESPE del 1987, poi raccolto in un volumetto dal titolo: “Quali risposte alle politiche neo-conservatrici?”, Napoleoni ribadisce l’importanza di ripristinare il vincolo ‘interno’, cioè di una spinta sociale sul terreno distributivo, che può incarnarsi in un aumento dei salari ma anche in una riduzione dell’orario di lavoro. L’economista abruzzese non è contrario ad una politica prudente del cambio, che reputa (se accoppiata alla riproposizione del vincolo ‘interno’) in grado di ripristinare una dialettica di classe, e di costringere le imprese a un cambiamento strutturale. Che ne è in questa prospettiva del ‘risanamento’ del bilancio pubblico? Sostiene questo Napoleoni che dell’intervento sul bilancio pubblico se ne può fare una bandiera solo dentro un’operazione più complessiva che non solo agisca sulla distribuzione del reddito ma che intervenga anche sulle determinanti strutturali dell’economia e della società. Una politica che riduca la dipendenza dall’estero, che investa in grandi infrastrutture, che governi il mutamento tecnologico in maniera da indirizzare l’aumento di produttività verso un aumento della quota del nuovo valore che va al lavoro, di un minor tempo di lavoro nella sfera della produzione, di una più equilibrata ripartizione del lavoro di riproduzione, di un maggior rispetto della natura. Cosa è questa se non ‘socializzazione degli investimenti’? 


Alain Parguez
In questo orizzonte di discorso un contributo di rilevo è quello che viene da Alain Parguez. Lo Stato deve farsi ‘ancora’ di uno sviluppo che generi un pieno impiego autentico. Per definizione, il passivo del bilancio dello Stato, qualora il conto corrente con l’estero sia nullo, equivale ad un attivo del settore privato, dunque a un suo risparmio netto. Inevitabilmente, politiche che mirino ad un pareggio o un attivo del bilancio pubblico (le politiche di ‘austerità’) non possono che rivelarsi controproducenti, determinando l’opposto di quel che dichiarano. Deprimendo produzione, occupazione, aspettative, fanno crollare investimenti e consumi. A questo conducono le varie terapie shock, come quella imposta alla Grecia, o le politiche recessive e deflazionistiche in corso. E’ chiaro che i disavanzi dello Stato, invece di ridursi, si riprodurranno e aumenteranno, in un circolo vizioso, che si riproduce in una caduta libera pregna di drammi sociali e individuali. Sono, questi, dei ‘cattivi’ disavanzi, a cui non corrisponde come contropartita alcuna infrastruttura materiale o sociale. E’ questo invece ciò che caratterizza i ‘buoni’ disavanzi.
I ‘buoni’ disavanzi sono infatti disavanzi voluti ex ante, pianificati, che si collocano per così dire ‘naturalmente’ in una politica di lungo termine. Essi hanno quale scopo dichiarato il contrario di quel che afferma Keynes al termine della Teoria generale. Risultano nella produzione di uno stock di risorse tangibili e intangibili, non solo infrastrutture concrete, ma anche investimenti nella ricerca, nell’istruzione, nella salute. Di rimbalzo, possono creare un clima favorevole migliorando le aspettative, e potrebbero così favorire una spesa per investimenti privati, che rimane comunque trainata dal big push del settore pubblico. Tale produzione di valori d’uso sociali va effettuata in disavanzo ma, in realtà, al termine degli effetti che ha indotto, finisce con l’autofinanziarsi – sempre, nelle economie capitalistiche e dunque monetarie, il reddito segue alla spesa, come il risparmio all’investimento, e ancora come le imposte alla spesa pubblica. 


Lucio Magri
Potrà sorprendere il prossimo autore preso in considerazione: Lucio Magri, segretario del Partito di Unità Proletaria. Il documento è la relazione su “Difesa rigida o offensiva manovrata?”, pubblicato su il manifesto quotidiano, gennaio 1974. Magri si pone il problema di un ‘programma minimo’ di gestione della crisi. I temi che costituiscono l’asse del discorso, e che qui cito per lo più direttamente senza virgolette, sono quelli che seguono.
Il primo tema è la questione della distribuzione del reddito, o più semplicemente del chi paga la fase di stagnazione e di riconversione produttiva. Il livello di vita delle masse come quello dell’occupazione, in una fase recessiva, non sono difendibili senza un massiccio programma di spesa pubblica per finanziare consumi collettivi, beni primari a basso costo, programmi di sostegno dell’occupazione nei settori a bassa produttività e di riconversione in altri settori. Qui il limite del discorso di Magri è quello di dare per scontato che dalla considerazione, corretta, che la crisi non era allora causata da insufficienza di domanda, si potrebbe derivare una più generale critica al finanziamento in disavanzo della spesa pubblica. Fa di conseguenza cadere l’intero peso della manovra sull’aumento delle imposte. Discutibile allora, senz’altro errato oggi. Come discutibile era una certa sopravvalutazione della natura ‘finale’ della crisi, di cui sottovalutava la natura di (lunga) crisi di ristrutturazione.
Il secondo tema era quello dei consumi collettivi. Che essi non possano funzionare da elemento di rilancio del meccanismo capitalistico non toglie nulla, per Magri, al fatto che una massiccia spesa e una razionale pianificazione nel settore dei consumi sociali potessero rappresentare un passo avanti decisivo per le condizioni di vita delle masse e per il livello civile di tutta la società. Lo spostamento di significative risorse da consumi individuali inessenziali a consumi sociali poteva garantire sia una migliore soddisfazione dei bisogni, anche senza sostanziali incrementi produttivi, sia, almeno nel breve periodo, maggiori occasioni di lavoro. Da una impostazione del genere Magri derivava scelte concrete e una linea di classe. Sia per ciò che riguardava quali beni collettivi produrre, sia per ciò che riguardava la loro distribuzione. La linea di classe si riduceva a tre discriminanti. Una impostazione accentuatamente egualitaria nella produzione e nella distribuzione del bene collettivo. Una chiara autonomia del consumo collettivo da un diretto obiettivo produttivistico (ritenuto il solo modo di garantire una vera produttività). Una lotta a fondo contro l’annidarsi del parassitismo nella spesa pubblica, contro la borghesia di stato e la paralisi burocratica.
Per quel che riguarda il problema dell’occupazione, pareva a Magri del tutto illusoria – et pour cause - la prospettiva, sostenuta dai ‘riformisti’ di allora, di risolvere il problema della occupazione intensificando gli investimenti e rilanciando il meccanismo di sviluppo capitalistico. Non era peraltro proponibile una pura e semplice lotta per la difesa dei posti di lavoro esistenti. Si doveva riuscire ad aprire lotte per nuovi posti di lavoro, per una politica dell’occupazione. La scelta che andava fatta era di puntare (anche, ma in modo significativo) su settori a bassa produttività, su tecnologie ad alto contenuto di lavoro. Una politica che andava ancorata a priorità socialmente riconosciute. A questo si poteva accoppiare una ondata di grossi investimenti nella ricerca, e di stimoli economici in direzione di una riconversione di settori industriali per l’esportazione di beni e di tecniche verso paesi in via di sviluppo.
Aggiungeva Magri che pensare a questa serie di scelte di politica economica come a un ‘programma di governo’, a un insieme di leggi di riforma o di decisioni di spesa, frutto di un accordo di vertice, sia pure sotto la pressione di una spinta di massa, sarebbe stato puramente illusorio. Esse non potevano configurarsi se non come il frutto di un permanente e articolato movimento di massa, capace di funzionare in ogni momento e in ogni settore, oltre che come forza di pressione, come controparte del potere pubblico in precise ‘vertenze’, come elemento di controllo permanente, e anche di gestione attiva delle conquiste ottenute. Gestione diretta e di massa di un programma di lotta che via via si impone e si controlla e il cui procedere non risolve ma approfondisce la crisi del sistema (siamo, a me sembra, ancora nell’orizzonte del Gramsci delle Tesi di Lione, con una insospettabile convergenza con Federico Caffè).
Concludeva: non si tratta di imporre dal basso in modo diverso la linea riformista, ma di portare avanti in modo differente dal riformismo un programma che è intrinsecamente diverso, perché parte dalla demistificazione dell’illusione del ‘nuovo modello capitalistico’ (oggi diremmo: della ‘via alta’ allo sviluppo capitalistico). Se non si riesce, nella articolazione degli obiettivi e delle esperienze, a far avanzare il discorso sulla redistribuzione del reddito, sui consumi sociali, sull’occupazione, come strumento di lotta reale di massa, come crescita di potere prima e più che di singoli obiettivi, ogni discriminante di impostazione e di contenuto diventa formale. Non era un modello alternativo, stabile, di capitalismo, ma di gestione della crisi.
Ho scritto con le parole stesse di Magri, ma non ho potuto fargli giustizia. Troppo – di condivisible, ma anche di non condivisibile – ho dovuto tralasciare. Ma certo, in questo che Magri chiama provocatoriamente ‘modello alternativo di stagnazione’, condizione per poter porre un domani sul tappeto la questione di un (comunista) ‘modello alternativo di sviluppo’, troppe sono le somiglianze nei confronti di una radicale ‘socializzazione degli investimenti’, per non chiedersi in che misura le due analisi debbano reciprocamente essere confrontate, e interrogarsi vicendevolmente. 


Conclusioni
La gran parte degli autori che ho citato ha scritto quanto ho riportato negli anni Settanta. Quale l’attualità in ciò che hanno sostenuto allora? Enorme, a mio parere. La svolta neoliberista, se ha spiazzato per lungo tempo le questioni che si ponevano in quel decennio, non le ha affatto cancellate. Le ha viste semmai eclissarsi per tornare allo scoperto con maggior forza ed evidenza, ma in un contesto di rapporti di forza sociali ben più degradato.
Per mio conto, mi sono trovato a coordinare, per Rifondazione Comunista e assieme a Emiliano Brancaccio (quello che scrivo impegna, sia chiaro, soltanto me), una commissione sulla politica economica. Eravamo tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. La mia convinzione – potrei dire, da sempre: dall’inizio degli anni Settanta – è che la crisi italiana non soltanto fosse paradigmatica, pur nella sua eccezionalità, delle dinamiche del capitalismo europeo e globale, ma anche che essa avesse una natura ‘strutturale’. Non era, come non è, riducibile alla questione della diseguaglianza (i ‘bassi salari’). Né era, o è, risolvibile con un più acceso (e benvenuto) conflittualismo, con una (auspicata) migliore distribuzione: un po’ più di reddito qui, un po’ meno di orario di lavoro lì.
Il mio tentativo nella commissione fu quello di organizzare discussioni che portassero gli economisti italiani ‘di sinistra’ – una categoria purtroppo sempre più affetta dalla tara di agognare una presenza mediatica la più pronunciata possibile (tra un appello, una lettera, un monito, una comparsata in televisione); come anche dal desiderio profondo di divenire consiglieri di un qualche nuovo Principe - alla cognizione che il capitalismo che si era costituito negli anni Ottanta e Novanta, non era per niente un ritorno del ‘liberismo’, un trionfo di una generica ‘globalizzazione’, un misterioso e novissimo ‘postfordismo’, né tanto meno la vittoria di un introvabile ‘pensiero unico’. Insomma, le vuote sigle della sinistra alternativa e radicale. Era invece un ‘nuovo’ capitalismo nel pieno di un intervento politico attivo, che aveva trasformato e incluso i lavoratori dentro un meccanismo infernale, che gestiva internamente la domanda effettiva, e che dava vita a nuove forme del vecchio sfuttamento.
Da studiare era il nuovo mondo della produzione e della finanza, prima ancora di porre in questione domanda e distribuzione: perché appunto reform recovery vanno insieme. Un capitalismo per cui era prevedibile l’avvicinarsi di una grande crisi (tanto che sovrastimai la gravità della crisi scoppiata nel 2000, e con Joseph Halevi mi trovai pronto a quella del 2007; gli economisti della nostra sinistra se ne accorsero, male, a fine 2008). Con pazienza bisognava attrezzarsi sul piano ‘strutturale’ del modo di produzione: tanto per quel che riguardava l’approfondimento della conoscenza, quanto per quel che riguardava l’abbozzo di costruzione di un programma minimo. Muovendosi verso una politica economica attenta, ebbene sì, alle questioni legate alla ‘socializzazione degli investimenti’. Basta andarsi a rileggere quello che scrivevo allora.
Se devo essere sincero, non ho mai capito bene quale e quanto fosse l’investimento della dirigenza del Partito su quella sotto-commissione. Non molto, sospetto. Ci veniva detto di rimanere ‘sulle generali’, perché erano ‘ovviamente’ i politici a dover dettare la linea programmatica. E però quando le elezioni si avvicinavano ci si chiedeva con urgenza di scrivere le righe da mettere fianco a fianco agli altri mattoni approntati, separatamente, dagli ‘ecologisti’, dalle ‘femministe’, e così via (io, devo dire, mi sottrassi). Una cosa deve essere chiara. Una socializzazione degli investimenti, per essere proposta da sinistra (figuriamoci da partiti o movimenti comunisti), non si improvvisa. Richiede un lavoro. Non individuale, ma collettivo. Di lunga lena, che si costruisce nel tempo: basti pensare a che tipo di scuola e di università presuppone.
Bisognerebbe cominciare, un giorno o l’altro, con pazienza, a farlo, scontando i tempi della costruzione inevitabilmente lenta. Se no sarebbe meglio, di queste cose, non parlarne nemmeno. Non è tema né di articoli né di interventi ai convegni, se non si vuole essere superficiali. Pure, potete contare sul fatto che la dura realtà dei fatti (che hanno la testa dura, e non badano agli equilibri dei politici o delle comunità intellettuali) ci costringerà a parlarne sempre di più, seppur male, nei tempi a venire. Speriamo solo di sfuggire alla massa di banalità, e di vere e proprie insensatezze, che ci affligge sulla questione dell’euro, dove un tragitto simile è stato già percorso, in modo probabilmente irreparabile, sino a che non si sa veramente cosa dica la politica della sinistra (al singolare).