domenica 19 gennaio 2025

CAMILLA RAVERA SU GRAMSCI, IL FASCISMO, IL SETTARISMO. UNA MAESTRA DI ANTIFASCISMO COMUNISTA -

Da: https://www.facebook.com/Acerbo Maurizio - Estratti da un'intervista a Camilla Ravera conservata presso l'Aamod archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico. - Su Camilla Ravera: nasceva il 18 giugno 1889. Tra i fondatori del Pci nel 1921. Fu la prima donna a guidare un partito. Tenne in piedi l'organizzazione del Pci quando venne messo fuorilegge durante il fascismo. Dopo le leggi fascistissime del 1926 e l’arresto di #Gramsci, si impegnerà per tenere insieme e in costante contatto i comunisti italiani, cercando di rafforzare l’organizzazione clandestina del Pci. Arrestata nel 1930 ad Arona (Novara) fu condannata a 15 anni e 6 mesi. Il pellegrinaggio tra carceri e confino fu infinito: Trani, Perugia, Montalbano Ionico, S. Giorgio Lucano, Ponza, Ventotene. Espulsa e poi riammessa tra le fila comuniste entrò in parlamento nel 1948 Dirigente politico nel dopoguerra, è eletta per 2 legislature alla Camera. Nominata senatrice a vita (prima donna in Italia) , muore a Roma nel 1988. Per saperne di piu’: https://anppia.it/antifascisti/ravera-camilla - Su Umberto Terracini : https://www.maurizioacerbo.it/blogs/?p=7127 

(Camilla Ravera, fondatrice con Gramsci, Terracini, Tasca e Togliatti dell'Ordine Nuovo e poi del PCI. Mussolini ordina il suo primo arresto nel novembre 1922, ma Camilla riesce a sfuggire alla cattura per quasi otto anni. Per un po’ di tempo si fa chiamare “Silvia”, poi, il suo nome in codice diventa “Micheli”, tanto che in molti, tra i fascisti che le danno la caccia, pensano di avere a che fare con un uomo. E' stata la prima donna nominata (era il 1927) segretaria di un partito. Diresse l'attività clandestina durante la dittatura fascista sino al 1930 quando, rientrata clandestinamente in Italia dalla Francia, fu arrestata e condannata a quindici anni e mezzo, trascorsi tra carcere e confino sino alla caduta del fascismo. Sempre vicina alle posizioni di Gramsci fu con Terracini espulsa dal suo partito dai compagni nel confino di Ventotene. Entrambi furono riammessi nel partito da Togliatti. Il provvedimento nei suoi confronti verrà ritirato soltanto dopo la Liberazione quando, nel maggio del l945, Togliatti arriva a Torino. È in federazione, attorniato dai compagni quando, con aria sorniona, chiede: 'E dov’è la Ravera?'. Qualcuno risponde imbarazzato che la Ravera non c’è, non può esserci perché non è più nel partito. E Togliatti: 'Ma non scherziamo... Chiamatemi la Ravera e non si parli più di quella sciocchezza'”. Nel 1947, con Ada Gobetti, del Partito d'Azione, fu tra le fondatrici dell'Unione Donne Italiane. Eletta in parlamento dal 1948 rimase una dirigente attiva fino a tarda età. Fu la prima donna nominata senatrice a vita. La nominò il Presidente della Repubblica Sandro Pertini che con lei aveva condiviso il confino. Pertini rispose alle critiche in un'intervista tv https://www.youtube.com/watch?v=hAnvm7nlQ1Y ) Buona lettura! (Maurizio Acerbo)

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Gramsci prevedeva la presa del potere del fascismo. Era un po' isolato in questo. L'unico che gli dava ragione era Trotsky. Trotsky anche lui diceva che quando si arriva a un armamento di quella forza e di quella libertà, mentre la controparte è inerme e divisa è chiaro che questi arrivano al potere. Insomma, si discuteva di questo problema. Quello che stupiva soprattutto era Bordiga il quale diceva: “Lasciamo che vengono anche i fascisti, tanto Giolitti è sempre stato un governo borghese, Nitti un governo borghese, adesso quello che c'è è un governo borghese e anche i fascisti saranno un governo borghese, sarà la stessa cosa”. È strano. Bordiga era talmente settario nel concepire il movimento operaio, che per lui l'avversario si schierasse in qualunque modo e con qualunque forma, era l’avversario e basta. E quindi non c'era da preoccuparsi. 

P: Senza differenza di qualità? 

R: Senza differenza di qualità, il che è un grave errore politico, soprattutto tattico, da cui nascono poi tanti sbagli. Nacque lì la prima grande discussione tra Gramsci e Bordiga, che porterà alla rottura con Bordiga. Anche perché i fascisti daranno la dimostrazione che lui ha sbagliato. 

(...) Oggi si tende a immaginare quell’Internazionale come un ufficio dove ci fossero alcuni che comandavano a tutti i partiti una determinata politica basata su determinati interessi, per esempio anche dell'Unione Sovietica, la quale era minacciata da tutto il mondo capitalistico e quindi doveva avere la solidarietà di tutti. Quindi si tende a immaginare un Lenin despotico quasi - non parliamo poi di Stalin e di quello che era dopo. Ora lì, invece, in realtà, era una grande assemblea, l’Internazionale comunista, per come si formava. Ogni partito comunista aveva a Mosca per un certo periodo, che variava perché ogni partito sceglieva per esempio due elementi che stavano là per sei mesi a rappresentare il partito, quindi non per un periodo molto lungo perché non perdessero il contatto con la situazione loro particolare. Insieme tutti questi formavano l'esecutivo dell'Internazionale. In questo esecutivo si discutevano i problemi principali che emergevano sulla situazione di tutti i paesi così organizzati, per esempio per la grande lotta dei minatori inglesi come solidarizzare da parte degli altri partiti operai e così di seguito. I rapporti erano estremamente fraterni, cordiali e in piena uguaglianza. Per esempio io ero lì da pochi giorni con Gramsci e Lenin ci fece sapere che desiderava parlare con qualche delegato arrivato dall'Italia per essere informato sugli ultimi avvenimenti. Era avvenuta la Marcia su Roma e tutti i giornali ne parlavano e anche lui voleva sapere. Bordiga era arrivato proprio in quel momento e mi disse: “Vieni anche tu, andiamo insieme” e siamo andati da Lenin. Ora io stessa a pensare questo Lenin che aveva diretto questa rivoluzione in un territorio così vasto e così straordinariamente difficile anche, lo immaginavo anche io un personaggio… Chissà forse siamo abituati a vedere il personaggio importante, che ha una certa dimensione, un certo modo di fare, un certo imperativo in sé. Tant’è vero che quando sono entrata in quello studio ho visto al tavolo un ometto molto normale, vestito molto modestamente, con un aspetto solito che appena ci vide si alzò in piedi. Già conosceva Bordiga. Ci venne incontro e ci abbracciò molto fraternamente come se ci fossimo sempre veduti. “I compagni italiani…” parlava anche qualche parola in italiano perché veniva sempre in Italia per trovare Gor’kij. 

(...) Il discorso perciò con Lenin fu una conversazione molto amichevole. Aveva un grande interesse anche per i particolari sul fatto dell'avvento del potere fascista, aveva sul tavolo i giornali italiani che leggeva in gran parte oppure si faceva tradurre. Fu solo molto meravigliato della posizione di Bordiga, quando chiese a Bordiga il giudizio che davano sulla situazione che si stava creando in Italia. Bordiga rispose che non era nulla di diverso e che invece di Giolitti o di Nitti o di un altro si avrà Mussolini al governo e come vantaggio, essendo al governo, che Mussolini non avrebbe più bisogno della milizia, che avrebbe sciolto la milizia fascista, che sarebbero cessate le violenze dei fascisti e così si sarebbe potuta riprendere la lotta in una situazione normalizzata. Lenin lo guardò con grande sbalordimento e disse: “Caro Bordiga, non sarà così facile, così semplici le cose”. Ci disse invece che avremmo avuto una lunga lotta, che non era da escludere che avessimo anche dovuto arrivare alla clandestinità come c'erano arrivati loro durante lo zarismo e che sarebbe stata anzi una lotta più complessa perché per liberarci da una forza armata come il fascismo avremmo avuto per forza la necessità di creare fra noi, fra tutte le forze antifasciste, l'unità antifascista. Ci diede quella indicazione. 

(...) il settarismo vuol dire questo: basandosi su determinati principi basilari e fondamentali del momento in cui un certo partito oppure una certa corrente si è creata, non ammettere che i fatti obiettivi possano richiedere delle modificazioni a questa linea. 

Qualcuno credeva, anche nel nostro partito, che generalmente erano i compagni che non venivano dal gruppo gramsciano - infatti io e Terracini venivamo del gruppo gramsciano -, tutti gli altri che ci hanno condannati in quel momento nessuno era stato nel gruppo gramsciano. Nel gruppo gramsciano noi avevamo interpretato il marxismo in tutt'altro modo. 

Qual è il difetto del settarismo? Prendere le indicazioni che Marx dava in quel momento del suo esame come indicazioni definitive in tutta la prospettiva. Mentre Marx non diceva questo. Tanto è vero che mentre indicava nel suo manifesto che la lotta della classe sfruttata doveva essere permanente, continua, fino a diventare prevalente, nel momento stesso dava ai suoi concittadini delle indicazioni molto più moderate e cioè organizzatevi, incominciate a unirvi, datevi degli organismi dirigenti, diventate una forza e così via. E poi di mano in mano, di mano in mano, in Inghilterra dava un'altra parola più avanzata. Ora, il settarismo vuol dire questo: chiudersi in una visione limitata che qualche volta sta all'origine di una posizione di principio e anche di lotta e non volere mettere nessuna modificazione. In questo modo delimita anche le forze che partecipano alla lotta, perché se qualche cosa in questo schieramento intravede delle possibilità diverse o delle necessità diverse, le esclude perché distruggono il cerchio in cui è chiuso quel limite stabilito dal momento in cui hanno afferrato un determinato oggetto politico. 

(...) ognuno di noi aveva per le condanne - se parliamo delle condanne che si riferivano a Bucharin, a Zinov’ev, a Radek e a tutta quella serie di compagni che noi avevamo conosciuto personalmente. Io me li vedevo davanti a me, come dei bolscevichi straordinari, per la loro vita precedente, per quello che avevano fatto, erano i collaboratori di Lenin… e non potevo immaginarmeli con il volto del traditore che si deve per forza fucilare. Mi rendevo conto e ci rendevamo conto, ragionandoci sopra, che siccome la politica che in quel momento si faceva era estremamente difficile e anche estremamente rischiosa, potevamo capire come per esempio un economista come Bucharin si trovasse a ridire del punto di vista economico e facesse delle critiche - e potevamo anche capire che dato il temperamento di Stalin, che di mano in mano diventava più incapace di sopportare delle contraddizioni preso com’era dal timore di un crollo - e che Bucharin avesse anche manifestato queste sue opinioni in lettere che scriveva ai compagni degli altri partiti ed era una cosa che può avvenire questa. Ma che questo fosse il tradimento che merita la fucilazione, lo negavamo fra di noi: in questo eravamo tutti d'accordo. Però mettevamo sempre come riserva che non eravamo sufficientemente informati dei motivi che avevano portato a una divisione così tremenda e così feroce in questo gruppo che era stato così compatto e fortissimo nel fare la Rivoluzione d'Ottobre. Per noi era una cosa che non riuscivamo a spiegarci. Naturalmente c'erano invece alcuni dei compagni, degli stessi compagni più dirigenti del collettivo... 

P: Fu a proposito di questi problemi o di altri che avvenne il famoso fatto dell'espulsione dal partito di Terracini prima e di te dopo, cioè da parte del collettivo, di questo collettivo del confino che non era la segreteria del partito. Ecco, come avvennero questi fatti? 

R: Questo avvenne molto dopo, non dopo i fatti delle condanne fatte da Stalin. In quel momento anche se c'erano opinioni diverse, fu una discussione, nessuno condannò l'altro. 
Ma invece quando nel ‘43 noi già vedevamo i segni del crollo del fascismo, soprattutto questo, quando avvennero i grandi scioperi torinesi, la Fiat… tutte le grandi fabbriche di Torino che scioperarono in massa, e poi di tutta la provincia, che poi si dilatarono a Milano e in piccola parte della Lombardia; e poi le notizie che ricevevamo dai nostri parenti, dai nostri compagni; pensando a una probabile caduta del fascismo, che sarebbe avvenuta però come un intervento popolare, in una certa misura, o perlomeno che sarebbe stata seguita da un'azione popolare molto forte per liberarsi definitivamente, e per cambiare di schieramento, perché i fascisti erano in guerra con i nazisti, con Hitler, e noi pensavamo che l'Italia liberata da Mussolini e dal fascismo doveva schierarsi contro il nazismo e contro Hitler e quindi dall'altra parte democratica. Su questo avvennero delle discussioni. A un tratto Terracini, che è sempre il più estroso nel trovare le indicazioni, disse: “Io credo che il nostro partito, nel momento in cui si delineasse la possibilità di un crollo del fascismo e di un possibile cambiamento, di un possibile cambiamento anche nel regime e nel governo italiano, noi dovremmo avere come politica la massima unità antifascista e democratica. Questa dovrebbe essere la nostra parola d'ordine”. E chiese a Scoccimarro, che era uno dei più rigidi e dei più settari - un ottimo compagno però - disse: “Sarà meglio che tu indichi di quali forze” e Terracini disse: “I comunisti e i socialisti, questi formeranno la forza fondamentale, ma anche i socialdemocratici e anche i liberali di sinistra. Io accetterei persino”, disse Terracini, “qualche monarchico antifascista”. Allora fu lo scandalo. Incominciarono una specie di polemica rabbiosa contro Terracini, che era ormai uscito dall'alveo della politica comunista. Per loro, invece, l'unità doveva essere fatta solo tra comunisti e socialisti, i quali avevano un loro programma, gli altri ne avrebbero avuto un altro e si sarebbe visto quale dei due programmi era il più forte. Ma questo doveva prospettarsi in secondo tempo, quando già il fascismo era eliminato, diceva Terracini. Ora, la discussione durò alcuni giorni, durò più giorni anzi. Ed era proprio quel momento, così vicino al crollo, vicino, dicono, nel tempo, non vuol dire nei mesi e nelle settimane, che noi ricevevamo meno notizie, perché c'era la guerra. Togliatti non era più a Parigi, era il personaggio con cui avevamo più possibilità e facilità di comunicazione. Non solo, Parigi era già occupata, non c'era nemmeno più mio fratello Cesare a Parigi. E la mia famiglia era dovuta anch'essa allontanarsi da Torino perché il palazzo dove abitavano era stato colpito dalle bombe. Purtroppo ci aveva anche distrutto una parte della nostra biblioteca. E quindi, tutte queste cose insieme avevano un po' rallentato e anche reso più difficile quelle comunicazioni dirette che prima avevamo con Togliatti. 

Allora, mi viene comunicato che era stato deciso dai membri del direttivo del collettivo l'espulsione di Terracini dal collettivo comunista. Allora io intervenni e chiesi le spiegazioni di questo fatto. Naturalmente io ero d'accordo con quello che diceva Terracini perché quella era la linea che veniva da Togliatti, la linea dell'unità fascista totale che sola avrebbe permesso la liberazione definitiva dal fascismo. Io dicevo che Terracini era più fermo su questa politica e anche io perchè noi è da quella linea che siamo partiti e di lì abbiamo sempre proceduto e sempre con gli stessi intendimenti, con gli stessi obiettivi e anche con la stessa prospettiva. Siccome io diedi ragione a Terracini, mi comunicarono che allora anche io ero espulsa dal collettivo. Noi, io e Terracini, devo dire la verità, accettammo questo - fu una cosa sgradevole, naturalmente, era una rottura con i compagni con cui avevamo avuto sempre dei rapporti diversi - ma non la prendemmo molto sul drammatico perchè eravamo convinti che era vicino il crollo del fascismo. 

Io e Umberto sostenevamo che, se il principio del socialismo era universale, ogni Paese aveva il diritto di costruirlo sulle proprie esigenze e specificità e che un passaggio di società come quello che c’era stato in Russia non era obbligato anche da noi; mentre altri compagni, come Secchia e Scoccimarro, consideravano errato il solo fatto di pensare che la via seguita in Urss potesse non essere universale come se tutto fosse già stabilito e preparato. Mi hanno sempre fatto paura le idee settarie e chiuse: forse perché sia io che Terracini ci eravamo formati nel gruppo di Gramsci dove c’era una grande capacità di critica e di discussione. Così ci cacciarono via del Partito. Sì, fu per me un momento molto amaro. 

P: Quanti erano coloro che hanno preso questa decisione dell'espulsione? 

R: Erano pochissimi. Erano Scoccimarro, Secchia, mi pare Roveda… Roveda a malincuore poi la cambiò lungo il viaggio; e poi qualcun altro, mi pare Portolongo… qualcun altro che adesso non ricordo nemmeno più. 

P: E il resto invece dei confinati? 

R: Non fu neppure comunicato ai confinati questo. Quelli di questo collettivo che avevano preso la decisione ce lo dissero che loro non l'avrebbero comunicato perché non essendo una decisione statutaria non aveva un valore formale. 

P: Però non vi rivolgevano più la parola? 

R: Loro no, i compagni sì però. I compagni sì perché neppure lo sapevano. Avevano capito che c'era qualcosa. Ai compagni avevano semplicemente detto - e avevano mentito - avevano detto che noi eravamo contro la politica del partito in quel momento. In realtà poi si vide, appena liberati, che eravamo veramente noi d'accordo con la politica del partito perché nella formazione dei partigiani, ossia nelle forze di Liberazione furono messi comunisti, socialisti, socialdemocratici, Partito d'Azione, liberali, anche dei monarchici. Per esempio, quel generale Cadorna, era un monarchico, Cadorna, e fu tra i dirigenti dell'Esercito di Liberazione, insieme con Longo, insieme con quelli che dirigevano il Comitato di Liberazione. 

P: C'erano anche delle compagne, donne, al confino. 

R: Sì c'erano, ma loro non avevano saputo niente di tutto questo. Ora, io e Terracini, esaminammo questo problema, se convenisse parlarne con i compagni, e tutti e due - noi amiamo molto il partito e la lotta operaia e di sinistra, al di sopra di noi e al di sopra di tutto e di noi stessi - facemmo questo ragionamento: se parliamo di questa espulsione che ci è stata data, dividiamo le forze che sono qui, presenti, perché eravamo sicuri che la maggioranza magari non erano d'accordo, anche una minoranza, ma l'accordo non ci sarebbe stato. Ora, è una cosa utile al movimento antifascista che noi dividiamo questo gruppo? Eravamo quasi duemila. Tutti dirigenti, non dirigenti nazionali che erano pochi, ma dirigenti regionali, federali, di Camere del Lavoro, elementi che uscendo di lì, ognuno al suo posto, doveva assumersi la dirigenza del movimento generale... 

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