mercoledì 8 gennaio 2025

Breve storia degli Stati Uniti e delle loro pretese territoriali - Alessandra Ciattini

Da: https://futurasocieta.com -  Alessandra Ciattini (Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni - Membro del Coordinamento Nazionale del Movimento per la Rinascita Comunista) ha insegnato Antropologia culturale alla Sapienza di Roma. E' docente presso l'Università Popolare Antonio Gramsci (https://www.unigramsci.it). 

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Le ultime provocazioni di Donald Trump non manifestano solo l’arroganza del personaggio, ma sono ispirate alla stessa storia degli Stati Uniti, costituitisi con occupazioni illegali, acquisizioni imposte, annessioni non accettate dalle popolazioni, basate esclusivamente sul principio della forza.

In questi ultimi giorni si è parlato molto delle ultime dichiarazioni o provocazioni di Donald Trump, che assumerà la presidenza degli Usa il prossimo 20 gennaio, benché qualcuno non scarti la possibilità dell’insorgere di un qualche impedimento al suo insediamento. Come è noto, ha prospettato la trasformazione del Canada nel 51° Stato dell’Unione, promettendo ai suoi abitanti una straordinaria riduzione delle tasse e una protezione militare ineguagliabile, ha dichiarato che il Canale di Panama dovrebbe tornare nelle mani degli Usa, se il governo di quel Paese non garantirà il suo funzionamento sicuro, efficiente e affidabile. Inoltre, ha accusato quest’ultimo di applicare tariffe esorbitanti al suo Paese, al suo esercito e alle corporazioni con cui questi ultimi fanno affari, prefigurando un’ipotetica influenza della Cina che, effettivamente, sta rafforzando i legami economici e commerciali con quei territori evidentemente ancora intoccabili per l’antica dottrina Monroe (1823). 

Naturalmente, Paesi come Messico, anch’esso da incorporare, Cuba, Colombia, Nicaragua, Venezuela e lo stesso governo panamegno hanno reagito con forza, sottolineando la sfrontatezza e la mancanza di fondamento della pretesa di quel bizzarro personaggio con cui dovremo fare i conti nei prossimi quattro anni. Anche la Cina si è espressa negativamente.

Come se queste provocazioni non bastassero, Trump ha affermato che gli Usa potrebbero acquistare la Groenlandia, territorio autonomo della Danimarca dal valore inestimabile, il cui governo ha risposto, dicendo “non siamo in vendita”, e poi ha deciso uno stanziamento di un miliardo e mezzo di dollari per comprare due navi addette al controllo delle coste dell’isola ghiacciata, droni, e per ristrutturare l’aeroporto più importante. Dobbiamo anche ricordare che nell’isola ci sono la solita base statunitense rilevante sia per il sistema di difesa missilistico e per il monitoraggio delle missioni spaziali, e depositi di risorse, oggi vitali, come il petrolio, il neodimio e il disprosio indispensabili per la costruzione di magneti; minerali che non mancano a Cina e a Russia. A parere del neopresidente, spalleggiato dall’immancabile Elon Musk, l’acquisizione della Groenlandia garantirebbe la sicurezza nazionale degli Usa, da cui discende ovviamente – come tutti abbiamo potuto già sperimentare – un vantaggio per la libertà del pianeta. D’altra parte, è cosa nota che gli Usa hanno sempre pensato alla Groenlandia, tanto che nel 1941, dopo che la Danimarca era caduta nelle mani dei nazisti, la trasformarono in un loro protettorato, dopo aver pattuito con l’ambasciatore danese senza il consenso del suo governo. Meno nota è la loro presenza in Islanda, Paese neutrale occupato dai britannici nel 1940, cui vennero in aiuto i militari Usa, che non ancora erano entrati guerra e che lasciarono l’isola solo nel 1946. Fatti storici che è meglio non ricordare.

Anche se rozze nella forma, le uscite di Trump sono facilmente comprensibili: nella competizione sempre più spasmodica per mantenere la supremazia imperialistica, gli Usa debbono espandersi per conquistare sempre nuove risorse e per controllare territori strategici (per esempio, la rotta dell’Artico).

Ma questo comportamento costituisce una novità o è una costante della storia statunitense, che svela la natura recondita di questo Stato che, sin dalla sua formazione, ha collezionato territori strappati con la forza o il denaro ad altri occupanti?

Per rispondere a questa domanda occorre ripercorrere la storia dell’ex colonia britannica, formata dopo la Guerra di indipendenza da tredici Stati, situati sulla costa atlantica, la cui popolazione di origine europea aveva già avviato la politica di pulizia etnica e di sterminio dei cosiddetti pellirossa. La tanto celebrata guerra, di fatto, si trasformò rapidamente in uno scontro internazionale, in cui intervennero la Francia, la Spagna e le Province Unite, e si estese anche ai territori britannici del Canada, che non poterono essere annessi. Le cosiddette guerre indiane terminarono nel 1886 con la cattura del capo degli apache, Geronimo, fautore di una strenua quanto purtroppo inutile resistenza; dobbiamo ricordare, tuttavia, il successivo massacro di 300 sioux nella celebre battaglia di Wounded Knee combattuta nel 1890.

Nel corso dell’Ottocento i pellirossa furono sostituiti dagli immigrati europei, originari in maggioranza della Gran Bretagna, dell’Irlanda e della Germania, che poi divennero i famosi wasp. Grazie all’alto tasso di natalità si ebbe una straordinaria crescita demografica: nel 1790 gli Usa avevano solo 4 milioni di abitanti, nel 1870 avevano già raggiunto i 40 milioni.

La crescita demografica fu favorita e accompagnata da una significativa espansione economica dovuta agli sviluppi tecnologici nei vari settori industriali (industria tessile, siderurgica, costruzione delle ferrovie, etc.) e alla presenza di una consistente manodopera. Un contributo rilevante venne anche dalle politiche di organizzazione del lavoro, basate sulla produzione a catena e sulla razionalizzazione delle attività produttive, da cui scaturì il famoso taylorismo. In definitiva, si costituì un forte e arrogante sistema economico capitalistico e successivamente imperialistico.

Lo sviluppo economico e sociale del Paese avvenne di pari passo con l’espansione territoriale che, secondo Trump, non sembra ancora essersi conclusa, e che fu presentata tramite la nota dottrina Monroe come il mezzo per impedire alle potenze europee di occupare i territori americani, che paradossalmente dovevano restare in mano dei discendenti di queste ultime e non dei nativi.

Le nuove acquisizioni territoriali avvennero nel corso dell’Ottocento mediante guerre o acquisti negoziati con le potenze europee ancora presenti nel continente americano, ma non più nelle condizioni di difendere quei possedimenti di fronte all’aggressività del nuovo Stato.

Il primo acquisto fu realizzato nel 1803 e riguardò la Louisiana, in passato occupata da importanti e numerose tribù indiane, regione che comprendeva quelli che poi diventeranno Stati diversi, e nella quale si erano combattuti aspramente francesi e spagnoli. Essa fu ceduta dalla Francia, fortemente indebitata con gli Usa, che la controllava e che, dominando New Orleans, aveva in suo potere tutto il commercio lungo il Mississippi. Nel 1819, invece, venne annessa la Florida, strappata agli indiani Seminole, ceduta dalla Spagna, che l’aveva conquistata nel XVI secolo e attualmente abitata in gran parte dalla cosiddetta comunità cubana dell’esilio. In seguito alla guerra con il Messico (1846-1848) e all’annessione del Texas, avvenuta nel 1845, in cambio di 15 milioni di dollari un’importante parte della ex colonia spagnola entrò a far parte dell’Unione, in particolare gli attuali Stati della California, Nevada e Utah, Wyoming, Arizona e New Mexico e una porzione del Colorado. 

A giustificazione dell’espansionismo statunitense, che si era già nutrito dello sterminio degli indiani, cominciò a essere diffusa la dottrina del “destino manifesto”, ispirata alla nozione biblica del “popolo eletto”, a cui ancora oggi si afferra Israele, secondo cui Dio aveva attribuito a quel popolo il dominio dell’America settentrionale per diffondervi la democrazia; parola che non viene nemmeno nominata nei documenti fondativi di quello Stato e a cui ormai, del resto, sembrano credere in pochi. Inoltre, è bene aggiungere che in Gringolandia – come dicono i latino-americani – l’abolizione agli ultimi impedimenti al suffragio veramente universale è avvenuta solo negli anni ’70 del Novecento, per non parlare della discriminazione razziale verso i non wasp che è ancora profondamente radicata.

In questa breve storia degli Usa e della loro espansione, che li ha collocati sul trono del mondo durante secoli segnati da conflitti sanguinosi, non può mancare la menzione della conquista del famoso Far West, che ha alimentato tanta parte della cultura di quel Paese e che ha costituito un modello ideologico importantissimo. Infatti, lo schema dello scontro con i selvaggi funziona ancora oggi a giustificazione delle prepotenze compiute dalla cosiddetta più grande democrazia del pianeta. Pensiamo al celebre film di John Ford, agente dei servizi segreti, intitolato “Ombre rosse” (1939), in cui una diligenza, occupata da gente di diversa estrazione, viene attaccata dagli apache di Geronimo, i rossi da combattere. Paradossalmente, di fronte al pericolo, gli individui “moralmente indegni” (l’ex prostituta, un medico alcolizzato, etc.) si mostrano più coraggiosi e altruisti di quelli “socialmente rispettabili”. In definitiva, il film vuole rappresentare la parabola del colono sfortunato che, unendosi ai suoi simili, crea una comunità migliore e tollerante, facendoci comprendere come gli Stati Uniti si autorappresentano.

Alla base della colonizzazione di altri territori sta l’arrivo di nuovi lavoratori europei attirati dalla disponibilità di grandi estensioni di terra coltivabile e dalla scoperta di miniere di oro in California (1848).

Nelle grandi praterie, dove erano presenti grosse mandrie di bufali, cacciati dai restanti pellerossa, si praticò la coltivazione estesa di cereali e si cominciarono a costruire le ferrovie, che consentirono la distribuzione della popolazione e favorirono la specializzazione economica delle varie regioni.

Invece, nella parte meridionale degli Usa, che si estende dall’Atlantico al confine con il Messico, si svilupparono le piantagioni di cotone, di canna da zucchero e di tabacco, in cui lavoravano gli schiavi provenienti dall’Africa. In realtà, vi erano differenze nette tra i proprietari terrieri: alcuni possedevano numerosi schiavi, altri in numero insignificante e altri ancora erano semplicemente coltivatori diretti.

Come è noto, gli africani hanno dato un contributo significativo alla cultura del Paese che li accolse come schiavi ma, probabilmente, la loro cristianizzazione avvenuta tramite il protestantesimo è stata più penetrante e distruttiva di quella cattolica.

Il nord-est fu caratterizzato da un grande sviluppo industriale ed entrò in attrito con il sud schiavistico, perché la razionalizzazione della produzione e l’impiego del lavoro salariato garantivano maggiori profitti e rendevano possibili sempre nuove innovazioni inimmaginabili nella piantagione tradizionale. Inoltre, i proprietari terrieri del sud erano a favore del libero scambio, mentre il nord industriale intendeva difendere le sue fabbriche e, pertanto, sosteneva una politica protezionistica. Queste importanti discrepanze condussero il sud a prefigurare prima l’annessione di Cuba, comprandola dagli spagnoli, per avere una salda maggioranza nel Congresso, dove avrebbero seduto anche i proprietari dell’isola. Successivamente, optò per la secessione dall’Unione per costituire un’unica nazione con altri Stati schiavistici. Il conflitto sfociò nella guerra civile tra nordisti e sudisti (Guerra di secessione 1861-1865), che fu oggetto di studio da parte di Marx e di Engels, i quali concordavano nel considerare il sistema schiavistico una diversa forma di capitalismo, in cui il profitto è prodotto sulla pelle degli schiavi. D’altra parte, l’autore del Capitale sostenne anche politicamente il movimento abolizionista, attuandolo nell’ambito dell’Internazionale e mobilitando i lavoratori per impedire che la Gran Bretagna entrasse in guerra a favore degli schiavisti.

Dopo questo sintetico percorso storico, torniamo al megalomane Trump, il quale non si rende conto che proprio le sue pretese annessioniste e la convinzione che “solo con tasse agli altri Paesi torneremo a essere grandi” mostrano l’incipiente debolezza del sistema capitalistico Usa. Se “l’America deve tornare grande” vuol dire che non lo è più, e non solo per la crescente perdita di credibilità internazionale e l’insorgere di altre agguerrite potenze, ma anche per i gravissimi problemi interni: disfacimento delle infrastrutture, del sistema medico e educativo, disoccupazione, indebitamento, diffusione di droghe, crisi ecologiche sempre più intense. Purtroppo, per i lavoratori statunitensi le semplicistiche ricette di Trump non faranno migliorare la situazione del Paese.

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