domenica 17 luglio 2016

Colonialismo, neocolonialismo e balcanizzazione: tre epoche di una dominazione* - Saïd Bouamama

*Da:     Le blog de Saïd Bouamama        https://traduzionimarxiste.wordpress.com/ 




Iraq, Libia, Sudan, Somalia ecc. , la lista di nazioni ridotte in pezzi a seguito di una guerra e di un intervento militare statunitense e/o europeo continua a allungarsi. Al colonialismo diretto di una «prima fase» del capitalismo e al neocolonialismo di una «seconda fase» sembrerebbe succedere la «terza fase», quella della balcanizzazione. Contemporaneamente, si può constatare una mutazione nelle forme del razzismo. A quello biologico ha fatto seguito, dopo la Seconda guerra mondiale, un razzismo culturalista, quest’ultimo da alcuni decenni tende a declinarsi, a partire dal fattore religioso, sotto la forma dominante, al momento, dell’islamofobia. Ci troviamo, a nostro modo di vedere, in presenza di tre storicità strettamente articolate: quella del sistema economico, quella delle forme politiche della dominazione e quella delle ideologie di legittimazione.


Ancora su Cristoforo Colombo

La visione eurocentrica dominante spiega l’emergere e il diffondersi del capitalismo a partire da fattori interni alle società europee. Ne deriva la nota tesi che vorrebbe alcune società (alcune culture, religioni ecc.) dotate di una storicità, laddove altre ne sarebbero prive. Quando Nikolas Sarkozy afferma nel 2007 «il dramma dell’Africa è che l’uomo africano non è realmente entrato nella storia» (1), non fa che riprendere un ritornello delle ideologie di giustificazione dello schiavismo e della colonizzazione:

«La «destoricizzazione» gioca un ruolo decisivo nelle strategie di colonizzazione. Essa legittima la presenza dei colonizzatori e certifica l’inferiorità dei colonizzati. La tradizione delle storie universali, poi le «scienze coloniali» hanno imposto un postulato sul quale si è costruita la storiografia coloniale: l’Europa è «storica» mentre «l’astoricità» caratterizza le società colonizzate definite come tradizionali e immobili. […] L’Europa, guidata dai suoi valori intellettuali e spirituali compie, attraverso l’espansione coloniale, una missione storica, portando nella Storia popoli che ne erano stati privati o rimasti fissi a uno staio di evoluzione della storia superato dagli europei (stato di natura, medioevo, ecc.).» (2)

La longevità e la ricorrenza (al di là dei cambiamenti di forme e presentazione) di una simile lettura essenzialista e eurocentrica della storia del mondo ne rimarca la funzione politica: la negazione di ogni interazione. Dopo che Cristoforo Colombo ha fatto sbarcare i suoi soldati, la storia mondiale è divenuta una storia unica, globale, interconnessa, mondializzata. La povertà di alcuni non può essere spiegata senza interrogarsi sui nessi causali con la ricchezza di altri. lo sviluppo economico di alcuni è indissociabile dal sottosviluppo di altri. Il progresso dei diritti sociali qui non è possibile che attraverso la loro negazione altrove.

L’occultamento delle interazioni necessita una mobilitazione dell’istanza ideologica al fine di formalizzare delle griglie esplicative gerarchizzanti. Tali griglie costituiscono il «razzismo» al contempo nelle sue costanti e nelle sue mutazioni. Invarianza perché tutti i volti del razzismo, dal biologismo all’islamofobia, hanno in comune il risultato: la gerarchizzazione dell’umanità. Mutazione poiché a ciascun volto del razzismo corrisponde uno stadio del sistema economico di predazione e uno stato dei rapporti politici di forza. Al capitalismo pre-monopolista corrisponderà lo schiavismo e la colonizzazione quale forma di dominazione politica, e il biologismo come forma del razzismo. Al capitalismo monopolista corrisponderà il neocolonialismo come forma di dominazione e il culturalismo come forma del razzismo. Al capitalismo monopolista mondializzato e senile corrisponderà la balcanizzazione e il caos come forme della dominazione e l’islamofobia (in attesa di altre declinazioni da applicare a altre religioni del sud in funzione del paese da balcanizzare) quale forma del razzismo.

I legami tra l’evoluzione della struttura economica del capitalismo e le forme della dominazione sono state già da tempo messi in evidenza da Mehdi Ben Barka nella sua analisi della comparsa del neocolonialismo come successore del colonialismo diretto. Esaminando le «indipendenze concesse», egli le pone in relazione con le mutazioni della struttura economica dei paesi dominanti:

«Questo orientamento [neocoloniale] non costituisce una semplice scelta nel dominio della politica estera; bensì è l’espressione di un cambiamento profondo nelle strutture del capitalismo occidentale. Dal momento in cui l’Europa occidentale, dopo la Seconda guerra mondiale, grazie al Piano Mrshall e a una crescente compenetrazione con l’economia americana, si è allontanata dalla struttura del XIX secolo così da adattarsi al capitalismo americano, era normale che adottasse anche il tipo di relazioni degli Stati Uniti col resto del mondo; in altre parole che anch’essa avesse la propria «America latina.» (3)

Secondo il leader rivoluzionario marocchino, è proprio la monopolizzazione del capitale a suscitare il passaggio dal colonialismo al neocolonialismo. Analogamente, la precocità della monopolizzazione negli Stati Uniti è una delle cause della precocità del neocolonialismo come forma di dominazione dell’America latina.

Gli intrecci tra le forme della dominazione e le evoluzioni delle forme di razzismo, per parte loro, sono state sottolineate dal Franz Fanon. La resistenza innescata da una forma di dominazione (il colonialismo per esempio) costringono quest’ultima a modificarsi. Simile mutamento necessita, tuttavia, del mantenimento della gerarchizzazione dell’umanità e, conseguentemente, comporta una nuova era dell’ideologia nazista. «Questo razzismo, precisa Fanon, il quale si vuole razionale, individuale, determinato, genotipico e fenotipico si trasforma in razzismo culturale». Quanto ai fattori che spingono alla mutazione del razzismo, Franz Fanon menziona la resistenza dei colonizzati, l’esperienza nazista, vale a dire «l’istituzione di un regime coloniale nel cuore dell’Europa», e «l’evoluzione delle tecniche» (4) ossia le trasformazioni delle strutture del capitalismo, come rilevato da Ben Barka.

Senza addentrarsi nel complesso dibattito su una precisa periodizzazione del capitalismo, è possibile collegare quei tre ordini di fatti rappresentati dalle mutazioni delle strutture economiche, delle forme della dominazione politica e delle trasformazioni dell’ideologia politica. Le tre «epoche» del capitalismo richiamano tre «epoche» della dominazione le quali, a loro volta, suscitano tre «epoche» del razzismo.

L’infanzia del capitalismo

L’essenza del capitalismo come modo di produzione economico consiste, a causa della sua legge del profitto, nella tendenza all’estensione permanente. Esso è immediatamente mondializzazione, benché quest’ultima conosca dei limiti di sviluppo. Il che la dice lunga sulla mistificazione del discorso odierno sulla globalizzazione, teso a presentarla come un fenomeno del tutto inedito legato alle mutazioni tecnologiche. Come sottolineato da Samir Amin, la nascita del capitalismo e la sua mondializzazione vanno di pari passo:

«Il sistema mondiale non è la forma relativamente recente del capitalismo, risalente esclusivamente all’ultimo terzo del XIX secolo nel momento in cui si costituisce «l’imperialismo» (nel senso che Lenin conferisce al termine) e la spartizione coloniale del mondo a esso associata. Al contrario, affermiamo che tale dimensione mondiale trova immediatamente la propria espressione, sin dall’inizio, e rimane una costante del sistema attraverso le tappe successive del suo sviluppo. Se si ammette che gli elementi fondamentali del capitalismo si cristallizzano in Europa a partire dal Rinascimento – la data del 1492, inizio della conquista dell’America, segnerebbe dunque la nascita del capitalismo e del sistema mondiale – i due fenomeni sono inseparabili.» (5)

Detto in altri termini, il saccheggio e la distruzione delle popolazioni amerindie, così come lo schiavismo, sono stati le condizioni grazie alle quali il modo di produzione capitalistico è divenuto dominante nelle società europee. Non c’è stata la nascita del capitalismo e successivamente la sua estensione, bensì un saccheggio e una violenza totali, nei quali si sono lievitate le condizioni materiali e finanziarie  per l’installazione del capitalismo. Notiamo, inoltre, seguendo Eric Williams, che la distruzione delle civilizzazioni amerindie si è accompagnata alla riduzione in schiavitù. Dunque, non è lo schiavismo a essere conseguenza del razzismo, quest’ultimo è il risultato della schiavitù india. «Nei Caraibi, afferma questo autore, il termine schiavitù è stato applicato in maniera eccessivamente esclusiva ai neri. […] Il primo esempio di commercio di schiavi e manodopera schiavistica nel Nuovo mondo non concerne i neri ma gli indios. Questi ultimi soccomberanno rapidamente per l’eccesso di lavoro e, a causa del cibo insufficiente, moriranno delle malattie importate dai bianchi.» (6)

La colonizzazione, allora, non è altro che il processo di generalizzazione dei rapporti capitalistici al resto del mondo. Essa costituisce la forma di dominazione politica finalmente trovata al fine di esportare e imporre tali rapporti sociali al resto del mondo. A questo scopo, era necessario, ovviamente, distruggere i rapporti sociali indigeni e le forme di organizzazione sociale e culturale da essi generate. L’economista algerino Youcef Djebari ha mostrato l’ampiezza della resistenza delle forme anteriori di organizzazione sociale e la violenza indispensabile al fine di eliminarle: «Il capitale francese si è trovato di fronte, in tutti i suoi tentativi di annessione e dominazione dell’Algeria, a una formazione sociale e economica ostile alla sua penetrazione. Ha per tanto dispiegato tutto un arsenale di metodi per schiacciare e sottomettere le popolazioni autoctone.» (7) La violenza totale è, per tanto, consustanziale alla colonizzazione.

E proprio al fine di legittimare violenza e distruzioni che emerge il razzismo biologico. Il razzismo sottolinea Fanon «rientra in un complesso caratteristico: quello dello sfruttamento più spudorato di un gruppo di uomini da parte di un altro. […] E questo è il motivo per cui l’oppressione militare e economica, il più delle volte, precede, rende possibile e legittima il razzismo. L’abitudine a considerare il razzismo come una disposizione dello spirito, come una tara psicologica, andrebbe abbandonata.» (8)

Il razzismo in quanto ideologia di gerarchizzazione dell’umanità, atta a giustificare la violenza e lo sfruttamento, non è, dunque, una caratteristica dell’umanità ma un prodotto storicamente e geograficamente situato: l’Europa dell’emergere del capitalismo. Il biologismo, quale prima maschera storica del razzismo, conosce la sua età dell’oro nel XIX secolo, contemporaneamente all’esplosione industriale da una parte, e alla corsa coloniale dall’altra. Il medico e antropologo francese Paul Broca classifica i crani umani a scopo comparativo e ne conclude che «Il negro dell’Africa occupa, riguardo la capacità cranica, una posizione nella media tra l’Europeo e l’Australiano.» (9) Vi è quindi qualcuno inferiore al nero, ossia l’aborigeno, ma superiore incontestato a entrambi è l’europeo. E siccome tutte le forme di dominazione hanno bisogno di processi di legittimazione, se non simili perlomeno convergenti, egli estende il suo metodo alla differenza di sesso: «la piccolezza relativa del cervello della femmina dipende, al contempo, dalla sua inferiorità fisica e da quella intellettuale.» (10)

Monopoli, neocolonialismo e culturalismo

Il XIX secolo è quello della monopolizzazione del capitalismo. Un processo che si svolge con ritmi diversi per ogni potenza. Progressivamente i grandi gruppi industriali assurgono alla direzione dell’economia e il settore finanziario diviene sempre più preponderante. Il legame fisico e soggettivo tra proprietario e proprietà si dissolve a favore di quello tra le obbligazioni e l’azionista. Il colono e grande proprietario terriero cede il posto all’azionista del settore minerario. Questa nuova struttura del capitalismo rimanda a una nuova forma della dominazione politica, il neocolonilaismo, definito da Kwame Nkrumah: «L’essenza del neocolonialismo consiste nel fatto che lo stato a esso assoggettato è teoricamente indipendente, possiede tutte le insegne della sovranità sul piano internazionale. Ma in realtà la sua economia, e conseguentemente la sua politica, sono manipolate dell’esterno.» (11)

La presa di coscienza nazionalista e lo sviluppo delle lotte di liberazione nazionale accelerano naturalmente la transizione da una forma di dominazione politica all’altra. Ma, essendo l’obiettivo quello di conservare la dominazione, vi è ancora l’esigenza di giustificare una gerarchizzazione dell’umanità. La nuova dominazione politica ha bisogno di una nuova era del razzismo. Il razzismo culturalista emergerà progressivamente come risposta a tale bisogno diventando dominante negli anni Sessanta e Ottanta. Non si tratta più, oramai, di gerarchizzare biologicamente bensì culturalmente. L’esperto e il consulente rimpiazzano il colono e il militare. Non si studia più «l’ineguaglianza dei  crani» ma «i freni culturali allo sviluppo». Non potendo più legittimarsi sul piano biologico, la gerarchizzazione dell’umano si rivolge in direzione di quello culturale, attribuendo alle «culture» le stesse caratteristiche precedentemente utilizzate per definire le  «razze biologiche» (fissità, omogeneità ecc.).

Sul piano internazionale, il nuovo volto del razzismo consente di giustificare il permanere della povertà e di una miseria popolari a dispetto delle indipendenze e delle speranze di emancipazione da esse suscitate. Eludendo le nuove tipologie di dipendenza (funzionamento del mercato mondiale, ruolo degli aiuti internazionali, il Franco CFA, ecc.), non rimane altro, come causa esplicativa, che i tratti culturali che si suppone caratterizzino le popolazioni delle ex-colonie: etnicismo, tribalismo, clanismo, il gusto per lo sfarzo e le spese sontuose, ecc. Tutta una corrente teorica detta «afro-pessimista» si è in tal modo sviluppata. Stéphan Smith ritiene che «L’Africa non funziona perché “bloccata” da ostacoli socio-culturali che essa sacralizza come suoi amuleti identitari» o ancora che «il dattilografo, ormai dotato di un computer, non ha più la fronte colorata di inchiostro, a forza di fare la siesta sulla macchina da scrivere». (12) Facendogli eco, Bernard Lugan gli risponde sostenendo che la carità, la compassione, la tolleranza e i diritti dell’uomo sono estranei agli «ancestrali rapporti inter-africani». (13)

Sul piano nazionale, il razzismo culturalista svolge la medesima funzione  ma rivolto alle persone di origine immigrata. Spiegare culturalmente fatti che sono espressione delle diseguaglianze sistemiche delle quali sono vittime, permette di delegittimare le rivendicazioni e le rivolte che esse suscitano. L’insuccesso scolastico, la delinquenza, il tasso di disoccupazione, le discriminazioni, le rivolte nei quartieri popolari, ecc. , non sarebbero frutto di fattori sociali e economici, quanto di causalità culturali e identitarie.

Capitalismo senile, balcanizzazione e islamofobia

Dopo ciò che è stato definito «globalizzazione», il capitalismo si trova di fronte a nuove difficoltà strutturali. Il permanente approfondirsi della concorrenza tra le diverse potenze industriali rende impossibile la minima stabilizzazione. Le crisi si succedono l’una all’altra senza interruzioni. Il sociologo Immanuel Wallerstein affermaritiene che:

«Siamo entrati, ormai da trent’anni, nella fase terminale del sistema capitalistico. Ciò che differenzia fondamentalmente tale fase dai precedenti cicli congiunturali, è il fatto che il capitalismo non è più in grado di “fare sistema”, nel senso inteso dal fisico Ilya Prigogine (1917-2003) : quando un sistema, biologico, chimico o sociale devia troppo frequentemente dalla sua situazione di stabilità, non riesce più a trovare l’equilibrio, ci si trova di fronte a una biforcazione. La situazione diviene caotica, incontrollabile dalle forze che l’hanno sino allora dominata.» (14)

Non si tratta semplicemente di una crisi di sovrapproduzione. Contrariamente a quanto accadde in quest’ultima, la recessione non prepara alcuna ripresa. Le crisi si succedono e si intrecciano senza nessuna ripresa, le bolle finanziarie si accumulano e esplodono sempre più regolarmente. le fluttuazioni sono sempre più caotiche e dunque imprevedibili. La conseguenza è una ricerca del profitto massimo attraverso qualsiasi mezzo. Nell’ambito di tale concorrenza esacerbata in una situazione di instabilità permanente, il controllo delle fonti delle materie prime rappresenta una questione ancora più importante che nel passato. Non conta soltanto avere l’accesso a queste matterie prime, ma anche bloccarne l’accesso ai concorrenti (in particolare a quelli delle nazioni emergenti: Cina, India, Brasile, ecc.).

Gli Stati Uniti, minacciati nella loro egemonia, rispondono con la militarizzazione e le altre potenze li seguono al fine di tutelare gli interessi delle loro imprese. «Dopo il 2001, nota l’economista Philip S. Golub, gli Stati Uniti sono impegnati in una fase di militarizzazione e espansione imperiale che ha ribaltato fondamentalmente la grammatica della politica mondiale». (15) Dall’Asia centrale al Golfo persico, dall’Afghanistan alla Siria, passando per l’Iraq, dalla Somalia al Mali, le guerre seguono la via dei siti strategici del petrolio, del gas, dei minerali. Non si tratta più di dissuadere i concorrenti e/o gli avversari, ma di condurre delle «guerre preventive».

Alla mutazione della base materiale del capitalismo corrisponde una mutazione delle forme di dominazione politica. L’obiettivo non è più, principalmente, quello di installare governi fantoccio, i quali non potrebbero più resistere a lungo alla collera popolare. Bensì è quello di balcanizzare per mezzo della guerra al fine di rendere ingovernabili tali paesi. Dall’Afghanistan alla Somalia, dall’Iraq al Sudan, il risultato delle guerre è lo stesso: la distruzione delle basi stesse delle nazioni, il collasso di tutte le infrastrutture che consentono la governabilità, l’installazione del caos. Si tratta ormai di balcanizzare le nazioni.

Una simile dominazione necessita di una nuova legittimazione che trova la sua formulazione  nella teoria dello scontro di civiltà. Quest’ultima ha lo scopo di fomentare panico e paura al fine di un’esigenza di protezione e l’approvazione delle guerre. Dal discorso sul terrorismo al quale rispondere con le guerre preventive alla teoria della grande sostituzione, passando per le campagne sull’islamizzazione dei paesi occidentali e sui rifugiati come portatori di terrorismo, il risultato atteso è lo stesso: paura, panico, appelli securitarii, legittimazione delle guerre, identificazione del musulmano come nuovo nemico storico. L’islamofobia costituisce, dunque, una terza epoca del razzismo, corrispondente alle mutazioni di un capitalismo senile, un capitalismo che, ormai, non può portare niente di positivo all’umanità, ma solo guerra, miseria e lotta di tutti contro tutti. Non vi è alcuno scontro di civiltà, quanto piuttosto una crisi della civilizzazione imperialista la quale richiede una vera e propria rottura. Non è la fine del mondo , bensì la fine del loro mondo che essi tentano di evitare con tutti i mezzi.
Note:

  1. Nicolas Sarkozy, discorso di Dakar del 26 luglio 2007,http://www.lemonde.fr/afrique/article/2007/11/09/le-discours-de-dakar_976786_3212.html.
  2.  Pierre Singaravelou, Des historiens sans histoire ? La construction de l’historiographie coloniale en France sous la Troisième République, Actes de la Recherche en Sciences Sociales, n° 185, 2010/5, p. 40.
  3. Mehdi Ben Barka, Option révolutionnaire au Maroc. Ecrits politiques 1957-1965,Syllepse, Paris, 1999, p. 229-230.
  4. Frantz Fanon, Racisme et Culture, Pour la Révolution africaine. Ecrits politiques, La Découverte, Parigi, 2001, p. 40.
  5. Samir Amin, Les systèmes régionaux anciens, L’Histoire globale, une perspective afro-asiatique, éditions des Indes savantes, Parigi, 2013, p. 20.
  6. Eric Williams, Capitalisme et esclavage, Présence Africaine, 1968, p. 19.
  7. Youcef Djebari, La France en Algérie, la genèse du capitalisme d’Etat colonial, Office des Publications Universitaires, Algeri, 1994, p. 25.
  8. Frantz Fanon, Racisme et culture, op.cit., p. 45.
  9. Paul Broca, Sur le volume et la forme du cerveau suivant les individus et suivant les races, Volume 1, Hennuyer, Parigi, 1861, p. 48.
  10. Paul Broca, Sur le volume et la forme du cerveau suivant les individus et suivant les races, op.cit., p. 15.
  11. Kwame Nkrumah, Le néocolonialisme, dernier stade de l’impérialisme, Présence Africaine, Parigi, 1973, p. 9.
  12. Stephen Smith, Négrologie, : Pourquoi l’Afrique meurt, Fayard, Parigi, 2012, p. 49 et 58.
  13. Bernard Lugan, God bless Africa. Contre la mort programmée du continent noir, Carnot, Parigi, 2003, pp. 141 142
  14. Immanuel Wallerstein, Le capitalisme touche à sa fin, Le Monde 16 dicembre 2008,http://www.lemonde.fr/la-crise-financiere/article/2008/12/16/le-capitalisme-touche-a-sa-fin_1105714_1101386.html
  15. Philip S Golub, De la mondialisation au militarisme : la crise de l’hégémonie américaine, A Contrario, 2004, n°2, p. 9.

Nessun commento:

Posta un commento