Ancora su Cristoforo Colombo
La visione eurocentrica dominante spiega l’emergere e il
diffondersi del capitalismo a partire da fattori interni alle società europee.
Ne deriva la nota tesi che vorrebbe alcune società (alcune culture, religioni
ecc.) dotate di una storicità, laddove altre ne sarebbero prive. Quando Nikolas
Sarkozy afferma nel 2007 «il dramma dell’Africa è che l’uomo africano non è
realmente entrato nella storia» (1), non fa che riprendere un ritornello delle
ideologie di giustificazione dello schiavismo e della colonizzazione:
«La «destoricizzazione» gioca un ruolo decisivo nelle
strategie di colonizzazione. Essa legittima la presenza dei colonizzatori e
certifica l’inferiorità dei colonizzati. La tradizione delle storie universali,
poi le «scienze coloniali» hanno imposto un postulato sul quale si è costruita
la storiografia coloniale: l’Europa è «storica» mentre «l’astoricità»
caratterizza le società colonizzate definite come tradizionali e immobili. […]
L’Europa, guidata dai suoi valori intellettuali e spirituali compie, attraverso
l’espansione coloniale, una missione storica, portando nella Storia popoli che
ne erano stati privati o rimasti fissi a uno staio di evoluzione della storia
superato dagli europei (stato di natura, medioevo, ecc.).» (2)
La longevità e la ricorrenza (al di là dei cambiamenti di
forme e presentazione) di una simile lettura essenzialista e eurocentrica della
storia del mondo ne rimarca la funzione politica: la negazione di ogni
interazione. Dopo che Cristoforo Colombo ha fatto sbarcare i suoi soldati, la
storia mondiale è divenuta una storia unica, globale, interconnessa,
mondializzata. La povertà di alcuni non può essere spiegata senza interrogarsi
sui nessi causali con la ricchezza di altri. lo sviluppo economico di alcuni è
indissociabile dal sottosviluppo di altri. Il progresso dei diritti sociali qui
non è possibile che attraverso la loro negazione altrove.
L’occultamento delle interazioni necessita una mobilitazione
dell’istanza ideologica al fine di formalizzare delle griglie esplicative
gerarchizzanti. Tali griglie costituiscono il «razzismo» al contempo nelle sue
costanti e nelle sue mutazioni. Invarianza perché tutti i volti del razzismo,
dal biologismo all’islamofobia, hanno in comune il risultato: la
gerarchizzazione dell’umanità. Mutazione poiché a ciascun volto del razzismo
corrisponde uno stadio del sistema economico di predazione e uno stato dei
rapporti politici di forza. Al capitalismo pre-monopolista corrisponderà lo
schiavismo e la colonizzazione quale forma di dominazione politica, e il biologismo
come forma del razzismo. Al capitalismo monopolista corrisponderà il
neocolonialismo come forma di dominazione e il culturalismo come forma del
razzismo. Al capitalismo monopolista mondializzato e senile corrisponderà la
balcanizzazione e il caos come forme della dominazione e l’islamofobia (in
attesa di altre declinazioni da applicare a altre religioni del sud in funzione
del paese da balcanizzare) quale forma del razzismo.
I legami tra l’evoluzione della struttura economica del
capitalismo e le forme della dominazione sono state già da tempo messi in
evidenza da Mehdi Ben Barka nella sua analisi della comparsa del
neocolonialismo come successore del colonialismo diretto. Esaminando le
«indipendenze concesse», egli le pone in relazione con le mutazioni della
struttura economica dei paesi dominanti:
«Questo orientamento [neocoloniale] non costituisce una
semplice scelta nel dominio della politica estera; bensì è l’espressione di un
cambiamento profondo nelle strutture del capitalismo occidentale. Dal momento
in cui l’Europa occidentale, dopo la Seconda guerra mondiale, grazie al Piano
Mrshall e a una crescente compenetrazione con l’economia americana, si è
allontanata dalla struttura del XIX secolo così da adattarsi al capitalismo
americano, era normale che adottasse anche il tipo di relazioni degli Stati
Uniti col resto del mondo; in altre parole che anch’essa avesse la propria
«America latina.» (3)
Secondo il leader rivoluzionario marocchino, è proprio la
monopolizzazione del capitale a suscitare il passaggio dal colonialismo al
neocolonialismo. Analogamente, la precocità della monopolizzazione negli Stati
Uniti è una delle cause della precocità del neocolonialismo come forma di
dominazione dell’America latina.
Gli intrecci tra le forme della dominazione e le evoluzioni
delle forme di razzismo, per parte loro, sono state sottolineate dal Franz
Fanon. La resistenza innescata da una forma di dominazione (il colonialismo per
esempio) costringono quest’ultima a modificarsi. Simile mutamento necessita, tuttavia,
del mantenimento della gerarchizzazione dell’umanità e, conseguentemente,
comporta una nuova era dell’ideologia nazista. «Questo razzismo, precisa Fanon,
il quale si vuole razionale, individuale, determinato, genotipico e fenotipico
si trasforma in razzismo culturale». Quanto ai fattori che spingono alla
mutazione del razzismo, Franz Fanon menziona la resistenza dei colonizzati,
l’esperienza nazista, vale a dire «l’istituzione di un regime coloniale nel
cuore dell’Europa», e «l’evoluzione delle tecniche» (4) ossia le trasformazioni
delle strutture del capitalismo, come rilevato da Ben Barka.
Senza addentrarsi nel complesso dibattito su una precisa periodizzazione del capitalismo, è possibile collegare quei tre ordini di fatti rappresentati dalle mutazioni delle strutture economiche, delle forme della dominazione politica e delle trasformazioni dell’ideologia politica. Le tre «epoche» del capitalismo richiamano tre «epoche» della dominazione le quali, a loro volta, suscitano tre «epoche» del razzismo.
L’infanzia del capitalismo
L’essenza del capitalismo come modo di produzione economico
consiste, a causa della sua legge del profitto, nella tendenza all’estensione
permanente. Esso è immediatamente mondializzazione, benché quest’ultima conosca
dei limiti di sviluppo. Il che la dice lunga sulla mistificazione del discorso
odierno sulla globalizzazione, teso a presentarla come un fenomeno del tutto
inedito legato alle mutazioni tecnologiche. Come sottolineato da Samir Amin, la
nascita del capitalismo e la sua mondializzazione vanno di pari passo:
«Il sistema mondiale non è la forma relativamente recente
del capitalismo, risalente esclusivamente all’ultimo terzo del XIX secolo nel
momento in cui si costituisce «l’imperialismo» (nel senso che Lenin conferisce al
termine) e la spartizione coloniale del mondo a esso associata. Al contrario,
affermiamo che tale dimensione mondiale trova immediatamente la propria
espressione, sin dall’inizio, e rimane una costante del sistema attraverso le
tappe successive del suo sviluppo. Se si ammette che gli elementi fondamentali
del capitalismo si cristallizzano in Europa a partire dal Rinascimento – la
data del 1492, inizio della conquista dell’America, segnerebbe dunque la
nascita del capitalismo e del sistema mondiale – i due fenomeni sono
inseparabili.» (5)
Detto in altri termini, il saccheggio e la distruzione delle
popolazioni amerindie, così come lo schiavismo, sono stati le condizioni grazie
alle quali il modo di produzione capitalistico è divenuto dominante nelle
società europee. Non c’è stata la nascita del capitalismo e successivamente la
sua estensione, bensì un saccheggio e una violenza totali, nei quali si sono
lievitate le condizioni materiali e finanziarie per l’installazione del
capitalismo. Notiamo, inoltre, seguendo Eric Williams, che la distruzione delle
civilizzazioni amerindie si è accompagnata alla riduzione in schiavitù. Dunque,
non è lo schiavismo a essere conseguenza del razzismo, quest’ultimo è il
risultato della schiavitù india. «Nei Caraibi, afferma questo autore, il
termine schiavitù è stato applicato in maniera eccessivamente esclusiva ai
neri. […] Il primo esempio di commercio di schiavi e manodopera schiavistica
nel Nuovo mondo non concerne i neri ma gli indios. Questi ultimi soccomberanno
rapidamente per l’eccesso di lavoro e, a causa del cibo insufficiente,
moriranno delle malattie importate dai bianchi.» (6)
La colonizzazione, allora, non è altro che il processo di
generalizzazione dei rapporti capitalistici al resto del mondo. Essa
costituisce la forma di dominazione politica finalmente trovata al fine di
esportare e imporre tali rapporti sociali al resto del mondo. A questo scopo,
era necessario, ovviamente, distruggere i rapporti sociali indigeni e le forme
di organizzazione sociale e culturale da essi generate. L’economista algerino
Youcef Djebari ha mostrato l’ampiezza della resistenza delle forme anteriori di
organizzazione sociale e la violenza indispensabile al fine di eliminarle: «Il
capitale francese si è trovato di fronte, in tutti i suoi tentativi di
annessione e dominazione dell’Algeria, a una formazione sociale e economica
ostile alla sua penetrazione. Ha per tanto dispiegato tutto un arsenale di
metodi per schiacciare e sottomettere le popolazioni autoctone.» (7) La
violenza totale è, per tanto, consustanziale alla colonizzazione.
E proprio al fine di legittimare violenza e distruzioni che
emerge il razzismo biologico. Il razzismo sottolinea Fanon «rientra in un
complesso caratteristico: quello dello sfruttamento più spudorato di un gruppo
di uomini da parte di un altro. […] E questo è il motivo per cui l’oppressione
militare e economica, il più delle volte, precede, rende possibile e legittima
il razzismo. L’abitudine a considerare il razzismo come una disposizione dello
spirito, come una tara psicologica, andrebbe abbandonata.» (8)
Il razzismo in quanto ideologia di gerarchizzazione
dell’umanità, atta a giustificare la violenza e lo sfruttamento, non è, dunque,
una caratteristica dell’umanità ma un prodotto storicamente e geograficamente
situato: l’Europa dell’emergere del capitalismo. Il biologismo, quale prima
maschera storica del razzismo, conosce la sua età dell’oro nel XIX secolo,
contemporaneamente all’esplosione industriale da una parte, e alla corsa
coloniale dall’altra. Il medico e antropologo francese Paul Broca classifica i
crani umani a scopo comparativo e ne conclude che «Il negro dell’Africa occupa,
riguardo la capacità cranica, una posizione nella media tra l’Europeo e
l’Australiano.» (9) Vi è quindi qualcuno inferiore al nero, ossia l’aborigeno,
ma superiore incontestato a entrambi è l’europeo. E siccome tutte le forme di
dominazione hanno bisogno di processi di legittimazione, se non simili
perlomeno convergenti, egli estende il suo metodo alla differenza di sesso: «la
piccolezza relativa del cervello della femmina dipende, al contempo, dalla sua
inferiorità fisica e da quella intellettuale.» (10)
Monopoli, neocolonialismo e culturalismo
Il XIX secolo è quello della monopolizzazione del
capitalismo. Un processo che si svolge con ritmi diversi per ogni potenza.
Progressivamente i grandi gruppi industriali assurgono alla direzione
dell’economia e il settore finanziario diviene sempre più preponderante. Il
legame fisico e soggettivo tra proprietario e proprietà si dissolve a favore di
quello tra le obbligazioni e l’azionista. Il colono e grande proprietario
terriero cede il posto all’azionista del settore minerario. Questa nuova
struttura del capitalismo rimanda a una nuova forma della dominazione politica,
il neocolonilaismo, definito da Kwame Nkrumah: «L’essenza del neocolonialismo
consiste nel fatto che lo stato a esso assoggettato è teoricamente
indipendente, possiede tutte le insegne della sovranità sul piano
internazionale. Ma in realtà la sua economia, e conseguentemente la sua
politica, sono manipolate dell’esterno.» (11)
La presa di coscienza nazionalista e lo sviluppo delle lotte
di liberazione nazionale accelerano naturalmente la transizione da una forma di
dominazione politica all’altra. Ma, essendo l’obiettivo quello di conservare la
dominazione, vi è ancora l’esigenza di giustificare una gerarchizzazione
dell’umanità. La nuova dominazione politica ha bisogno di una nuova era del
razzismo. Il razzismo culturalista emergerà progressivamente come risposta a
tale bisogno diventando dominante negli anni Sessanta e Ottanta. Non si tratta
più, oramai, di gerarchizzare biologicamente bensì culturalmente. L’esperto e
il consulente rimpiazzano il colono e il militare. Non si studia più
«l’ineguaglianza dei crani» ma «i freni culturali allo sviluppo». Non
potendo più legittimarsi sul piano biologico, la gerarchizzazione dell’umano si
rivolge in direzione di quello culturale, attribuendo alle «culture» le stesse
caratteristiche precedentemente utilizzate per definire le «razze biologiche»
(fissità, omogeneità ecc.).
Sul piano internazionale, il nuovo volto del razzismo
consente di giustificare il permanere della povertà e di una miseria popolari a
dispetto delle indipendenze e delle speranze di emancipazione da esse
suscitate. Eludendo le nuove tipologie di dipendenza (funzionamento del mercato
mondiale, ruolo degli aiuti internazionali, il Franco CFA, ecc.), non rimane
altro, come causa esplicativa, che i tratti culturali che si suppone
caratterizzino le popolazioni delle ex-colonie: etnicismo, tribalismo,
clanismo, il gusto per lo sfarzo e le spese sontuose, ecc. Tutta una corrente
teorica detta «afro-pessimista» si è in tal modo sviluppata. Stéphan Smith
ritiene che «L’Africa non funziona perché “bloccata” da ostacoli socio-culturali
che essa sacralizza come suoi amuleti identitari» o ancora che «il
dattilografo, ormai dotato di un computer, non ha più la fronte colorata di
inchiostro, a forza di fare la siesta sulla macchina da scrivere». (12)
Facendogli eco, Bernard Lugan gli risponde sostenendo che la carità, la
compassione, la tolleranza e i diritti dell’uomo sono estranei agli «ancestrali
rapporti inter-africani». (13)
Sul piano nazionale, il razzismo culturalista svolge la
medesima funzione ma rivolto alle persone di origine immigrata. Spiegare
culturalmente fatti che sono espressione delle diseguaglianze sistemiche delle
quali sono vittime, permette di delegittimare le rivendicazioni e le rivolte
che esse suscitano. L’insuccesso scolastico, la delinquenza, il tasso di disoccupazione,
le discriminazioni, le rivolte nei quartieri popolari, ecc. , non sarebbero
frutto di fattori sociali e economici, quanto di causalità culturali e
identitarie.
Capitalismo senile, balcanizzazione e islamofobia
Dopo ciò che è stato definito «globalizzazione», il
capitalismo si trova di fronte a nuove difficoltà strutturali. Il permanente
approfondirsi della concorrenza tra le diverse potenze industriali rende
impossibile la minima stabilizzazione. Le crisi si succedono l’una all’altra
senza interruzioni. Il sociologo Immanuel Wallerstein affermaritiene che:
«Siamo entrati, ormai da trent’anni, nella fase terminale
del sistema capitalistico. Ciò che differenzia fondamentalmente tale fase dai
precedenti cicli congiunturali, è il fatto che il capitalismo non è più in
grado di “fare sistema”, nel senso inteso dal fisico Ilya Prigogine (1917-2003)
: quando un sistema, biologico, chimico o sociale devia troppo frequentemente
dalla sua situazione di stabilità, non riesce più a trovare l’equilibrio, ci si
trova di fronte a una biforcazione. La situazione diviene caotica,
incontrollabile dalle forze che l’hanno sino allora dominata.» (14)
Non si tratta semplicemente di una crisi di
sovrapproduzione. Contrariamente a quanto accadde in quest’ultima, la
recessione non prepara alcuna ripresa. Le crisi si succedono e si intrecciano
senza nessuna ripresa, le bolle finanziarie si accumulano e esplodono sempre
più regolarmente. le fluttuazioni sono sempre più caotiche e dunque
imprevedibili. La conseguenza è una ricerca del profitto massimo attraverso
qualsiasi mezzo. Nell’ambito di tale concorrenza esacerbata in una situazione
di instabilità permanente, il controllo delle fonti delle materie prime
rappresenta una questione ancora più importante che nel passato. Non conta
soltanto avere l’accesso a queste matterie prime, ma anche bloccarne l’accesso
ai concorrenti (in particolare a quelli delle nazioni emergenti: Cina, India,
Brasile, ecc.).
Gli Stati Uniti, minacciati nella loro egemonia, rispondono
con la militarizzazione e le altre potenze li seguono al fine di tutelare gli
interessi delle loro imprese. «Dopo il 2001, nota l’economista Philip S. Golub,
gli Stati Uniti sono impegnati in una fase di militarizzazione e espansione
imperiale che ha ribaltato fondamentalmente la grammatica della politica
mondiale». (15) Dall’Asia centrale al Golfo persico, dall’Afghanistan alla
Siria, passando per l’Iraq, dalla Somalia al Mali, le guerre seguono la via dei
siti strategici del petrolio, del gas, dei minerali. Non si tratta più di
dissuadere i concorrenti e/o gli avversari, ma di condurre delle «guerre
preventive».
Alla mutazione della base materiale del capitalismo
corrisponde una mutazione delle forme di dominazione politica. L’obiettivo non
è più, principalmente, quello di installare governi fantoccio, i quali non potrebbero più resistere a lungo alla collera popolare. Bensì è quello di
balcanizzare per mezzo della guerra al fine di rendere ingovernabili tali
paesi. Dall’Afghanistan alla Somalia, dall’Iraq al Sudan, il risultato delle
guerre è lo stesso: la distruzione delle basi stesse delle nazioni, il collasso
di tutte le infrastrutture che consentono la governabilità, l’installazione del
caos. Si tratta ormai di balcanizzare le nazioni.
Una simile dominazione necessita di una nuova legittimazione
che trova la sua formulazione nella teoria dello scontro di civiltà.
Quest’ultima ha lo scopo di fomentare panico e paura al fine di un’esigenza di
protezione e l’approvazione delle guerre. Dal discorso sul terrorismo al quale
rispondere con le guerre preventive alla teoria della grande sostituzione,
passando per le campagne sull’islamizzazione dei paesi occidentali e sui
rifugiati come portatori di terrorismo, il risultato atteso è lo stesso: paura,
panico, appelli securitarii, legittimazione delle guerre, identificazione del
musulmano come nuovo nemico storico. L’islamofobia costituisce, dunque, una
terza epoca del razzismo, corrispondente alle mutazioni di un capitalismo
senile, un capitalismo che, ormai, non può portare niente di positivo
all’umanità, ma solo guerra, miseria e lotta di tutti contro tutti. Non vi è
alcuno scontro di civiltà, quanto piuttosto una crisi della civilizzazione
imperialista la quale richiede una vera e propria rottura. Non è la fine del
mondo , bensì la fine del loro mondo che essi tentano di evitare con tutti i
mezzi.
Note:
- Nicolas Sarkozy, discorso di Dakar del 26 luglio 2007,http://www.lemonde.fr/afrique/article/2007/11/09/le-discours-de-dakar_976786_3212.html.
- Pierre Singaravelou, Des
historiens sans histoire ? La construction de
l’historiographie coloniale en France sous la Troisième République, Actes
de la Recherche en Sciences Sociales, n° 185, 2010/5, p. 40.
- Mehdi Ben Barka, Option
révolutionnaire au Maroc. Ecrits politiques 1957-1965,Syllepse, Paris,
1999, p. 229-230.
- Frantz Fanon, Racisme et Culture, Pour la Révolution africaine. Ecrits politiques, La Découverte, Parigi, 2001, p. 40.
- Samir Amin, Les systèmes
régionaux anciens, L’Histoire globale, une perspective
afro-asiatique, éditions des Indes savantes, Parigi, 2013, p. 20.
- Eric Williams, Capitalisme
et esclavage, Présence Africaine, 1968, p. 19.
- Youcef Djebari, La France en Algérie, la genèse du capitalisme d’Etat colonial, Office des Publications Universitaires, Algeri, 1994, p. 25.
- Frantz Fanon, Racisme et culture, op.cit., p. 45.
- Paul Broca, Sur le
volume et la forme du cerveau suivant les individus et suivant les races, Volume
1, Hennuyer, Parigi, 1861, p. 48.
- Paul Broca, Sur le
volume et la forme du cerveau suivant les individus et suivant les races, op.cit.,
p. 15.
- Kwame Nkrumah, Le néocolonialisme, dernier stade de l’impérialisme, Présence Africaine, Parigi, 1973, p. 9.
- Stephen Smith, Négrologie, : Pourquoi l’Afrique meurt, Fayard, Parigi, 2012, p. 49 et 58.
- Bernard Lugan, God bless Africa. Contre la mort programmée du continent noir, Carnot, Parigi, 2003, pp. 141 142
- Immanuel Wallerstein, Le capitalisme touche à sa fin, Le Monde 16 dicembre 2008,http://www.lemonde.fr/la-crise-financiere/article/2008/12/16/le-capitalisme-touche-a-sa-fin_1105714_1101386.html
- Philip S Golub, De la mondialisation au militarisme : la crise de l’hégémonie américaine, A Contrario, 2004, n°2, p. 9.
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