*Da: http://www.lacittafutura.it/
“Solo un partito guidato da una teoria di avanguardia può
adempiere la funzione di combattente di avanguardia”
(V.I. Lenin, Che fare?
1902) : brevi riflessioni sul ruolo della teoria rivoluzionaria.
Lotta teorica e socialismo scientifico
Nella storia del pensiero marxista – o più
in generale all’interno dei movimenti o partiti ispiratisi almeno vagamente
all’idea del comunismo (o del socialismo) nell’ultimo secolo –
il rapporto tra teoria e prassi rivoluzionaria
ha senza dubbio ottenuto un posto di primaria importanza nel dibattito che
negli anni si è svolto, per quanto spesso con esiti abbastanza avvilenti. In
questo breve articolo non si vuole proporre una rassegna di quelli che sono
stati gli ultimi, tra l’altro spesso poco incisivi, sviluppi della questione:
al contrario, prendendo a riferimento l’esempio cubano, oltre che quello
dei paesi a capitalismo avanzato, si tenterà di proporre un
contributo che possa consentire una riflessione su questioni che, oramai, sono
solo di rado tenute in adeguata considerazione.
Punto di partenza per affrontare una discussione di questo
genere, evitando di scivolare su posizioni che in fin dei conti hanno
dimostrato tutta la loro velleità e sterilità, è la considerazione, fin troppo
distorta o aggirata, di Lenin che, nel Che fare? giustamente
sosteneva che “senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento
rivoluzionario”. Questa, che tutto è fuorché una “semplice” locuzione
affabulatrice, è esattamente il frutto della riflessione filosofica del
rivoluzionario russo che coerentemente con Marx e Engels,
e pertanto con la dialettica hegeliana, attualizzata dallo stesso
Moro di Treviri, individuava l’identità dialettica tra teoria e prassi, ossia
tra pensiero astratto e sua concretizzazione materiale.
In particolare, è lo stesso Lenin a far notare – in polemica
con le smanie rivoluzionarie (diremmo oggi “movimentiste”) e le
“praticonerie” dei suoi tempi – come l’altrettanto vituperata considerazione di
Marx per cui “ogni passo del movimento reale è più importante di una dozzina di
programmi” [1] fosse già ai suoi tempi estrapolata dal contesto in cui era
stata scritta e, per questo, capovolta nel suo senso e nelle sue finalità.
Privo di ogni ambiguità, osservava come “ripetere queste parole in momento di
sbandamento teorico è come fare dello “spirito in un funerale”. Queste parole,
d’altra parte, sono estratte dalla lettera sul Programma di Gotha,
nella quale Marx condanna categoricamente l’eclettismo nell’enunciazione dei
princìpi. Se è necessario unirsi – scriveva Marx ai capi del partito – fate
accordi allo scopo di raggiungere i fini pratici del movimento, ma non fate
commercio dei princìpi e non fate ‘concessioni teoriche’”. E così Lenin
conclude: “questo era il pensiero di Marx, e fra noi si trova della gente che
nel suo nome tenta di sminuire l’importanza della teoria (corsivo
mio)!”.
La questione della centralità della lotta teorica era,
del resto stata già rimarcata ampiamente da Engels (1850) nella prefazione alla Guerra
dei contadini in Germania: è proprio lui che, chiaramente, introduce
accanto alle due forme di lotta “socialdemocratica” più discusse (politica ed
economica), il terzo piano, ossia quello della conflittualità teorica,
evidenziandone la assoluta preminenza non solo in una fase non-rivoluzionaria,
ma persino in quella particolarmente avanzata. Non a caso, nell’opera citata,
ricorda come gli operai tedeschi abbiano avuto almeno un vantaggio essenziale:
“essi appartengono al popolo d’Europa più portato alla teoria e hanno
conservato il senso teorico (corsivo mio), che i cosiddetti
‘uomini colti’ della Germania hanno totalmente perduto”.
E, in particolare, continua osservando come senza la
filosofia hegeliana e, più in generale, senza tutta la precedente filosofia,
non sarebbe mai potuto nascere l’unico socialismo scientifico esistente,
ossia quello tedesco. Inoltre, “se tra gli operai non ci fosse stato questo senso
teorico, il socialismo scientifico non si sarebbe mai cambiato in sangue e
carne in così grande misura come è effettivamente accaduto”. Peraltro, Engels
attribuisce la (parziale) vittoria da parte del movimento operaio
tedesco al fatto che, per la prima volta, in quell’occasione, la lotta
è stata condotta unitariamente seguendo un piano che si è svolto su tre linee:
teorica, politica ed economica.
Del resto, per quanto Lenin sia stato in grado di riassumere
con grande intelligenza politica la centralità della questione, polemizzando
con posizioni talvolta non eccessivamente distanti, c’è da dire che, solamente
la mancanza di conoscenza dell’opera di Marx ed Engels avrebbe potuto far
immaginare una subordinazione del piano teorico agli altri due. Nell’Anti-Duhring,
Engels rivendica esplicitamente l’importanza di aver creato le basi del
“socialismo scientifico” superando definitivamente le velleità precedentemente
già emerse con gli utopisti ecc. le cui battaglie, talvolta persino
condivisibili, proprio per la mancanza di riferimenti certi e di alternative
rigorosamente teorizzate e dunque credibili, finivano spesso e volentieri per
naufragare nel nulla o poco più. Non a caso, conclude inequivocabilmente
sostenendo che “compiere l’azione di liberazione universale è il compito
storico del proletariato moderno. Studiarne a fondo le condizioni storiche e
conseguentemente la natura stessa e dare così alla classe, oggi oppressa e
chiamata in azione, la coscienza delle condizioni e della natura della sua
propria azione è il compito del socialismo scientifico, espressione
teorica (corsivo mio) del movimento proletario”.
Nel capitalismo avanzato
Sarebbe impossibile catalogare l’insieme delle lotte e delle
battaglie da cui la classe dei lavoratori è uscita sonoramente sconfitta negli
ultimi decenni. Anche alcuni degli esiti più positivi delle conflittualità del
passato sono stati riassorbiti dalla classe dominante, proprio perché non più
individuati dai lavoratori stessi come frutto di lotte a volte sanguinose e per
tale ragione adeguatamente tutelati. Sarebbe un errore di straordinaria
importanza non riconoscere il violento arretramento che la classe
subalterna sta vivendo in grande parte del globo sia dal punto di vista della
propria capacità politica, sia sul piano meramente economico\salariale.
I timidi risvegli, per quanto importanti, sono stati
rapidamente riassorbiti dalla capacità militare e coercitiva del capitale,
per quanto le evidenti crepe emerse nel sistema dal 2008 in poi ne abbiano
evidenziato la vulnerabilità strutturale. Riuscire a individuare un filo che
riesca a tenere unite tutte queste sconfitte sarebbe probabilmente molto difficile,
se non impossibile, ma soprattutto scorretto giacché frutto di rapporti
di forza che, proprio perché dialettici, inevitabilmente si
trasformano con continuità. Di certo, però un denominatore comune, relativo al disfacimento
teorico e dunque coscienziale della classe dei lavoratori, è
innegabile e, per tale ragione, ha necessità di essere discusso.
Negli ultimi decenni, soprattutto in Europa,
culla di alcuni dei partiti comunisti più celebri e
quantitativamente importanti del mondo, si sono affermate due tendenze
prevalenti che hanno tuttavia condotto la classe lavoratrice alla disgregazione
coscienziale e materiale (dal punto di vista prettamente salariale). La prima è
quella che ha visto nell’abbandono del marxismo e dunque della lettura
scientifica del modo di produzione attuale, una bandiera. Nel nome di un vacuo
nuovismo, alla strenua ricerca di una “cassetta degli attrezzi” di più
immediata comprensione e di più affascinanti conclusioni, molti movimenti e
partiti si sono facilmente incanalati su binari morti.
L’emersione di guru e di curiosi apparti
ideologici, grazie alla loro semplice e banale ovvietà, hanno facilmente
ammaliato grandi parti del cosiddetto “movimento antagonista”
conducendole poi nell’angolo in cui regolarmente si è consumata l’ennesima
sconfitta. Solo per fare alcuni degli esempi più noti, l’esperienza dell’operaismo o
più recentemente del decrescismo, nonché l’idolatria di economisti
come Keynes, Stiglitz, Latouche, Bagnai o Piketty (spesso
e volentieri già in passato al soldo dei governi del capitale, o comunque
ostili ai lavoratori) sono esempi significativi di questa tendenza. In maniera,
più o meno velata, l’obiettivo condiviso da tutti questi nuovi teorici dei
movimenti antagonisti, a livello mondiale, è consistito nello stravolgimento
del marxismo che, mantenuto solo nella sua più superficiale e dunque
inutile apparenza – a mo’ di una bandiera da stadio – è stato completamente
svuotato della sua sostanza, in modo da essere reso al pari di un innocuo
riferimento filosofico del passato.
Da questo punto di vista è significativa l’operazione
politica\editoriale del testo di Piketty, chiamato non a caso “Il
Capitale nel xxi secolo”, bestseller in
ogni angolo del globo che, pur avendo saccheggiato il titolo al più noto
capolavoro del Moro di Treviri, non contiene neanche un concetto che possa
essere ricondotto alla teoria di Marx ed Engels. Per quanto
all’interno del testo siano individuabili evidenze statistiche indubbiamente
interessanti, uno dei pochi passaggi in cui è effettivamente toccata nel cuore
la questione del marxismo è quella in cui l’autore la capovolge completamente:
si propone infatti un superamento della “lotta di classe”
attraverso la “lotta tra decili”.
In altri termini il concetto di classe, ossia di
funzionalità all’interno del sistema economico dovuto alla proprietà (o meno)
dei mezzi di produzione, viene sostituito da un sistema di comparazione del
tutto quantitativa (i decili della distribuzione) che, secondo il testo,
indurrebbe ad una conflittualità tra ricchi e poveri e
non già tra capitale e lavoro: hic rhodus, hic salta! Non
stupisce dunque, da questo punto di vista, che i più moderni movimenti
di massa – a parte quello francese contro la normativa del lavoro che
sta assumendo connotati visibilmente diversi – abbiano eletto il professore
francese alla stregua del nuovo ideologo, finendo per trovare una
giustificazione apparentemente teorica allo slogan del movimento Occupy “99%
versus 1%” che aveva infiammato nel passato anche le strade di New York,
salvo poi assorbirsi con la stessa rapidità con cui si era formato.
Il fatto stesso che nella culla del capitalismo moderno, gli Usa,
come riportato da numerose ricerche, dopo lunghi decenni di bombardamento
ideologico, il socialismosia visto da quasi la metà dei giovani
(età compresa tra il 18 ed i 29 anni) come unaalternativa valida al modo
di produzione attuale, dovrebbe far riflettere. Per quanto, come noto,
l’accezione che normalmente viene conferita negli Usa al socialismo è ben
distante dall’idea marxiana, e più prossima a quella interpretata da Bernie
Sanders, o anche, in parte, da Obama, è un dato di fatto che i
cosiddetti millennials(quelli nati tra gli anni ottanta e gli inizi
del nuovo secolo), in evidente discontinuità con le generazioni precedenti,
considerino l’epiteto “socialista” non già alla stregua di un insulto, ma come
un’etichetta di cui fregiarsi con orgoglio.
Anche in questo caso, lo straordinario lavoro operato dal
capitale internazionale già dalla fine della seconda guerra mondiale, volto a
cancellare ogni residuo di teoria marxista nel dibattito statunitense,
relegandolo dunque a spazi limitati, per quanto talvolta qualitativamente
apprezzabili, rende le cose estremamente difficili; dunque, ponendola in
termini prettamente economistici, se la domanda di socialismo sembra esserci,
l’offerta teorica è spesso scarsa e quella che arriva sul “mercato” finisce per
non soddisfarla e, al contrario, la distorce verso prospettive naufraganti.
Nel socialismo moderno
Senza dubbio, dunque, per organizzare un movimento che possa
aspirare ad avere un ruolo rivoluzionario, non nell’immediato, ma almeno in una
prospettiva pluridecennale o secolare, diviene di straordinario rilievo porre
l’accento sulla lotta teorica, ossia sulla battaglia delle idee.
Abbandonare questo piano o, al più subordinarlo al più soddisfacente lavoro di
natura politica o economica (sindacale), specie in una fase non-rivoluzionaria
come quella che riguarda l’inizio di nuovo millennio, sarebbe un errore
“capitale” per le ragioni già esposte.
Ma la questione può essere osservata capovolgendo la
prospettiva, ossia tentando di valutare l’importanza della questione teorica
anche dal punto di vista dei paesi che la rivoluzione l’hanno già fatta nel
passato e che oggi possono definirsi socialisti. Se per quanto riguarda la Repubblica
popolare cinese il cosiddetto (male) “socialismo di mercato” sembra
assumere dei connotati sempre più prossimi ad un capitalismo di stato – e per
questo non deve sembrare una contraddizione che nelle università locali vengano
studiati prevalentemente modelli economici neoclassici (ossia quelli più
reazionari) – una discussione ben differente può essere affrontata per quel che
concerne Cuba.
Almeno dall’inizio degli anni novanta, definito non a caso periodo
especial, si parla in tutto il mondo delle sorti del socialismo cubano,
che, restato orfano di quello che, di fatto, era il principale finanziatore
della Cuba post-rivoluzionaria, ossia proprio l’Urss, subita
una contrazione straordinaria della propria ricchezza e delle risorse a sua
disposizione. Immediatamente furono in molti a pensare a un effetto “domino”
che dall’oriente europeo avrebbe avuto un analogo esito anche sull’isola
caraibica riportando al potere “tutta la vecchia merda”[2], nel frattempo
protetta in territorio statunitense, bramosa di ritornare ai posti di comando.
Come è noto, però, le cose sono andate in maniera differente e dopo aver
attraversato un periodo di straordinarie difficoltà, si è approdati al nuovo
millennio ed in particolare al 2011 quando, in concomitanza col vi Congresso
del partito comunista cubana si sono implementate le prime riforme che hanno
definitivamente “aperto”, seppure con un processo molto progressivo e oculato,
all’ingresso di capitale straniero – solo in alcuni settori ed in
compartecipazione con cubani – e, dal 2016, vii Congresso, anche alle piccole e
medie imprese private. Inoltre, l’inizio delle negoziazioni per la rimozione
dell’embargo culminata nel 2016 con la visita di Obama, ha
stimolato molti, e talvolta disinformati, dibattiti sulla possibilità che tutte
queste presunte “aperture” possano metter fine al socialismo. In altri termini,
in forma ancora più rozza, la tesi prevalente sostiene che una volta aperta
l’economia cubana al capitale statunitense, il sistema socialista subirebbe un
inevitabile capovolgimento dovuto alla capacità del dollaro Usa di comprare
qualsiasi cosa, anche la coscienza delle persone.
Per quanto questo tipo di visione possa essere vittima di
uno schematismo eccessivamente rigido, sia perché la cosiddetta “apertura”,
come viene immaginata, ancora non è neanche all’orizzonte (così come
l’eliminazione dell’embargo) sia perché fornisce al dollaro Usa un
ruolo che forse travalica la sua reale forza, sicuramente può esserci qualcosa
di vero: è innegabile, altresì, che la penetrazione graduale del capitale
straniero, la proliferazione dei cosiddetti cuentapropristas (lavoratori
autonomi legati spesso al proficuo settore turistico) che stanno accumulando
significative ricchezze e la disponibilità di avere finalmente contatti con
l’estero e con la stampa attraverso internet sono, questi, solo alcuni dei
fattori di potenziale destabilizzazione dell’assetto politico ed economico
locale.
Indipendentemente dall’analisi statistica dei dati, che
alcune fasce della popolazione cubana stiano guardando sempre con crescente
speranza in direzione Miami, è cosa evidente a chiunque abbia intenzione di
approfondire l’analisi scevro da filtri ideologici o nostalgici. In termini
semplificati, dunque, alla luce degli elementi già accennati, la domanda da
porsi dovrebbe essere: perché un giovane ventenne dell’Avana dovrebbe aderire
ai discorsi di Raul Castro e non rimanere affascinato
dall’apparente carisma del giovane e ammaliante Obama? Per quanto
la questione generazionale rappresenti sempre una chiave di lettura limitata ed
imprecisa, è innegabile che, chiunque abbia avuto modo di camminare per le
strade della capitale cubana e parlare con gli abitanti non ha potuto ignorare
un’evidente frattura tra coloro che sono figli dei primi anni della rivoluzione
(o che l’hanno vissuta) e coloro che sono nati all’incirca dopo il 1980 (di
fatto, i millenials cubani). Se i primi, nonostante
inevitabili critiche, sono coscienti della portata della rivoluzione cubana e
degli effetti benefici che essa ha avuto su tutta la popolazione, opinioni
divergenti spesso vengono espresse dagli altri, i più giovani, che danno
francamente l’impressione di preferire all’iconografia dei Castro, di
Cienfuegos e del Che, la bandiera a stelle e strisce.
Volendo evitare di fornire interpretazioni frettolose e
ideologiche alla cosa, ci sembra importante fare un passo indietro per tentare
di capire come, proprio dall’inizio degli anni novanta il socialismo cubano,
sia profondamente cambiato, per certi versi più profondamente di quanto stia
avvenendo ora, generando, di fatto, le radici del fenomeno che stiamo tentando
di analizzare.
Sicuramente, da questo punto di vista, il processo di
revisione costituzionale del 1.7.1992 ha sancito un inevitabile ed insanabile
allontanamento dal socialismo dalla sua accezione reale e scientifica,
rimanendo relegato, sostanzialmente, ad un riferimento quasi essenzialmente
ideologico: concordiamo esattamente con Carla Filosa quando
sostiene che “gli articoli 5, 6, 7, 10, ecc. ripongono continuamente nello
stato un immaginario socialista rattrappito a condizione
necessaria, ma assolutamente insufficiente a definire i termini
dell’attualizzazione della lotta di classe. Al di là di una conservazione di
identità rassicuranti o consolatorie, non si ravvisano elementi di
ricostruzione di strumenti per continuare tale lotta entro le
condizioni poste dalle leggi dell’accumulazione. Le costituzioni
hanno sempre avuto il compito di costituire un ostacolo alla comprensione della
storia reale, in quanto riflettono soltanto - non sono -
i rapporti di forza concretamente operanti”[3].
In altri termini, in quel periodo il riavvicinamento al cattolicesimo –
famiglia come “cellula fondamentale della società...”, Cap. iv – e soprattutto
l’abbandono teorico del marxismo soppiantato in maniera pressoché definitiva da
un patriottismo socialista, come quello impersonato da José Martì e
dagli altri fautori dell’indipendenza cubana, o anche al bolivarismo [4]
in termini continentali, sono elementi che hanno influito profondamente sul
cambiamento di prospettiva e di mentalità i cui risultati più evidenti si
riscoprono nelle opinioni delle nuove generazioni. Anche dal punto di vista
accademico, le discussioni in ambito marxista sono straordinariamente limitate:
il numero delle riviste teoriche di marxismo, ossia quelle che propongono
spunti di riflessione indiscutibilmente coerenti con la teoria, è
straordinariamente basso e probabilmente più limitato di quelle europee. Del
resto, girando per l’Avana è possibile avere un impatto visivo di questo di
tipo di impostazione: è possibile infatti osservare centinaia di migliaia di
busti di Martì in ogni angolo della città, mentre le tracce di Marx si
recuperano solamente in un imponente teatro in un quartiere non particolarmente
centrale della città, mentre a Lenin è dedicato un parco e il più importante
liceo probabilmente dell’isola (che però non si trova in città). Da questo
punto di vista, paradossalmente, una città come Berlino fornisce elementi
sicuramente di maggiore riconoscibilità al marxismo-leninismo.
La risposta alla domanda che ci siamo posti precedentemente
è dunque coerente con tutto ciò che abbiamo tentato di proporre in questo
articolo e potrebbe essere così impostata: finché le basi teoriche fornite
dall’encomiabile sistema scolastico ed universitario cubano sbilanceranno il
proprio baricentro nell’adulazione di importanti personaggi come José Marti o Antonio
Maceo a discapito di quello che è appunto il solo strumento utile per
comprendere la superiorità dialettica del socialismo rispetto al capitalismo,
ossia il marxismo, i giovani cubani non disporranno di armi per difendersi dal
canto ammaliante della bellissima sirena statunitense a svantaggio della pur
affascinante, ma molto più malmessa (solo in apparenza), socialdemocrazia
cubana.
Solo se tutto il popolo cubano, dunque anche quello inserito
nelle fasce di età più giovanili, sarà in grado di comprendere quali sono
effettivamente le straordinarie vittorie della rivoluzione allora il socialismo
potrà essere tutelato e migliorato; solo quando sarà chiara ai giovani che
affollano il Malecòn la reale differenza che esiste tra
il capitalismo, che non è solamente la vetrina luccicante delle strade di
Manhattan o di Miami, ma la miseria diffusa in tre quarti del globo, e un modo
di produzione privo di dominio di classe e sfruttamento, solo allora il sistema
cubano potrà sentirsi al riparo dagli attacchi esterni. In sintesi, la teoria
rivoluzionaria è lo strumento necessario (benché non sufficiente) per
proteggere realmente il socialismo dall’attacco degli squali del capitale, così
come è necessario per impostare lotte rivoluzionarie non solo in apparenza nei
paesi a capitalismo avanzato. Solo un popolo cosciente e istruito
ai princìpi del socialismo scientifico può essere in grado di difendere le
straordinarie vittorie della rivoluzione del 1959, nei limiti delle
inevitabili contraddizioni che “il comunismo come fenomeno locale” genera
soprattutto dinanzi ad un capitalismo famelico che, dopo la fine
dell’esperienza sovietica ha pervaso ogni angolo del globo e brama per
concludere l’opera.
Note
1. Dalla
lettera di Marx a Bracke, del 5 maggio 1875
2. Gf. Pala, Perché
non ritorni la vecchia merda, Punto Rosso, Milano 1993.
3. Per un
maggior approfondimento del tema si veda anche C.Filosa, “La transizione nella
nuova costituzione cubana”, il lavoratore 22/23, Varese 1994.
4. “Veder
celebrato come un Napoleone, il più vile, il più volgare e il più miserabile
straccione, era un po’ troppo. Bolivar è il vero Soulouque (imperatore di
Haiti,ndr)”. [Karl Marx, Lettera a Engels, 14.2.1858]
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