mercoledì 6 luglio 2016

Il programma minimo. Per la classe e i comunisti in una fase non rivoluzionaria* - Enzo Gamba, Gianfranco Pala


Il Programma minimo indica quali elementi possa contenere un programma di partito comunista per l’intera classe, reputato e definito minimo giacché è impensabile raggiungere, al momento, la costruzione della società comunista (ma nemmeno la transizione a un modo di produzione socialistico), poiché tutto ciò compete al
programma massimo del comunismo. Oggi è palese la mancanza di ogni presa di conoscenza di massa dell’analisi marxiana, pratica e teorica; questo è il significato da dare alla perdurante fase non rivoluzionaria, in un’attesa di lotta profonda per ritrovare tempi meno bui.
Qui si mette implicitamente a confronto la strategia del programma massimo del “partito” comunista, per cui è essenziale l’appendice che include la Critica al programma di Gotha di Marx, perché quel partito aveva progettato una strategia “operaia” con un programma inadeguato. Similmente, Engels, elaborò una critica di opportunismo che riaffiorava nell’incoerente programma del partito operaio tedesco di Erfurt. La distinzione fra un programma strategico comunista e uno tattico di rivendicazioni così“minime”che sono tutte interne alle regole capitalistiche borghesi, ma che nonostante ciò sono irrealizzabili con i rapporti di forza esistenti, è quindi centrale. Marx e Engels chiamarono “minimo” quello del Partito operaio francese del 1880, scrivendone le considerazioni introduttive: in tale circostanza Marx – di fronte alle parole di un “massimalista” ante litteram, Guesde, che negava l’importanza delle lotte per le riforme da parte dei comunisti, entro e contro il potere borghese – sbottò spazientito esclamando che se quella politica rappresentava il marxismo, “tutto quel che so, è che io non sono marxista”.


[...]Come narrava il mito dell’Araba fenice, che risorse dalle proprie ceneri, è possibile che nel punto di maggiore arretramento dei rapporti di forza del proletariato mondiale, Marx stia assumendo un nuovo fascino? Già dal 2008 le vendite [per la lettura e lo studio è un altro affare – gli anni 1960-70 in Italia o Francia lo attestano] dei suoi testi più noti sono aumentate sensibilmente ovunque e, secondo un sondaggio del 2005 commissionato dalla Bbc, egli è risultato essere il filosofo-rivoluzionario più importante della storia nell’opinione degli interessati. Questo risultato, alquanto stupefacente [... sit venia verbo!] va analizzato tenendo anche in considerazione il fatto che, le nuove generazioni, nate dopo la fine dell’Urss, hanno svincolato gli scritti del tedesco dall’esperienza politica dei paesi appartenenti all’area ex sovietica. Peraltro, la recente pubblicazione del testo di Piketty – che, sia chiaro, del Capitale mantiene solamente il titolo, assumendo una impostazione teorica palesemente keynesiana – deve una gran parte del successo planetario proprio al mercanteggiamento (nei fatti ogni riferimento effettuale è del tutto insussistente) degli scritti del materialista dialettico di Treviri. [Nel nostro ambito, l’uscita del volume Perla critica – dell’economia politica, secondo Marx (a cura di Gianfranco Pala), ed. la Città del Sole, 2014, ha incontrato un interesse significativamente superiore alle attese, stimolando dibattiti e presentazioni in meno di un anno in decine di sedi, di partito, di collettivi varii, o anche attraverso emittenti radiofoniche].

La crisi e la sua negazione

Come si diceva in precedenza, questa attenzione crescente (anche perché il punto di partenza era palesemente prossimo al nulla) purtroppo ancora individuale e dispersa è dovuta almeno in parte a un tragico peggioramento delle condizioni materiali che negli ultimi dieci anni hanno colpito pesantemente una gran parte del proletariato mondiale: specie quella residente nei paesi a capitalismo avanzato che, per anni, si è riconosciuta in una non meglio definita classe media (middle class). Costoro, dopo essersi cibati delle briciole che il capitale gli rilasciava allo scopo di sostenerne l’impianto ideologico, hanno finito per credere di non appartenere più alla classe proletaria (ossia quella dei lavoratori dipendenti in quanto salariati, di cui però potevano costituire un’“aristocrazia”) ma a qualcosa di diverso. Poi l’improvviso ma estemporaneo e inatteso risveglio dal coma, successivo ai crolli del 2007/2008, ha svelato a chi voleva e sapeva vedere il giuoco di prestigio messo in atto dalla classe dominante per occultare che anche costoro dispongono di una unica merce, non prodotta capitalisticamente, ossia la forza-lavoro, la cui vendita quotidiana è necessaria per garantirne la sopravvivenza. Le immagini dei licenziati della Lehman Brothers, intenti a liberare le proprie postazioni di lavoro con gli scatoloni colmi di oggetti personali, sono ricordi ancora vivi, nonostante sia trascorso quasi un decennio da quell’inizio di autunno del 2008. Il fallimento pilotato del grande istituto finanziario statunitense è stato semplicemente l’ultimo atto di una storia ben più antica, come abbiamo detto infinite volte sulla rivista, ossia l’emersione di un bubbone che covava sotto l’epidermide del modo di produzione del capitale almeno dall’inizio della decade degli anni settanta [si veda anche Gf. Pala, L’ultima crisi: un’analisi marxista delle contraddizioni del capitalismo monopolistico finanziario e dello stato, Angeli, Milano 1982 {fuori catalogo – disponibili abbondanti estratti in rete http://www.webalice.it/gianfrancopala40, a gfp.037}].
Pertanto, per quanto gli economisti, veri ideologi del capitale, suggeritori dei “parolai” politichesi, si affannino costantemente a rassicurare che l’anno in corso sia “la volta buona!”, quello per la “ripresa” [senonché Marx lo diceva nel 1865, esattamente 150 anni fa!], i fatti continuano ad avere la testa drammaticamente più dura del chiacchiericcio dei venditori di fumo. I cosiddetti dati che statisticamente vengono ricondotti in maniera sintetica in termini numerici mostrano senza esitazione che lo stato di salute del capitale mondiale è peggiorato in maniera drastica e che l’impasse generalizzata di certo non può venir smossa dalle pratiche illusionistiche poste in atto dai governanti di turno e dai loro ideologi d’accademia. Ha fatto sin troppo scalpore, al riguardo, il caso di Reinhart e Rogoff che, in un articolo pubblicato sulla rivista dell’economia borghese più blasonata al mondo, hanno sostenuto, con il sostegno di sofisticati calcoli numerici, la positiva relazione tra l’adozione di manovre pro-austerity e la crescita del pil. In altri termini si tentava di far passare attraverso il velo “scientifico” che una forte contrazione della spesa pubblica (e qui si intendano parti sostanziali del salario sociale, come sanità, scuole, università e pensioni varie) fosse compatibile con una ricchezza crescente. Tuttavia, la cocciutaggine di alcuni ricercatori statunitensi, poche settimane dopo, ha portato alla luce il fatto che i dati utilizzati erano stati semplicemente truccati e che includendoli correttamente tutti, la tesi si sarebbe completamente ribaltata – come del resto parrebbe intuitivo.

È dunque da ormai quasi mezzo secolo, si è detto, che il capitale, nel suo insieme, sta vivendo una crisi che negli ultimi anni ha visto una pesante accelerazione: i tentativi di risolvere le contraddizioni, vani proprio perché si tratta di caratteri immanenti al modo di produzione, si manifestano principalmente attraverso la riduzione dei salari e, quindi, tramite l’appropriazione di una quota maggiore di lavoro non pagato durante il processo di produzione immediata e la “liberazione” di una massa crescente di forza-lavoro che continua a ingrossare in maniera significativa le file dell’esercito industriale di riserva. Tuttavia, ciò che fa specie è che, dinanzi a una dinamica così drammaticamente evidente, persino gli stimoli delle cause antagonistiche della crisi si stanno rivelando meno efficaci di quanto prevedibile: la conflittualità interna alla classe proprietaria e, al contempo, la transnazionalità del capitale sono in parte responsabili della vanificazione dei diversi tentativi, messi in moto specialmente negli Usa e in Europa, per ridare ossigeno ai profitti, mentre questi ultimi tardano a svincolarsi dalle iniezioni di liquidità statali e dai più o meno efficaci “scudi” opposti a possibili attacchi speculativi. È difatti sempre opportuno rammentare che il volume delle transazioni di capitale fittizio ormai ha superato in valore per più di dieci volte la produzione reale di merci creando una immensa bolla che sarà praticamente impossibile sgonfiare I tentativi di arginare una crisi che, tra la fine del 2008 ed i primi mesi del 2009 appariva, anche a molti cosiddetti “addetti ai lavori”, definitiva per il modo di produzione, sono stati pertanto molteplici e per tanti versi vani: essi non hanno potuto evitare l’inevitabile, ossia che tra il proletariato, anche nei paesi a capitalismo più avanzato, si verificassero condizioni di disagio diffuso che hanno riportato molte statistiche indietro di almeno 60 anni, o in taluni casi anche di più. Ma questa forma di attenzione è di tutt’altra natura, ben distante da una presunta filantropia del capitale: l’esistenza di una middle class è utile, infatti, innanzitutto in termini di sostegno ideologico al sistema, ma anche perché le sue sorti sono direttamente legate alle oscillazioni della domanda interna che rappresentano un bacino di rilievo per la realizzazione del valore e del plusvalore perfino nella fase della massima internazionalizzazione degli scambi, come quella che viviamo attualmente.

La disoccupazione è così divenuta un fenomeno di massa in molti paesi del sud europeo – l’Italia ha raggiunto per quella giovanile un valore prossimo al 45% con punte del 60% nel meridione – mentre la povertà, come ricordavamo già al principio, è emersa in tutta la sua drammaticità, facendo piombare molte famiglie, o pure individui singoli, in una condizione non molto dissimile da quella sopportata nei periodi precedenti e successivi agli episodi bellici del secolo passato. Ma, dunque, se disoccupazione e povertà hanno delineato in maniera evidente una gran parte dei decenni del secolo scorso – e quasi la totalità del secolo xix –, ciò che appare come relativa novità è l’incremento della disuguaglianza anche nei paesi occidentali storicamente abituati a una distribuzione di reddito e proprietà meno sbilanciata. È divenuto un fenomeno ormai evidente che la polarizzazione di classe - ossia la distanza incrementale tra la gran parte dei salariati (lavoratori e non) e la classe che percepisce i profitti (e tra essi vanno aggiunti anche alcuni supersalariati, come i manager à la Moretti o Marchionne), a seguito dell’esplosione dell’ultima grande crisi - ha raggiunto livelli particolarmente significativi anche in quei paesi in cui dal secondo dopoguerra non si erano verificati fenomeni di estrema disparità come altrove (Europa in primis). Senza ombra di dubbio, pertanto, si sta attraversando un passaggio storico della vita del modo di produzione attuale: quanto durerà e dove condurrà l’umanità è per ora del tutto impossibile prevederlo, a parte l’episodio già verificatosi del primo scoppio d’assaggio – controllato – della enorme bolla speculativa cinese e del minuscolo campione di massacro economico sociale – volutamente incontrollato, ... “per vedere di nascosto l’effetto che fa” – delle masse popolari di un piccolo paese della zona europea 16 (Ucraina).

Sì che le condizioni inequivocabili di un programma minimo sono quelle poste dalla borghesia transnazionale, e non dal proletariato costretto come un coniglio con le spalle al muro a simulare la lotta per la “dignità”. Di certo, il grande soggetto che continua a ignorare gli appelli della Storia è la classe proletaria; la sua inesistente organizzazione la relega a una subalternità ancora più pronunciata rispetto a quanto avvenuto negli anni di maggiore floridezza d’accumulazione di capitale. D’altra parte, il crescente fermento autoritario e dispotico che, soprattutto in diversi paesi europei, sta assumendo connotati sempre più preoccupanti, sebbene travestito in maniera differente in ogni specificità, allo stato attuale potrebbe essere l’unica garanzia per un capitale mondiale ormai giunto al limite di sé stesso; nuove forme di organizzazione politica e della produzione, con accezione maggiormente coercitiva, sono la prospettiva politica al momento più plausibile (o anche il presente, se si guarda al di là del Mediterraneo nell’area attualmente occupata dall’Isis), sempre che il “lato cattivo” della società, il proletariato, non decida di rimettersi in marcia e, prendendo coscienza per sé, individui il percorso da intraprendere per fare dell’espropriazione degli espropriatori la propria ragione di esistenza.


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