Introduzione
La globalizzazione della produzione e il suo spostamento
verso i paesi a basso reddito costituiscono una delle più significative e
dinamiche trasformazioni dell’era neoliberista. La sua forza trainante
fondamentale consiste in quello che numerosi economisti chiamano “arbitraggio
globale del lavoro”: lo sforzo compiuto dalle imprese in Europa, Nord America e
Giappone al fine di tagliare i costi e aumentare i profitti rimpiazzando il
relativamente ben pagato lavoro domestico con manodopera estera a basso costo,
ciò sia attraverso l’emigrazione della produzione (la cosiddetta
“esternalizzazione”) sia tramite l’emigrazione dei lavoratori. La riduzione dei
dazi e la rimozione delle barriere ai flussi di capitali hanno stimolato la
migrazione della produzione in direzione dei paesi a basso reddito, ma la
militarizzazione delle frontiere e il crescere della xenofobia hanno creato
l’effetto opposto sulla migrazione dei lavoratori provenienti da questi stessi
paesi – non fermandoli del tutto, bensì inibendo il loro flusso e aggravando il
già vulnerabile status di serie B dei migranti.
Di conseguenza, le fabbriche
attraversano liberamente il confine USA-Messico e passano agevolmente i muri
della fortezza Europa, così come le merci in esse prodotte e i
capitalisti che le possiedono, mentre gli esseri umani che vi lavorano
non godono del diritto di passaggio. Si tratta di una parodia di
globalizzazione – un mondo senza frontiere per tutto e tutti a esclusione dei
lavoratori.
I differenziali salariali globali, in larga misura derivanti
dalla soppressione della libertà di movimento del lavoro, forniscono un
riflesso distorto delle differenze globali nel tasso di sfruttamento (in parole
semplici, la differenza tra il valore generato dai lavoratori e ciò che viene
loro pagato). Lo spostamento verso sud della produzione significa che i
profitti delle aziende con sede in Europa, Nord America e Giappone, il valore
di tutte le tipologie di attività finanziarie provenienti da tali profitti, e i
livelli di vita dei cittadini di queste nazioni, sono divenuti fortemente
dipendenti dagli alti tassi di sfruttamento dei lavoratori nelle cosiddette
“nazioni emergenti”. È necessario, dunque, riconoscere nella globalizzazione
neo-liberale una nuova e imperialista fase dello sviluppo capitalistico,
laddove “l’imperialismo” è caratterizzato dalla sua essenza economica: lo
sfruttamento del lavoro vivo del Sud da parte dei capitalisti del Nord.
Nella prima parte verranno esposti i risultati di un’analisi
empirica del trasferimento globale della produzione verso le nazioni a basso
reddito, nonché identificato la sua caratteristica fondamentale: il
super-sfruttamento imperialista (1); la seconda parte cercherà di spiegare tale
fenomeno nei termini della teoria del valore di Marx, innanzitutto
ripercorrendo il dibattito degli anni Sessanta e Settanta tra la teoria della
dipendenza e i suoi critici marxisti “ortodossi”, successivamente riflettendo
sulla teoria dell’imperialismo di Lenin e, per concludere, offrendo una
rilettura critica delCapitale di Marx.
Prima parte: globalizzazione e imperialismo
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