*scritto nel marzo 1989, e pubblicato nel 1990 in Il
Sessantotto: l’evento, la storia (Annali della Fondazione Luigi
Micheletti, vol. 4, a cura di Pier Paolo Poggio, Brescia, pp. 155-169) https://www.facebook.com/Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova-148198901904582/?fref=ts
"Il problema
degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da
soli è l'avarizia". (da Lettera a una professoressa)
Un non protagonista
Del "sessantotto" sono stato uno spettatore, e
pure ha segnato in qualche misura quello che sono diventato. Ne sono stato uno
spettatore, innanzitutto, per ragioni di spazio e di tempo. Tra la fine del
sessantasette e l'estate del sessantotto - l'arco di tempo in cui il
"sessantotto" più vero si sviluppa a Torino come a Trento, a Pisa
come a Roma - ero difatti molto giovane, e vivevo altrove: del
"sessantotto" mi giungeva un' eco un po' vaga, e ricordo che mi dava
un certo fastidio, come di una moda tra le tante dei ruggenti anni sessanta.
Ero piccolo, ma tremendamente moralista già allora.
A Torino, venni con i miei genitori nel settembre del
sessantotto. Si era agli albori di quello che sarebbe poi stato il
"sessantanove" operaio: il grande assente - come dirò - nelle
commemorazioni di questi anni, stretto tra il ventennale delle lotte studentesche
e il bicentenario della rivoluzione francese. Due eventi di cui quasi tutti si
sentono ormai eredi, mentre di quest'altro ventennale quasi nessuno vuol
sentirne parlare. L'onda del "sessantotto" l'incontrai al liceo, uno
dei luoghi dove si estendeva a macchia d'olio l'insubordinazione che era
scattata nelle università. Il ricordo che ne ho non è particolarmente felice,
per lo meno sul piano individuale: la cultura del movimento studentesco era già
diventata (non so se lo fosse sempre stata, ma non lo escluderei a priori)
normativa e sanzionatoria; un certo linguaggio, certe pratiche, certo
radicalismo erano ormai poco meno che obbligatori. Pure, era un modo nuovo per
essere attivi, capaci di trasformare sé e il luogo dove si passava buona parte
della propria giornata, di non dare nulla per scontato.
I mesi e gli anni a venire furono segnati, appunto, dalle
lotte operaie, e dalle ripercussioni che le lotte degli studenti nel
sessantotto e le lotte dentro le fabbriche dal sessantanove ebbero un po' in
tutta la società. Anche qui, sul piano individuale, non tutto scorreva per il
verso giusto. Mio padre, le lotte operaie le viveva dall'altra parte:
funzionario di polizia, la mattina si alzava presto per andare davanti alle
fabbriche a difendere l'ordine costituito, non a criticarlo; non sono mai
davvero riuscito a non essere preoccupato per questo, a stare anche dalla sua
parte. Certo però quei picchetti e quei cortei interni mi sembravano non
totalmente separati dai valori che mi aveva insegnato, di libertà e di
eguaglianza.
Se ho fatto l'economista, pur essendomi iscritto a
Giurisprudenza - e nel modo in cui l'ho fatto, come economista che vuole fare
quella cosa un po' strana e singolare, e ormai decisamente retrò, che è una
"critica" dell'economia - è stato, credo, anche a causa di
questi inizi. Libertà per tutti e non soltanto per qualcuno, eguaglianza
sostanziale e non soltanto formale, comportavano il rimettere in discussione
alla radice questa società, soprattutto nel momento in cui l'insubordinazione
toccava quello che sembrava essersi rivelato nuovamente il luogo centrale, i
"rapporti sociali di produzione" nella fabbrica. Il miglior modo di
partecipare per me, intellettuale in formazione, era quello di divenire
economista, e marxista. Esperto di quella scienza che spiegava come e perché
questa società si fonda sullo sfruttamento nel lavoro, come e perché il primato
dell'economico è il cuore della libertà vigilata e dell'eguaglianza solo
astratta. Ma anche critico di quella scienza: perché solo la distruzione del
primato reale delle leggi della produzione su donne e uomini metteva all'ordine
del giorno la possibilità concreta di altri modi di stare insieme.
Un equilibrio instabile
Nelle molte discussioni sul "sessantotto" che si
sono svolte nell'ultimo anno l'economia è un po' la grande assente. Quando dico
economia, intendo in realtà due cose. Da un lato, le basi materiali di quello
che è stato un fenomeno internazionale come la contestazione studentesca di
quegli anni. Dall'altro lato, quello che è stato il ruolo, se ce n'è stato uno,
dell'analisi economica nella cultura dei sessantottini. Nelle pagine che
seguono, che vogliono davvero essere solo un "contributo", vorrei
spiegarmi, e spiegare, il perché di questa assenza; e far capire perché mi
sembra che questa assenza faccia problema. Se l'interrogativo si rivelerà non
solo mio, sarà forse il caso di sviluppare in seguito i miei appunti, che
per adesso sono poco più di una provocazione, in un discorso più
ragionato.
La questione la prenderò alla lontana, facendo una
ricognizione sia pure sommaria di ciò che è stato scritto e detto nel
ventennale. Del "sessantotto" se ne è parlato, a me pare,
sostanzialmente in due modi - se si eccettuano le commemorazioni giornalistiche
(di cui ottima quella mensile del "manifesto"; sulle altre, meglio
tacere). Per un verso si sono avute analisi memorialistiche o culturali, di cui
i frutti più maturi e felici mi sembrano i libri di Luisa Passerini, Autoritratto
di gruppo, e di Peppino Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in
Europa e in America. Per l'altro verso, si sono avute letture sulle
conseguenze politiche del "sessantotto", di cui un buon esempio sono
due interventi al recente convegno torinese, uno di Gian Giacomo Migone
("Il caso italiano e il contesto internazionale", parzialmente
pubblicato su "l'Indice" con il titolo "Chi parla e chi
tace", novembre 1988), l'altro di Nicola Tranfaglia ("Il '68 e gli
anni '70 in Italia", che in parte riprende tesi sostenute anche nella sua
introduzione al libro Vite sospese).
Nell'uno e nell'altro tipo di analisi, il
"sessantotto" corrisponde ad una costellazione diversa di fatti.
Nella dimensione della memoria o dell'analisi culturale,
"sessantotto" è, più correttamente, ciò che fa di quell'evento un
momento unico e particolare, una novità inattesa. Chi invece ha voluto porsi il
problema di quale sia stato l'esito politico del "sessantotto" ha in
genere sottolineato ciò che i "sessantottini" sono divenuti e cosa è
nato dal "sessantotto", mettendo in evidenza dunque le continuità col
dopo "sessantotto" ed i caratteri della (inadeguata) risposta
istituzionale.
Ad aiutarci a capire cos'è stato veramente il
"sessantotto", a me pare, è stato soprattutto il primo tipo di
analisi. Vi è in effetti una convergenza tra le conclusioni cui giunge il
Saggio di Ortoleva e ciò che Luisa Passerini ricava dalle testimonianze che ha
raccolto. Se non stravolgo troppo il ragionamento di Ortoleva, mi pare che lo
si possa sintetizzare in questi termini. Il "sessantotto" ha
estensione planetaria e può essere temporalmente delimitato nel periodo che va
dai fatti di Berkeley nel '64 al maggio francese. I suoi caratteri sono quello
di un "movimento" generazionale (di rivolta "giovanile")
che si vuole dinamico e aperto di contro alla fissità e chiusura del
"sistema", in cui ci si rifiuta di integrarsi e da cui si intende
anzi separarsi; di un movimento che, nato nella scuola, fa del sapere e della
sua trasmissione l'oggetto stesso della critica, in quanto riproduttore di
ruoli, diseguaglianze, personalità autoritarie o subordinate, atomizzazione; di
un movimento, insomma, che rompe le regole "prendendo la parola"
sulla propria condizione, rifiutandone l'immodificabilità.
Antiautoritarismo, critica del ruolo, presa della parola,
egualitarismo possono essere visti come i caratteri più originali del
"sessantotto". Interminabilità del movimento, lotta all'oppressione a
partire da sé (nel duplice senso di combattere l'oppressione che si subisce
personalmente, e la personalità oppressiva dentro di sé), capacità della
propria condizione parziale di illuminare i meccanismi universali del potere,
non possono che spingere le lotte studentesche a rifiutare ogni compromesso; ma
dunque anche, presto o tardi, ad uscire dalla scuola. "L'eredità del '68 -
conclude Ortoleva - non è e non può essere un assetto istituzionale [...] e
neppure un'ideologia o una cultura definita. E' piuttosto un campo di
tensioni, al centro del quale vi è l'ambivalenza forse fondante, e certo più
intima, della ribellione giovanile, fra universalismo e parzialità, fra la
rivendicazione del carattere irriducibilmente soggettivo della propria azione e
della propria cultura, e la pretesa di giungere a conoscenze, e risultati,
assoluti" (1).
Alla constatazione di un miracoloso equilibrio tra contrari,
in cui propriamente consisterebbe l'originalità del "sessantotto", mi
pare giunga anche Luisa Passerini nel suo Autoritratto di gruppo.
Dove qui l'equilibrio, la "doppia anima" - come viene efficacemente
definita - rimanda ancora alla relazione-opposizione tra parzialità e
universalità, tra riconoscersi come eguali ed il valorizzare le differenze, tra
liberazione individuale e movimento collettivo. Un equilibrio che è temporaneo,
che tende a dissolversi, mutandosi nel proprio contrario. "E' il caso del
rapporto tra liberazione e autoritarismo interno al movimento, tra la nuova
possibilità di parlare per tutti e il diverso peso della parola di alcuni. Così
la democrazia poteva sfociare - e lo avrebbe fatto nei decenni successivi - in
democraticismo, pretesa della parità senza riconoscimento delle disparità"
(2).
In questa interpretazione, l'accento è sulla discontinuità
del "sessantotto" da ciò che è venuto dopo; una discontinuità che
spesso diviene un giudizio di impoverimento, del "sessantanove" e poi
degli anni settanta, rispetto alla ricca eredità del "sessantotto".
Un giudizio che condivido solo in parte. Come dirò subito, è certamente vero
che quello che è stato il "sessantotto" non poteva riprodursi simile
a se stesso per estensione nel tempo e nello spazio, dalla scuola alla società:
è anzi questa la mia tesi centrale, che l'equilibrio "nuovo" del
"sessantotto" non poteva che essere instabile, trasformarsi in
qualcos'altro; che l'affermazione del proprio diritto di essere soggetti doveva
porsi alla prova dell'incontro con l'altro. Luisa Passerini in altri scritti
sembra vedere tutto il decennio successivo sotto il segno della rottura col
"sessantotto", quasi un capovolgimento del bene nel male.
"Prioritaria è la discontinuità - scrive Passerini in un articolo del
"manifesto" (3) -su moltissimi aspetti: nel rapporto tra movimento e
organizzazione, tra parola e azione politica, tra individuale e collettivo".
Una discontinuità che è talmente sottolineata da costringere poi ad uscire dal
terreno del discorso storico in senso stretto, ed a ricorrere al livello più
profondo - ma da maneggiare con cura - dell'analisi psicoanalitica e
sociopsicologica, quando sul terreno della biografia una continuità non può
essere negata, addirittura tra "sessantotto" e terrorismo, passando
per la "nuova sinistra". Così, per esempio, nella sua
introduzione ad un numero monografico della "Rivista di storia
contemporanea" su Identità femminile e violenza politica la
violenza terroristica viene dubbiamente ricondotta ad una ambiguità
originaria del "sessantotto" tra affermazione di nuovi valori morali
e accettazione/replica della logica della violenza e della morte imputata al
sistema, dapprima simbolica ma poi sempre più drammaticamente reale quando
all'immaginazione ricca della primissima fase si sostituisce l'immaginario
ripetitivo e privo di progettualità della lotta armata (4).
Non intendo qui negare gli indubbi limiti degli anni
settanta,. Credo però che quei limiti - forse in modo più inquietante - sono
legati non tanto ad un arretramento del "sessantotto" italiano, quasi
in un annebbiamento della memoria di sé, ma al suo imprevedibile successo, che
ne ha imposto una metamorfosi. Un successo costituito dall'incontro tra
"sessantotto" studentesco e "sessantanove" operaio, e
quindi dal prolungarsi di un conflitto sociale radicale nei primi anni
settanta, che ripropone in forme inedite la questione del potere. Ciò che
mancò fu la capacità, e forse anche gli strumenti (di cultura economica; di
cultura politica) per reggere il livello - alto - dello squilibrio prodotto. La
discontinuità, forte, di cui il terrorismo di sinistra fu l'espressione nella
seconda metà degli anni settanta può essere vista allora come l'eredità
avvelenata di una soggettività che continuava a ritenersi onnipotente,
senza riconoscere e comprendere come quello squilibrio si fosse richiuso, come
l'oggettività fosse tornata muta e sorda.
Ma una sconfitta non rende priva di senso la battaglia che
si è combattuta.
Un riformismo impossibile
Il merito delle tesi avanzate da Migone e Tranfaglia è
quello di mettere sul tappeto la questione di quale sia stato il legame tra il
"sessantotto" e la crisi prolungata che ne seguì nel caso italiano.
Nelle parole di Tranfaglia: "se l'esplosione del '68 fu tendenzialmente
mondiale o almeno coinvolse l'Europa e l'America, solo in Italia (e in parte,
ma con diverse caratteristiche, nella Germania Federale) innescò una crisi
destinata a durare quindici anni (ammesso e non concesso che oggi, mentre
scriviamo, sia sostanzialmente conclusa) a registrare un lungo ciclo di
proteste e di aspri conflitti sociali, e a sfociare infine nel terrorismo"
(5). Lasciamo pure perdere, in questa sede, questa linea continua che viene, in
modo forse un po' sbrigativo, tirata tra lotte studentesche e terrorismo, che
non mi convince molto. L'interrogativo, legittimo, di Tranfaglia, è sul perché
di questa peculiarità italiana, su cosa giustifichi quell'anomalia costituita
da quello che venne chiamato il "maggio strisciante"; e, per
rispondere a questo interrogativo, Tranfaglia ritiene necessario abbozzare una
analisi che guardi "alle caratteristiche della situazione italiana
rispetto a quella degli altri paesi dell'Europa e dell'Occidente con i quali è
possibile istituire un confronto comparativo" (6).
Un'esigenza analoga di attenzione al contesto economico e
politico è avanzata da Migone, che però ha cura di far chiudere il post-'68 a
metà decennio: "quello che comunemente viene chiamato Sessantotto non
segna che l'inizio di una fase storica, che si protrae fino alle elezioni
politiche del 1976, in cui, per la prima volta dopo il 18 aprile 1948, viene
messo radicalmente in discussione un assetto di potere che ha dominato l'Italia
per un ventennio" (7). Il problema è, per entrambi gli storici, quello di
una storia politica degli anni settanta, che riconosca che ciò che il
"sessantotto" aveva aperto era, ancora per citare Migone, "una
partita di potere".
Le intenzioni, ripeto, sono più che condivisibili. La
risposta che però tanto Migone quanto Tranfaglia ci danno è quanto meno
deludente. Sia per l'uno che per l'altro il prolungarsi e poi l'incancrenirsi
della crisi italiana è l'esito dell'incapacità della classe dirigente del
nostro paese di dare una risposta riformatrice ai nuovi movimenti. Tranfaglia
scrive che "la classe dirigente italiana non è riuscita a dare una
risposta riformatrice all'altezza dei problemi esistenti e di quelli sollevati
dalla ribellione degli studenti e dalla mobilitazione operaia che ne è
seguita" (8): niente riforma universitaria, ma solo liberalizzazione degli
accessi e dei piani di studio; approvazione dello Statuto dei lavoratori ma
"in un contesto economico e sociale (ma anche culturale e di costume)
arretrato" (9). Da un lato, insomma, nuovi soggetti, i giovani studenti ed
operai, le cui richieste sono radicalizzate dall'assenza di una risposta
riformatrice, e aprono così una crisi politica; dall'altro lato, la situazione
verrà a peggiorare perché alla crisi politica si sovraimpone dal '73 una crisi
economica che ha origini internazionali (aumento del prezzo del petrolio) ed è
amplificata dalla natura squilibrata e dipendente del precedente "miracolo
economico".
Non dissimile il ragionamento di Migone. Basteranno alcune
citazioni: "In questa università senza Freud e senza Keynes, dove lo
stesso Marx è sepolto sotto una fitta coltre filologica" gli accademici
"non sono in grado di rispondere alle istanze di rinnovamento di metodi e
contenuti culturali all'interno di una struttura non solo autoritaria, ma per
lo più incapace di fornire strumenti di comprensione critica della società
contemporanea"; "Dal livello governativo a quello delle autorità
giudiziarie e di polizia, di fronte alla contestazione studentesca era mancata
la capacità di una risposta dialettica, o quantomeno un efficace abbinamento
tra repressione e riforme che contraddistinse la risposta di altri governi,
forse più conservatori, ma certamente più forti, in giro per il mondo";
"Soprattutto, i nostri governanti sapevano che, se il morbo
dell'opposizione - si badi bene, non della rivoluzione - si fosse esteso a
gruppi sociali diversi, essi avrebbero potuto mostrarsi meno disposti a
lasciare le cose come stavano e a fuggire per la tangente, come avevano fatto
gli studenti". Insomma, oltre agli studenti un "movimento vasto ed
articolato [... ha preteso di realizzare un disegno costituzionale incompiuto,
qualche volta, consapevolmente, qualche volta scambiando una tanto attesa
rivoluzione democratica per quella bolscevica" (10).
Perché questa risposta è deludente? Innanzitutto, perché
mostra una incomprensione del "sessantotto" italiano in senso
proprio: che certamente non solo non si pensava, ma non era, una richiesta di
modernizzazione, di aggiornamento o di "democrazia"; e basterebbe la
similitudine e la comunicazione con gli altri "sessantotto" a
dimostrarlo, o la perdurante attualità della critica del ruolo intellettuale in
un universo accademico, oggi, del tutto "modernamente" votato allo
specialismo - nonostante il molto parlare di Freud, il successo di un Keynes
imbastardito, il definitivo accantonamento di Marx. In secondo luogo, perché è
incapace di vedere la vera peculiarità del "caso italiano": cioè il
fatto che, quando nel "sessantanove" gli operai fanno quello che
hanno fatto gli studenti, quando l'antiautoritarismo diviene lotta dentro e
contro la fabbrica, allora ha inizio una crisi sociale ed economica che,
proprio per la sua radicalità, è irrecuperabile da una risposta riformista.
Infine, perché il giudizio di arretratezza della situazione italiana non è in
grado di dare ragione del fatto che in Italia, al contrario, viene a
maturazione anticipata rispetto agli altri paesi capitalistici avanzati la
crisi della forma fordista e keynesiana dello sviluppo postbellico.
I prossimi paragrafi saranno dedicati a giustificare alcuni
passaggi di questo quadro, con riferimento ancora una volta a ciò che si trova
o a ciò che manca nella discussione italiana sul "sessantotto".
Dagli studenti agli operai
Vale la pena di soffermarsi su una situazione sola, quella
di Torino. La ragione non è solo quella di rendere agile e sintetico un
ragionamento che dovrebbe certamente essere più attento alle differenze. La
scelta di Torino come laboratorio dove studiare l'incontro tra movimento
studentesco e lotte operaie è motivata da due considerazioni. La prima è che in
questa città si rivelarono con particolare nitidezza le caratteristiche più
nuove della rivolta studentesca: lo sottolineano, di nuovo, ed a ragione, tanto
Ortoleva - che individua nelle sedi di Torino e di Trento la posizione più
originale del "sessantotto" italiana, quella secondo cui
"l'estensione al movimento della società procede a partire dall'universalità
dei meccanismi di dominio e di oppressione scoperti all'interno della
scuola" (11) - che la Passerini - secondo la quale a Torino "ebbe
particolare rilievo il nesso tra presa di parola e soggettività" (12). La
seconda è che a Torino - per il predominio visibile ad occhio nudo del momento
della produzione in senso stretto, della grande fabbrica, della monocultura di
una industria che era stata e sarebbe rimasta a lungo trainante dello sviluppo
economico italiano - il conflitto operaio avrebbe determinato, simbolicamente e
materialmente, le sue conseguenze più vistose.
Un resoconto della prima fase (novembre 1967-febbraio 1968)
del movimento torinese ci è stata fornita recentemente da Marco Revelli, in un
intervento al convegno organizzato dall'Università di Torino (13). Di questo
racconto vorrei sottolineare alcuni punti, che confermano nel caso in esame
quanto ero andato dicendo in precedenza. L'occupazione del novembre dà il via
ad una radicale innovazione nelle forme delle lotte studentesche, già avviate
da alcuni anni nella città subalpina. L'innovazione, particolarmente evidente
nella "metamorfosi linguistica" del movimento studentesco di quella
città, è costituita da "una vera e propria 'rivoluzione copernicana' per
quanto riguarda la concezione della politica [...] la problematica
politica viene bruscamente ridotta allo spazio di controllo dei singoli nella
vita di ogni giorno" (14). La lotta contro il potere (accademico) ha
quindi una valenza che è locale e particolare (l'oppressione contro cui ci si
rivolta è vissuta personalmente ed individuabile con precisione e concretezza)
e però anche universale e generale (è rappresentativa di una condizione
studentesca, che è peraltro essa stessa emblematica dell'autoritarismo
implicito nel neocapitalismo, e non solo in quello). La gerarchia tra
trasformazione delle strutture e trasformazione di sé viene rovesciata rispetto
alla tradizione della sinistra: l'efficacia dell'azione politica "è
considerata prioritariamente in termini di trasformazione delle coscienze, del proprio
modo di vivere e di pensare, della propria autonomia" (15), al punto che
"solo attraverso un processo collettivo di liberazione l'individuo può
affermarsi integralmente come tale, l'io 'danneggiato' e sfidato può ricomporsi
nella sua autonomia" (16).
Una posizione di questo genere, che esprimerà in larga
misura gli umori di buona parte della massa studentesca, si troverà, forse
inevitabilmente, di fronte allo screditamento della controparte, cioè del
potere accademico, capace solo di una risposta negativa e repressiva. L'uscita
dall'università appare dunque retrospettivamente un passo necessario al
movimento per mantenersi tale.
Nel caso torinese, si possono individuare due grandi momenti
dell'incontro del movimento studentesco con gli "altri", lucidamente
ricordati da Luigi Bobbio in uno degli inserti sul "manifesto". In un
primo periodo, a prevalere sembra essere la linea della "lunga marcia
attraverso le istituzioni", che a Torino "si tradusse in un'ipotesi
di accerchiamento della grande fabbrica. Il movimento degli studenti avrebbe
dovuto evitare di misurarsi direttamente con i problemi complessi e poco noti
della classe operaia della Fiat, ma avrebbe dovuto tentare di estendere la sua
prassi eversiva agli strati più contigui (gli studenti medi, gli studenti
serali, i gruppi professionali ecc.) che grazie all'analogia delle condizioni
di partenza avrebbe potuto raccogliere con più facilità e in piena autonomia i
metodi e i contenuti della lotta studentesca" (17). Ad essere minoritaria
fu invece la linea dei fautori dell'intervento operaio. Ma, continua Bobbio,
l'allargamento ad altri strati sociali del movimento studentesco si rivelò più
lenta e difficoltosa del previsto: il che spiega come la rivolta operaia alla
Fiat del maggio del '69 mutasse drasticamente il quadro anche per la componente
maggioritaria del movimento torinese, cui si affiancarono poi numerosi
esponenti di altre città: "avevamo ormai implicitamente accettato di
trasformarci in avanguardie esterne, in militanti a tempo pieno, sia pure non
ancora (per poco) di partito" (18).
Di queste lotte operaie, che segnarono quella che nella
memoria di oggi appare una frattura nei caratteri del movimento, conviene però
dire qualcosa di più. Cosa permise una comunicazione così rapida tra studenti
ed operai, sicché i secondi, di nuovo per citare Bobbio, vedevano i primi come
"legittimi interlocutori" (19). E cosa aveva invece di peculiare il
conflitto operaio da giustificare almeno in parte il riemergere del tema
dell'organizzazione, e della politica in senso tradizionale, che era stato
accantonato nelle lotte studentesche del "sessantotto"? La cultura
degli studenti (torinesi) non era digiuna di riferimenti alla classe operaia,
per lo meno se si guarda alla formazione di molti militanti; non credo di sbagliare
molto se individuo tra le fonti principali un certo operaismo italiano degli
anni sessanta (in particolare, Panzieri e i "Quaderni Rossi") e i
filosofi francofortesi, direttamente o attraverso le tesi del movimento
tedesco. Con l'operaismo, in una certa misura, si era dovuto rompere, per
sottolineare la specificità e la novità della propria lotta di studenti; e le
radici francofortesi del movimento tedesco davano una vernice teorica alla
rottura. Ancora Bobbio ce ne dà quella che mi pare una feconda lettura: le tesi
di Dutschke avevano uno straordinario fascino che "consisteva, ai nostri
occhi, nel proporre un'immagine non gerarchica dei fronti di lotta senza un
soggetto centrale e privilegiato. Identificando tutte le istituzioni (dalle
scuole, alle chiese, ai giornali, alle fabbriche) come luoghi di oppressione e
di manipolazione autoritaria, non solo legittimava il ruolo autonomo del
movimento studentesco (liberando gli studenti dal complesso di essere in una
posizione marginale rispetto alla struttura produttiva), ma autorizzava anche
una certa qual equivalenza tra le lotte di liberazione, dovunque si
svolgessero. In una società senza centro non sembrava neppure indispensabile il
ruolo del partito" (20).
Quello che invece avviene con il "sessantanove"
operaio è il percorso opposto: la riscoperta di un centro, con le lotte
operaie, che porterà i "gruppi" alla rivalutazione
dell'organizzazione, e del partito.
La riscoperta del centro
Guardandolo più da vicino, l'incontro tra studenti e
lotte autonome degli operai dentro la fabbrica non sembra possa essere spiegato
con una maggiore adeguatezza dei modi di pensare diffusi nei movimenti
studenteschi delle altre città rispetto a quello tipico della sede torinese.
Non sembra avere giocato molto un dubbio ruolo degli studenti come forza-lavoro
in formazione, che era la tesi diffusa a Pisa: una forza-lavoro che, come ha
opportunamente ricordato la Rossanda, lungi dall'essere funzionale allo sviluppo
economico si sarebbe presto rivelata eccedente. Né sembra che nelle lotte
universitaria si possa vedere una mera negazione della proprio condizione
intellettuale da parte degli studenti, in qualche modo analoga al "rifiuto
del lavoro" che, secondo le letture sbrigativamente operaiste, avrebbe
caratterizzato le lotte nelle fabbriche degli anni sessanta.
Credo che sia più vero il contrario: che i caratteri delle
lotte operaie del "sessantanove" mostrino, dove meno ce lo si
aspettava, una lungimiranza delle tesi del movimento torinese. Credo cioè che
la novità del "sessantanove" sia data dal fatto che gli operai
"si comportassero come gli studenti". Traggo un esempio tra i tanti
possibili da un articolo pubblicato, proprio nei giorni in cui scrivo, dal
"manifesto". Si tratta del testo di un'intervista ad alcuni operai
registrata durante l'autunno caldo del '69 e mai pubblicata dal "Corriere
della sera", resa ora disponibile da Pino Ferraris che l'ha tratta dal suo
archivio. Un operaio dice: "Io voglio spiegare i punti decisivi di queste
lotte: gli scioperi selvaggi, la lotta contrattuale che la Fiat ha cercato di
fermare sospendendo 30 mila operai. Il padrone con il salario crede di comprare
un operaio come si compra un chilo di mele. Tu ti vendi e io ti pago. Poi ti
consumo come voglio. La mela la tagliuzzo, la faccio cuocere, la lascio marcire
[...] la mordo. Il destino della merce è infatti quello di lasciarsi consumare
[...] Ma l'operaio è una merce un poco speciale, non basta vendersi ad un buon
prezzo, non vuole più lasciarsi consumare come piace ai padroni [...] E' una
merce questa che vuole avere il potere di controllare ogni giorno il modo del
suo consumo, per questo ora si fanno le lotte interne sul lavoro per il
controllo operaio" (21).
Antiautoritarismo, autonomia, controllo del proprio destino,
rifiuto di accettare una condizione presentata come immutabile, politica come
lotta per l'autodeterminazione e l'ampliamento degli spazi di libertà concreta
nella propria esistenza: sono tutti caratteri che si ritrovano in questa come
in altre testimonianze (22); e che mal si accompagnano sia alle letture che
allora ripresero piede di tipo marxista-leninista, con il recupero del ruolo
essenziale dell'avanguardia esterna per rendere "politiche" delle lotte
spontanee meramente sindacali, sia con le diffuse interpretazioni operaiste che
vedevano nelle lotte operaie delle lotte "incompatibili" per un
reddito sganciato dal lavoro.
Pure, in queste parole c'è ancora qualcos'altro. C'è
propriamente il recupero, quasi didascalico, di quello che è il cuore della
teoria del valore-lavoro di Marx, al di là di tutte le incrostazioni
meccanicistiche che l'avevano fatta infine relegare (giustamente) in soffitta.
C'è l'idea, cioè, che nella società capitalistica esiste davvero un centro,
costituito dalla produzione di merci finalizzata al profitto; e che questo
profitto non ha altra ragione che un pluslavoro, costituito dalla differenza
tra valore di scambio (quantità di lavoro oggettivato nei beni comprati dal
salario) e valore d'uso (prestazione lavorativa). L'autonomia del valore d'uso
della forza-lavoro dai movimenti del capitale - in cui in sostanza si
sintetizza il "sessantanove" - rimanda alla caratteristica peculiare
di questa merce così diversa dalle altre, cioè al fatto che in questo caso - a
differenza, appunto, della mela cui fa riferimento l'operaio intervistato) -
non è possibile separazione tra merce venduta (capacità lavorativa) e individuo
concreto. Riscoperta delle ragioni dell'operaio in carne ed ossa contro un
sistema produttivo che riduce invece le persone a rotelle di un meccanismo -
questo fu allora la "centralità operaia". Una centralità che,
incarnatasi in lotte radicali capaci di estendersi e moltiplicarsi ovunque,
mostrava di essere non il riflesso ma la negazione della centralità
dell'impresa, propria della cultura industrialista della destra e della
sinistra.
Non è forse un caso che quegli anni videro una ripresa
dell'interesse, dentro e fuori l'economia, nei confronti della teoria marxiana.
In particolare, la teoria del valore poteva ora mostrare un volto nuovo, di
teoria della crisi sociale, in grado di spiegare gran parte del blocco
dell'accumulazione capitalistica. Un economista che bene espresse questo nesso
tra problematizzazione teorica delle categorie di base del discorso di Marx e
loro impiego creativo per l'interpretazione della situazione italiana fu
Claudio Napoleoni, che nel 1973 scriverà: "la lotta operaia è venuta
assumendo caratteri tali per cui essa non è stata più né semplicemente
redistributiva né semplicemente normativa, ma è diventata politica in un senso
più stretto, in quanto cioè ha indebolito spesso profondamente, una delle
condizioni necessarie alla realizzazione del rapporto capitalistico, ossia la
subordinazione, la mancanza di autonomia, della classe operaia all'interno del
processo produttivo [...] la crisi economica, e sociale, è dovuta
essenzialmente a questa spinta operaia, nel senso che il processo accumulativo,
già colpito dai successi ottenuti, al principio degli anni '60, sul terreno
della distribuzione, è stato poi ancor più duramente colpito da quella
conquista di autonomia operaia che ha fortemente limitato la possibilità di
risposta del capitale in termini tradizionali, in termini cioè di aumento del
grado di sfruttamento" (23). Una crisi economica perché sociale: una crisi
che per la sua stessa natura andava oltre qualsiasi riformismo possibile.
La cultura dei protagonisti delle lotte di quegli anni,
presto cristallizzatasi in "nuova" sinistra, fu in grado di aderire e
cavalcare il crescere e moltiplicarsi dei movimenti dal '69 al '72; non seppe
però risalire dalla radicalità antagonistica delle lotte, in primis quelle
operaie, ad una analisi della crisi. Fu costretta dunque ad oscillare tra
registrazione, reale o immaginaria qui adesso poco importa, di lotte sempre
viste come radicali e vincenti, e denuncia di una reazione capitalistica o
istituzionale interpretata attraverso la lente riduttiva del
"complotto". Secondo la linea che ho suggerito, le cose stanno molto
diversamente: le lotte furono realmente in grado di incidere su nodi vitali
delle relazioni di potere, nelle fabbriche e fuori; proprio per ciò, esse
dettero luogo ad una crisi dell'accumulazione che avrebbe presto o tardi dato
luogo, in mancanza di uno "sbocco politico", ad una reazione del
sistema, che prese la forma dell'inflazione, del decentramento, della
ristrutturazione (24).
Come avevo già anticipato, queste considerazioni mi portano
ad un giudizio ben diverso da quello oggi corrente. I limiti della prima metà
degli anni settanta - il radicalismo fino al '73, ed il politicismo partitista
del triennio successivo - non possono essere semplicemente addebitati ad una
sopravalutazione della forza del conflitto prima, e ad una involuzione organizzativista
poi. Si tratta piuttosto del fatto che la crisi strutturale del capitalismo, in
cui si erano condensate le lotte sociali, avrebbe richiesto una cultura in
grado di interpretare ed aggredire il legame
lavoro-valorizzazione-crisi-ristrutturazione. Una cultura che mancò, e che
certo non esisteva dentro il "sessantotto". Poco serviva alla bisogna
la cultura francofortese. Ma anche l'operaismo, che pure aveva riscoperto
nell'antagonismo operaio l'unica contraddizione insanabile del capitalismo, ne aveva
fatto con Tronti l'origine di un continuo sviluppo capitalistico indotto dalle
lotte; o, all'opposto, con Panzieri, la ragione di un crollo finale del
capitalismo, affossato dall'operaio-massa, letto come la figura terminale
assunta dal lavoro astratto marxiano.
La conseguenza fu che tra il '72 e il '73 i
"gruppi", in cui era ormai raccolto ciò che era rimasto del vecchio
movimento studentesco, di fronte ad una situazione radicalmente cambiata anche
per il proprio intervento, finirono con il ricorrere alla (povera) cultura
economica e politica che la sinistra aveva in cantiere. Sostituirono così alla
critica dell'imperialismo e dello 'spreco' degli Stati Uniti che poteva essere
ricavata dal Capitale monopolistico di Baran e Sweezy, in cui si condensava il
sapere economico del "sessantotto", un po' di marxismo ortodosso
vagamente crollista, oppure un po' di keynesismo e neoricardismo di sinistra e
conflittualista. E per quanto riguardava la cultura politica fecero di peggio,
rimettendo mano a molto armamentario terzinternazionalista. Ma, se quanto ho
detto ha una sua plausibilità, non sono né il radicalismo dei primi anni
settanta, né l'essersi posti la questione del potere a costituire problema,
quanto piuttosto l'incapacità di tutta la sinistra, "vecchia" e
"nuova", di rispondere alle innovazioni economiche ed istituzionali
con cui il "sistema" rispose alla crisi, e disarticolò i movimenti.
Invece di una conclusione
Esiste qualche traccia di questa problematica negli scritti
recenti sul "sessantotto". Nel suo libro Peppino Ortoleva avanza la
tesi secondo cui nelle pagine di molti degli esponenti del movimento
studentesco può essere individuato un progetto ambizioso: "il progetto di
una critica delle scienze sociali parallela alla critica marxiana dell'economia
politica, una scienza della rivoluzione adeguata alle caratteristiche del tardo
capitalismo, in cui il dominio non è più centrato sulle strutture economiche,
ma attraversa l'intera società. Una critica delle scienze sociali che avrebbe
dovuto 'andare oltre' la scuola di Francoforte in quanto ne avrebbe tradotto le
intuizioni teoriche in prassi politica rivoluzionaria; che avrebbe dovuto
riunificare la conoscenza a partire dalla fondamentale unità della struttura
sociale e dei suoi meccanismi oppressivi che erano, insieme, sociali,
psicologici, economici e culturali; che avrebbe dovuto tradurre quella
conoscenza in pratica della liberazione". Un progetto il cui abbandono,
secondo Ortoleva, fu determinato "dalle esigenze di un movimento di massa
di dimensioni e forza d'urto del tutto imprevedibili, dal processo innescato in
tutto il mondo dal modello del maggio francese, che riproponeva un'immagine
tradizionale della rivoluzione, e favorì un ritorno alla critica dell'economia
politica come scienza essenziale della società" (25). Una posizione che,
come abbiamo visto sulla scorta delle considerazioni di Luigi Bobbio, orientò
per una certa fase le scelte del movimento torinese.
Un filo di ragionamento altrettanto suggestivo è proposto da
Guido Viale nell'ultimo degli inserti del "manifesto" sul
"sessantotto", quando scrive che l'orizzonte culturale comune ai
diversi movimenti che si susseguono tra il "sessantotto" e i primi
anni settanta era "l'approccio in chiave sociale ai problemi dell'uomo nel
mondo" e "l'irruzione della vita quotidiana nella lotta
politica", che si erano poi appuntati nell'analisi dei ruoli, delle
sanzioni che li strutturavano e delle forme di consenso che tendevano a
riprodurre. "Questo approccio aveva portato il movimento - i movimenti -
assai lontano: ben oltre l'ambito di una singola istituzione - l'università:
tra quelli che allora si chiamavano i 'tecnici', nel mondo delle professioni,
tra gli operatori della giustizia e dei servizi sociali, tra le loro vittime
predestinate" (26). Ma, soprattutto, "lo stesso tipo di approccio,
applicato alla propria 'esperienza vissuta' dai protagonisti delle lotte di
fabbrica, porterà a dare al concetto di classe operaia quello spessore e quella
ricchezza di contenuti che è la sostanza stessa della 'presa di parola'
rappresentata dall' 'autunno caldo' e di quella 'centralità operaia' che ha attraversato
l'intero arco degli anni '70" (27). Questa centralità - conclude Viale - è
venuta meno "quando si è esaurita la carica dirompente dei frutti di
questa sua 'autoanalisi'" (28).
Le due citazioni si integrano e correggono bene a
vicenda, mostrando ricchezza e limiti dell'onda lunga del
"sessantotto"; mi consentono inoltre di sintetizzare il mio
ragionamento e di individuare meglio la problematica che esso si limita a
definire. Il passaggio dalla critica della società alla critica dell'economia
politica ha come sua più autentica ragione l'emergere di una centralità operaia
che ha effettivamente i caratteri che Viale le attribuisce. Per questo, lungi
dal segnare il passo indietro cui allude Ortoleva, costituisce una inaspettata
ma potente ridefinizione della critica dell'economia politica come critica
della società.
Sul piano della struttura della società, il caso italiano
mostrava in forma più accentuata una caratteristica che era propria del modello
di sviluppo fordista e keynesiano in quanto tale, e cioè il modellarsi dei
comportamenti sociali e istituzionali sulla 'razionalità' di fabbrica. Un
modello che conciliava aumento della produzione di merci ed estensione di
attività diverse dal lavoro di fabbrica grazie ad una pressione sulla classe
operaia. Il lavoro di fabbrica era, quindi, sempre più centrale sia perché su
di esso si reggeva una articolazione sociale sempre più complessa, sia perché
era assunto a modello delle altre forme di attività. Una centralità del lavoro
di fabbrica che, però, cominciava ad accompagnarsi alla riduzione del suo peso
relativo.
I modi dell'estensione della logica di fabbrica in una
società totale di massa, ed il ruolo della condizione studentesca in questo
contesto, meritano qualche parola in più. L'ambiente sociale permeato dal
fordismo si rivela progressivamente, sotto la facciata del benessere e della
'libertà', un ambiente in cui l'individuo ha sempre meno possibilità di scelta
ed è soggetto ad un controllo sottile, ma non per questo meno dispotico. Esce
nel 1960 un libro affascinante di Bruno Bettelheim, Il cuore vigile (29),
che mi sembra rappresenti bene una inquietudine allora crescente: in esso,
contro ogni evidenza tranquillizante, si mostra come esista un parallelismo
inquietante tra l'esperienza dei campi di concentramento nazisti e la società
tecnologica, consumista ed opulenta del capitalismo successivo alla seconda
guerra mondiale.
Nell'un caso e nell'altro, l'uomo stesso sembra ridursi a
mezzo, subordinato, privo di rispetto di sé: incapace di autonomia,
disintegrato nei suoi aspetti interiori, soggetto a controlli esterni di fatto
sempre più rigidi.
Nel 1966 esce il pamphlet situazionista Della
miseria nell'ambiente studentesco, su cui ha opportunamente richiamato
l'attenzione Bruno Bongiovanni in apertura di un suo saggio recente, e che
illumina la particolare situazione dello studente nella società di massa. Nella
felice sintesi di Bongiovanni, il documento sostiene che "lo studente,
reso così irresponsabile e docile, è situato in uno stato di monorità. In
cambio della promessa di una possibile, futura cooptazione nella classe
dirigente o almeno nel terziario in espansione, egli si trova sottomesso alla
duplice autorità della famiglia e dell'istituzione pubblica [...]. Lo studente,
tuttavia, è sì in posizione subordinata, sempre secondo gli autori del
pamphlet, ma gode, ecco la sua croce e la sua delizia, di una relativa capacità
critica e soprattutto di tempo libero, il che fa sì che a lui il 'sistema'
appare come fonte di alienazione, e la 'totalità' come falsa totalità"
(30).
Nella particolare situazione dello studente si rivela così
una condizione universale, l'arbitrario eppure oggettivo autoritarismo sociale,
che quanto più si estende fuori dalla fabbrica verso soggetti di incerto
statuto sociologico tanto più può perdere legittimazione e tanto più può
provocare rivolta. La lotta studentesca trova qui la ragione del suo dilagare
alla società prima e alla fabbrica poi, invertendo il percorso compiuto dalla
razionalità fordista.
Questo sistema economico e sociale si rivelò vulnerabile
all'insubordinazione, specie quando la rivolta finì col toccare il nodo
cruciale costituito dalla dinamica del tasso di produttività. Le analisi più
convincenti dell'instabilità economica mondiale dalla metà degli anni sessanta
in poi ne hanno in effetti individuato la causa più profonda in una rottura di
quel patto implicito tra capitale e lavoro su cui si era eretto lo sviluppo
postbellico: un patto che prevedeva guadagni per il lavoro sul terreno del
consumo, e guadagni per il capitale sul terreno della produzione. Anche da
questo punto di vista, il caso italiano appare non tanto arretrato quanto
anticipatore. La crisi dei primi anni sessanta aveva dato luogo ad una sequenza
di inflazione e deflazione, che aveva determinato un blocco degli investimenti;
il successivo aumento della produzione era stato quasi interamente dovuto ad un
aumento dell'intensità di lavoro, che aveva reso trasparente e intollerabile il
legame tra dispotismo del comando di fabbrica e quantità di produzione. Nel
"sessantanove" il tempo di lavoro sarebbe divenuto, senza mediazioni,
il luogo del conflitto.
In questo quadro, l'autunno caldo ebbe, più che altrove, un
effetto devastante sugli equilibri aziendali, e sociali. Ebbe effetti
devastanti perché, come ho già detto, da noi più che altrove la crisi della
produzione era il risultato di una crisi sociale. Una critica nella società
contro il potere aveva finito con il radicalizzarsi in lotta contro lo
sfruttamento. Non era la crisi interna di un meccanismo: al contrario, la
stessa struttura tecnico-organizzativa della fabbrica capitalistica veniva
riconosciuta come socialmente condizionata; l'industria si mostrava dipendente
dal rapporto di classe; ed il rapporto di classe, che permeava la società
tutt'intera, si rivelava sensibile ai movimenti di quest'ultima. La crisi dei
primi anni settanta non era, di conseguenza, un fenomeno che potesse essere
compreso ricorrendo agli strumenti separati della scienza economica o della
scienza sociologica, come punti di vista diversi ma complementari. Non bastava
un'addizione di specialismi. Si richiedeva, invece, una scienza sociale che
assumesse a suo oggetto il nesso tra oggettivo e soggettivo, tra
relazioni tecniche e rapporti di classe, tra economia e società. Che, insomma,
non si limitasse a negare nella teoria il primato dell'economia sulla vita
sociale, ma costruisse nella realtà una società senza centro. Una critica
dell'economia politica, appunto, che facesse della "centralità"
operaia la sua leva pratica.
Anche questa proposta, non meno ambiziosa dell'altra, fallì:
forse perché, pur esprimendo bene la posta in gioco in quegli anni, fu
percepita solo confusamente. E' comprensibile che i sessantottini non ne
serbino memoria: anche se ammetto di trovare ostica la spiegazione di Viale,
secondo cui la centralità operaia svanì perché si esaurì la carica dirompente
dell'autoanalisi operaia. Sospetto che, più che un esaurirsi interno della
spinta operaia, abbiano giocato mutamenti oggettivi; in particolare una
trasformazione della fabbrica che ha ridisegnato la mappa delle soggettività
che vi erano presenti. In un mondo che era stato costruito a misura della
razionalità d'impresa, una società in movimento aveva attraversato i
luoghi del lavoro operaio, entrandovi e trasformandoli lungo tutti gli anni
settanta. L'innovazione ha però reciso, o per lo meno reso più complesso,
il legame tra controllo esercitato impersonalmente dal sistema di macchine
sulla prestazione lavorativa e controllo diretto e personale della gerarchia di
fabbrica sui lavoratori - quel legame che era costitutivo dell'organizzazione
della fabbrica fordista, e che dà conto dell'efficacia estrema
dell'insubordinazione "sessantottina" dell'operaio massa, oggi
improponibile. Nel frattempo, anche la società è cambiata: all'intreccio di
integrazione e sanzioni costituito dai "ruoli" rigidi si è
sovraimposta una postmoderna e flessibile moltiplicazione delle identità di cui
gli individui possono farsi portatori fuori dal lavoro. Si sono così separati
fabbrica e società, operai e movimenti.
L'eredità del "sessantotto" mi sembra
inestricabile da tutto ciò. Per questo, quanto si è scritto venti anni dopo mi
sembra utile, anzi essenziale: ma cionondimeno parziale. Del
"sessantotto" italiano si potrà fare davvero storia solo se si farà
anche la storia degli anni settanta; e se ne potrà completare la memoria solo
se la comunità che si costituì nelle lotte e nelle occupazioni di allora saprà
riandare anche alle grandezze ed alle sconfitte che incontrò fuori dalle
università, e su cui si divise.
* Laura Derossi, Maria Teresa Fenoglio, Luisa
Passerini, Marco Revelli non sono responsabili delle tesi sostenute in questo
scritto, ma debbo comunque loro un ringraziamento per avere discusso con me dei
temi qui trattati.
(1) Peppino Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in
Europa e in America. Con un'antologia di materiali e documenti , Editori
Riuniti, Roma 1988, p. 201.
(2) Luisa Passerini, Autoritratto di gruppo , Giunti,
Firenze 1988, p. 94.
(3) Memoria del tesoro perduto , 9 settembre 1988.
(4) Ferite della memoria. Immaginario e ideologia in
una storia recente , in "Rivista di storia contemporanea", n. 2,
1988, pp. 173-217. Le conclusioni di Passerini in questi scritti hanno almeno
il merito di affrontare di petto la questione che la memoria dei protagonisti
di allora facilmente mette da parte. Si veda, per esempio, in Autoritratto di
gruppo , questa considerazione: "Il più delle volte la memoria non sa o
non vuole soffermarsi a render conto di una serie di capovolgimenti: dal
rifiuto della politica come mestiere all'accettazione del funzionariato; dal
diniego del ruolo di avanguardia alla costruzione di un partito rivoluzionario;
dallo sberleffo verso il retaggio del pensiero e delle esperienze del movimento
operaio a una loro ripresa in chiave involontariamente farsesca, con un
proliferare di strutture organizzative quali comitati centrali, commissioni di
controllo, esecutivi, scuole quadri" (op. cit., p. 179). Nel libro,
peraltro, si dà un giudizio più equilibrato e condivisibile che negli scritti
successivi: "i gruppi ponevano, in modo rozzo, anacronistico, autoritario,
il problema di ciò che va al di là del quotidiano. Lo accentuavano in modo
esclusivo, ma eluderlo lascia un vuoto negabile solo a prezzi non ancora
calcolati" (op. cit. , p. 184).
(5) Nicola Tranfaglia, "Percorsi del terrorismo.
Il '68, i 'gruppi' e la crisi degli anni settanta", in Vite sospese ,
Garzanti, Milano 1988, pp. 15-16.
(6) ibid.
(7) Gian Giacomo Migone, "Il caso italiano e il
contesto internazionale", relazione ciclostilata al convegno Le culture e
i luoghi del '68 , Torino, 3/5 novembre 1988.
(8) Nicola Tranfaglia, op. cit. , p. 23.
(9) ibid.
(10) Gian Giacomo Migone, op. cit.
(11) Peppino Ortoleva, op. cit. , p. 72.
(12) Luisa Passerini, op. cit. , p. 90.
(13) Marco Revelli, relazione ciclostilata.
(14) Marco Revelli, op. cit. , p. 25.
(15) Marco Revelli, op. cit. , p. 31.
(16) Marco Revelli, op. cit. , p. 40.
(17) Luigi Bobbio, Prima di Lotta Continua. Da Palazzo
Campana il salto nella società senza centro , in "il manifesto 1968",
ottobre 1988, p. 21.
(18) ibid.
(19) ibid.
(20) ibid.
(21) Le parole scomparse degli operai , in "il
manifesto", 2 marzo 1988.
(22) Si veda per esempio quanto scrive, molto
opportunamente Laura Derossi, ricordando "il ruolo svolto da Lotta
Continua nello sviluppo delle lotte operaie, dal '69 ai primi anni settanta, e,
in particolare, nell'affermazione di una identità operaia non subordinata ai
vincoli del ruolo occupato nel processo produttivo, ma piuttosto definita sulla
base del diritto all'autonomia, alla dignità culturale e alla conquista di
spazi di espressione e di partecipazione all'interno della società nel suo insieme"
(Le parole e le pietre , "il manifesto", 1 settembre 1988). Derossi
prosegue definendo un "mito" la "centralità operaia": un
mito "maschile", che avrebbe "contribuito a creare identità
separate dal tessuto sociale che vivevano una suggestione di potenza". Si
tratta di osservazione non priva di fondamento: soprattutto nella seconda metà
degli anni settanta, quando la "centralità operaia" ha cessato di
essere critica della produzione e del primato dell' "economico" prima
nella fabbrica e poi nella società, ed è divenuta visione gerarchica dei
movimenti. Su questo punto, ho sviluppato alcune considerazioni in Il rosso, il
rosa e il verde. Centralità operaia e nuovi movimenti , in "Quaderni del
Cric", novembre 1988.
(23) Domande e risposte sul nostro giornale che
comincia oggi il suo terzo anno di vita. La risposta di Claudio Napoleoni, in
"il manifesto", 28 aprile 1973.
(24) Vale la pena di notare che da questo punto di
vista la considerazione di Ciafaloni e Donolo, contenuta in un intervento
pubblicato nel luglio 1969, secondo cui "il movimento non ha
provocato mutamenti nella struttura del potere, non ha conquistato potere reale
(tanto meno istituzionale) in singole organizzazioni e strutture, né più in
generale ha modificato i rapporti tra le classi" (Contro la falsa
coscienza nel movimento studentesco , in "Quaderni Piacentini", n.
38, citato da Quaderni Piacentini. Antologia, 1968-1972 , Gulliver, Milano
1978, p. 213) - citate con favore tanto da Migone quanto da Tranfaglia a
sostegno delle loro tesi - si rivelarono quanto meno intempestive per quanto
riguarda l'ultimo punto. L'articolo merita di essere riletto anche oggi, ma per
altre considerazioni.
(25) Peppino Ortoleva, op. cit. , p. 100.
(26) Guido Viale, Assente è il presente. I fili recisi
che ostacolano la ricostruzione storica , in "il manifesto 1968",
dicembre 1988, p. 12.
(27) ibid.
(28) ibid.
(29) Il libro, il cui sottotitolo è Autonomia
individuale e società di massa, è stato recentemente ristampato per le
edizioni Adelphi. La prima edizione italiana, del 1965, portava un titolo
diverso da quello originale, ora ripristinato, e cioè Il prezzo della
vita.
(30) Bruno Bongiovanni, Società di massa,
mondo giovanile e crisi di valori. La contestazione del ’68, in La
storia. I grandi problemi dal Medioevo all’Età Contemporanea, vol. VII, L’Età
Contemporanea, tomo II, La cultura, Utet, Torino 1988
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