domenica 17 luglio 2016

Carla Maria Fabiani: Aporie del moderno. Riconoscimento e plebe nella Filosofia del diritto di G.W.F. Hegel* - Georgia Zeami


Rileggere la filosofia politico-giuridica di Hegel alla luce di una categoria strettamente teoretica e logica, qual è quella del riconoscimento (die Anerkerkennung), se per un verso significa muovere dal formalismo della ragione alla concretezza della fattualità, per l’altro coincide con l’ambizioso tentativo di rintracciare delle «aperture nella sistemica hegeliana» (p. 19), una sistemica apparentemente chiusa. Chiave di volta per compiere un simile percorso è la categoria della plebe (die Pöbel), ben distinta da Hegel dalla semplice povertà – ovvero dalla nullatenenza di beni che accompagna le società precapitalistiche – e intesa dall’autrice come giuntura strategica delle analisi economico-politiche hegeliane. Il saggio della Fabiani, articolato in due macrosezioni, dedicate l’una all’analisi della genesi dello stato nelle lezioni jenesi (1803-1806) e l’altra all’emersione della specificità della categoria di plebe nella Filosofia del diritto, propone un’indagine volta all’individuazione di un carattere intrinsecamente problematico del pensiero hegeliano che, lungi dal poter essere ridotto a un sistema filosoficamente compiuto e perciò speculativamente sterile, si rivela quale controverso e complesso snodo aporetico della modernità. L’insorgenza di una sostanziale dinamicità nel ragionamento politico hegeliano mostra poi, per contrasto, l’insufficienza di certa lettura marxista e neomarxista che, attestandosi miopemente sull’immagine inveterata di una filosofia reazionaria e statalista, non è riuscita a rendere conto della complessità di un sistema che piuttosto che fuggire le aporie le contempla, invece, al proprio interno come nodi  inestricabili di una realtà eccedente, ad ogni passo, il formalismo della ragione. Da qui l’originalità della lettura della Fabiani – seppure in linea con le posizioni di Weil e con il versante italiano costituito da Salvucci e Valentini  – che, contrariamente a molti eccellenti tentativi, teoreticamente ineccepibili ma storicamente discutibili, rende ragione del profondo radicamento delle riflessioni hegeliane nella temperie politico-culturale del suo tempo, una lettura attuata non tanto forzando arbitrariamente i contenuti, quanto rivelandone una vitalità interna quasi insospettabile. Al fianco di una puntuale analisi dei testi, il saggio della Fabiani contiene infine un interessante compendio dedicato alla disamina delle posizioni critiche (pp. 161-192), un compendio che a mio avviso potrebbe fungere da guida alla lettura dell’intero volume.

Il saggio si apre con un attento esame del termine plebe nell’alveo delle riflessioni hegeliane. Determinato come status sì economico, ma anche sociale e politico – contrariamente alla povertà che invece indica una condizione strettamente finanziaria –, la plebe sorge con il sorgere della modernità: per un verso essa è il frutto compiuto del liberismo economico, ovvero dell’imporsi dell’idea del lavoro come autosussistenza, per l’altro è la deriva incontrollata del liberalismo politico, e cioè il luogo sociale in cui domina un certo sentimento dell’ingiustizia subita (p. 16). Dalle analisi politiche emerge, tuttavia, un’ulteriore accezione che inerisce tanto alla sfera etica quanto, o forse proprio perciò, a quella teoretica. Hegel, ci dice Fabiani, usa il termine sia nell’accezione di volgo o senso comune, sia in quella di intelletto negativo astratto (p. 17). Così intesa, la categoria di plebe richiama immediatamente – pur sottraendosi, come vedremo, ad essa – la dialettica del riconoscimento. Il filosofo di Jena sembra insomma, fin da subito, connotare la plebe come un che di destabilizzante. Comprendendone la perniciosa natura rispetto alla stabilità dello Stato – inteso sia come organismo politico-giuridico sia come espressione dello Spirito –, ne ignora quasi l’esistenza, come giustamente sottolinea Marx, nella logica sistematica. Allo stesso tempo, però, dissemina i suoi scritti di riferimenti strategici che, se correttamente intesi, possono svelare l’intrinseco paradosso che mina la logica ferrea del riconoscimento. È necessario perciò, avverte l’autrice, non solo tornare a rilevare analiticamente un legame, non proprio esplicitato da Hegel (cfr. p. 19), ma addirittura accentuare l’intreccio tra plebe e riconoscimento.

Se d’acchito, infatti, la plebe si configura quale categoria teoreticamente innocua, essendogli preclusa costitutivamente quella propulsione al rovesciamento che solo un intelletto positivo è capace di generare, a uno sguardo più attento essa sferra un colpo quasi letale alla dialettica sottesa allo Stato moderno. Da qui l’ipotesi della Fabiani secondo cui «il tema economico ed etico-politico della plebe» è da intendersi come «problema sia per ciò che riguarda la sistematica hegeliana, sia per ciò che riguarda l’interpretazione che Hegel restituisce dell’età moderna» (p. 20). Sul piano dell’analisi strettamente politica, poi, la plebe manifesta l’insufficienza di ogni ordinamento statale rispetto alla spinta eccendente del concreto. Di ciò, spiega l’autrice, Hegel è pienamente consapevole (p. 21), sebbene le soluzioni da lui proposte per risolvere il problema sembrino riprodurlo indefinitamente. Una volta riconosciuto il vulnus della questione, ovvero la continua interazione tra il livello logico-teoretico e quello economico-politico, la Fabiani annota acutamente che la contraddizione presente nel nesso plebe/riconoscimento non può risolversi perché «non si presenta propriamente come contraddizione ma come aporia» (ibidem). In ciò consiste l’autentica modernità del pensiero di Hegel, e cioè nella «capacità di individuare nella ragione ineliminabili persistenze di irrazionalità» (p. 24). 

Il primo capitolo, suddiviso in due parti e dedicate all’analisi del mondo economico nelle lezioni jenesi 1803-1804 e 1805-1806, affronta il tema della genesi dello Stato dal punto di vista della filosofia dello Spirito. Inteso come compiuta espressione di una coscienza che man mano si libera del vincolo dell’accidentale e del singolare per fondersi con la comunità e, dunque, con il bene comune, l’insorgere di un ordinamento politico stabile segna lo scacco sferrato allo stato di natura, instaurando, tuttavia, una sorta di natura seconda (p. 30) che si presenta nella duplice veste della quiete e dell’inquietudine (cfr. p. 37); essa, infatti, non elimina definitivamente la propulsione alla violenza e la brutalità della singolarità immediata. Di ciò, ad avviso di Hegel, è responsabile, però, non tanto il sistema politico in sé, quanto la perversione di quello economico capitalistico che, perseguendo il denaro e l’accumulo dello stesso nelle mani di pochi, tende a generare irrimediabilmente una massa di lavoratori che, per diverse ragioni, perdono il valore del proprio lavoro e i mezzi per la sussistenza, contestando in ultimo proprio la giustezza dell’ordinamento stesso. Da qui l’insinuarsi nei meccanismi della società di un certo sentimento dell’ingiustizia subita, un sentimento che pur non elevandosi a un piano di consapevolezza positiva – ovvero rimanendo al livello di intelletto negativo – mina le fondamenta lo Stato. La plebe compare insomma nelle lezioni jenesi «nelle vesti del lavoratore di fabbrica» (p. 45) ed esprime, fin dal suo sorgere, una peculiare dinamica di sottrazione alla dialettica del riconoscimento che, in teoria, dovrebbe segnare l’intero sviluppo della società moderna. Nello Stato, infatti, il riconoscimento reciproco equivale a un’intersoggettività compiuta, ovvero a un reciproco riconoscersi come membri di una comunità che persegue un fine e un bene comune. Al lavoratore di fabbrica è precluso quasi ontologicamente l’accesso alla dialettica del riconoscimento, anzi, come osserva la Fabiani, gli è forclusa, cioè «preclusa ex ante la possibilità di essere riconosciuta» (p. 46). Non giungendo, infatti, nemmeno alla figura della coscienza, la plebe non attraverserebbe nessuno degli stadi successivi. 

Ora, è bene annotare che il saggio della Fabiani tende, a mio avviso consapevolmente e ragionevolmente, a intrecciare di continuo il livello di analisi politico-economica a quello logico e teoretica. Ne è prova, ad esempio, l’esposizione relativa alla posizione assunta da Hegel rispetto all’ottimismo smithiano, un ottimismo sostanzialmente condiviso sul piano economico – sebbene a suo parere siano necessari «interventi “invisibili” del potere politico» (p. 61) – ma riconosciuto al medesimo tempo come fautore di «incompatibilità interne al sistema della suddivisione del lavoro» (p. 58). E se sul piano politico tali incompatibilità saranno intese come cifra di «un organismo potenzialmente malato» (ibidem), dal punto di vista teoretico getteranno luce sull’aporia che s’innesta nel nesso plebe/riconoscimento. In effetti, proprio la mancanza di un’auspicabile condivisione del bene comune, possibilità ancora una volta forclusa alla plebe a causa della sua natura prima all’interno di un sistema politico tratteggiato come natura seconda, rende sostanzialmente la plebe una non individualità etica e teoretica, ovvero una non soggettività che, proprio perciò, è del tutto incapace di inserirsi nella logica del riconoscimento e dunque dell’intersoggettività. « […]Chiunque sia escluso da questo processo di reificazione del nesso sociale», spiega Fabiani, «non viene al dunque riconosciuto: i barbari esclusi dalla condivisione della medesima lingua in un popolo, il lavoratore di fabbrica espulso (disoccupazione tecnologica) dal processo produttivo e dal mercato in genere […]» (p. 85). Sebbene, insomma, il tentativo hegeliano sia quello di salvaguardare l’individualità nel processo di socializzazione – contenendo le spinte violente della prima natura –  allo stesso tempo l’imporsi di un’economia liberista e capitalista introduce nel sistema dei meccanismi di violenza e brutalità che tanto somigliano allo stato di natura (cfr. pp. 101-102). 

Nella seconda parte del testo, la Fabiani delinea invece il tema della plebe nel contesto delle lezioni sulla Filosofia del diritto. Qui prende corpo, e la si vede agire nella concretezza della società, l’intuizione che aveva caratterizzato il nesso plebe/riconoscimento già negli anni di Jena. Spiegando come il sentimento plebeo dell’ingiustizia subita sia prettamente moderno, poiché «contro la natura nessuno può affermare un diritto, ma nella condizione di società la mancanza acquista subito la forma di un’ingiustizia» (p.125), Hegel propone delle possibili soluzioni  per ovviare al problema della povertà economica e della disoccupazione generata dall’economica liberista (carità, aumento delle occasioni di lavoro e colonizzazione). Tali soluzioni, tuttavia, lo conducono sempre innanzi a un cattivo infinito, quasi che la plebe non possa che generare dalla sua stessa negativa costituzione un altrettanto negativa destabilizzazione o dissoluzione. La plebe così com’è tratteggiata nel sistema hegeliano, annota alla fine del volume la nostra autrice, sebbene sia compresente al riconoscimento, poiché «aporeticamente, prodotti dallo stesso processo di socializzazione economico-politica che avviene tutta sul terreno del sistema dei bisogni», mostra una sostanziale incompatibilità con esso, ovvero con quel processo che sostenta lo sviluppo della società moderna. Sottratta, per destinazione e costituzione, alla dialettica della Anerkennung, la plebe è all’interno del sistema hegeliano non contraddizione, ché altrimenti ne determinerebbe in ultimo il fallimento – o semmai un suo possibile superamento –, ma vera e propria aporia che complica l’assetto razionale introducendovi l’instabile e negativo irrazionale. Insinuandosi come «serpe in seno» nelle divine maglie dello «Stato monarchico-costituzionale hegeliano» (p. 159) ne intacca certo l’assoluta idealità, rivelandone forse per converso la spietata concretezza. 

Si potrebbe dire che lo Hegel proposto nel bel saggio di Fabiani sia un filosofo più che moderno, contemporaneo, ovvero un pensatore che ha lasciato penetrare davvero l’irrazionale nel razionale, non arretrando di un solo passo dinnanzi all’aporia; oppure, maliziosamente, si potrebbe sospettare che con quest’astuta mossa l’idealista di Jena riveli ancora una volta la stoffa di mattatore dell’irrazionale, di colui che non tollerandone l’esistenza al di fuori della ragione lo riduce ad appendice muta e negativa di un sistema che, malgrado tutto, è completo e dunque compiuto. 

Fabiani, Carla Maria, Aporie del moderno. Riconoscimento e plebe nella Filosofia del diritto di G.W.F. Hegel, Lecce,Pensa MultiMedia,2011,pp.206, ISBN 978-88-823-872-6 

Indice del libro 

 Sigle
Nota filologica
Il significato e l’uso del termine Pöbel nei testi di Hegel
Introduzione
Der Pöbel und die Anerkennung
Capitolo 1
Il mondo economico a Jena (1803-1806) 
1. Filosofia dello spirito del 1803-1804
1. Che cos’è «coscienza» e che cos’è «spirito»
2. Lo spirito di un popolo = lo spirito degli individui 
3. L’Anerkennung  il linguaggio 
4. La natura economica dello spirito e la sua inquietudine
1. Filosofia dello spirito (1805-1806)
2.1 La notte del Sé, il linguaggio e il riconoscimento 
2.2 Lavoro astratto, denaro, antagonismo sociale e potere dello Stato 
2.3 L’organismo dello Stato e lo spirito degli Stände 
3. Conclusioni al primo capitolo 
Capitolo 2 
Il problema della plebe nella Filosofia del diritto 
1. Un cattivo infinito: del Pöbel nelle Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821)
2. Aspetti antropologici della plebe. Uno sguardo alla Fenomenologia dello spirito (1807) 
3. Il riconoscimento e l’aporia della plebe. Anerkennung, der Kampf um Anerkennung, Anerkanntsein 
Appendice
Il tema della plebe nella più recente letteratura critica. Una rassegna ragionata 

Bibliografia 

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