*Da: https://solidarity-us.org/pdfs/cadreschool/rbrenner.pdf https://traduzionimarxiste.wordpress.com
**Robert Brenner è professore di storia e direttore del
Center for Social Theory and Comparative History dell’UCLA
La differenza tra riforma e rivoluzione non è una
questione di programmi. In realtà il riformismo è incapace di ottenere
autonomamente le riforme. In questo testo del 1993, destinato ai quadri
dell’organizzazione Solidarity, Robert Brenner espone le ragioni sociologiche
di questo paradosso, traendone le conseguenze strategiche riguardo al caso
degli Stati Uniti. Il riformismo è l’ideologia spontanea di un determinato ceto
sociale: i funzionari sindacali e i politici socialdemocratici. Brenner
sostiene che la socialdemocrazia è una vera e propria “forma di vita”, la cui
riuscita non dipende dalle sconfitte o dalle vittorie della lotta di classe,
bensì dalle negoziazioni sindacali o dai risultati elettorali. Il compito dei
rivoluzionari non è combattere i “programmi riformisti” quanto opporsi a un
orientamento, interno alle lotte, che rende inevitabile la difesa dell’ordine
stabilito.
Mi è stato chiesto di parlare delle lezioni storiche da
trarre dalle rivoluzioni del XX secolo. Ma poiché il nostro principale
interesse si rivolge a insegnamenti che possano essere rilevanti per il XI
secolo, ho ritenuto più opportuno soffermarmi sulle esperienze delle riforme e
del riformismo. “Il riformismo”, infatti, è ben presente tra di noi, sebbene
raramente compaia sotto quest’etichetta, preferendo mostrarsi sotto una luce
più favorevole. Resta il fatto che si tratta del nostro principale concorrente
politico, è quindi necessario comprenderlo meglio. Per iniziare, è chiaro che
il tratto distintivo del riformismo non consiste nel suo obbiettivo di attuare
delle riforme. Rivoluzionari e riformisti mirano entrambi a delle riforme. In
effetti, la lotta per ottenere delle riforme rimane la principale
preoccupazione dei primi. I riformisti condividono, in buona parte, il nostro
programma, o perlomeno è ciò che affermano. Anch’essi sono a favore di salari
più alti, per la piena occupazione, uno stato sociale migliore, sindacati più
forti e una qualche forma di partito operaio.
Ora, se puntiamo a guadagnare i riformisti alla nostra
politica non vi perverremo giocando al rialzo rispetto alle proposte del loro
programma. Noi non possiamo portare dalla nostra parte i riformisti che tramite
la nostra teoria (la nostra comprensione del mondo) e, ancora più importante,
il nostro metodo e la nostra pratica. Ciò che distingue il riformismo,
nell’azione quotidiana, è il suo metodo politico e la sua teoria, non il
programma. Schematicamente, i riformisti ritengono che anche se l’economia
capitalista porta in sé la tendenza verso la crisi, l’intervento dello stato
può aiutare il capitalismo a raggiungere la stabilità e la crescita a lungo
termine. D’altra parte, lo stato rappresenta per loro uno strumento che può
essere utilizzato da qualsiasi gruppo, compresa la classe operaia, per servire
i propri interessi.
Il metodo politico e la strategia del riformismo sono
conseguenza diretta di tali premesse. I lavoratori, le lavoratrici, gli
oppressi, possono, e dovrebbero, impegnarsi nella battaglia elettorale, al fine
di conquistare il controllo dello stato e assicurasi una legislazione che
regoli il capitalismo, e su questa base migliorare le proprie condizioni di
lavoro e, più in generale, il loro livello di vita.
La base materiale del riformismo
I marxisti hanno sempre contrapposto le loro teorie e
strategie a quelle dei riformisti. Tuttavia, i rivoluzionari hanno sempre
affermato che sia la teoria, che la pratica riformista, si comprendono
realmente a partire dalle forze sociali specifiche sulle quali il riformismo è
storicamente basato. In particolare, il riformismo può essere considerato una
razionalizzazione di bisogni e interessi dei responsabili sindacali e dei
politici, così come dei vertici di movimenti degli oppressi provenienti dalle
classi medie.
La distintiva base sociale del riformismo, però, non è
esclusivamente interessante dal punto di vista sociologico. Si tratta, infatti,
della chiave del paradosso che ha definito ostinatamente il riformismo sin
dalle sue origini come corrente interna ai partiti socialdemocratici
(socialismo evoluzionista) intorno al Novecento. Vale a dire: le forze sociali
che costituiscono il cuore del riformismo, nonché le loro organizzazioni, hanno
sempre adottato metodi politici (e teorie atte a giustificarli), i quali,
presto o tardi, hanno finito per impedire di raggiungere il loro stesso
obiettivo, ossia le riforme. Questo, in particolare, per quanto riguarda la via
elettorale-legislativa e le relazioni di lavoro regolate dalla mediazione dello
stato.
Il risultato è che, nel corso del Novecento, l’attuazione
delle riforme ha richiesto, non di rado, non solo la rottura, ma una
sistematica lotta, col riformismo organizzato, i suoi vertici e le sue
organizzazioni. Infatti, nell’ottenimento di tali riforme è stato necessario,
pressoché in ogni caso, adottare strategie e tattiche disapprovate dal
riformismo organizzato, poiché considerate una minaccia alla sua posizione
sociale e ai suoi interessi. Più specificamente: un’intensa azione di
massa, metodi illegali e la costruzione di crescenti legami di
solidarietà tra lavoratori sindacalizzati e non, occupati e disoccupati, ecc.
La visione riformista
La proposizione centrale della visione riformista del mondo
può essere così sintetizzata: benché la crisi è intrinseca all’economia
capitalista, quest’ultima è comunque suscettibile di regolazione da parte dello
stato. In altre parole, i riformisti hanno identificato, in vari modi, nella
lotta di classe non regolata la causa della crisi. Da qui l’asserzione che la
crisi capitalista può derivare da un eccessivo sfruttamento dei lavoratori da
parte dei capitalisti, al fine di aumentare i profitti, il che rappresenta un
problema per l’intero sistema, risultandone un minore potere d’acquisto da parte
dei lavoratori, impossibilitati a comperare parte dei beni da loro stessi
prodotti. Insufficienza della domanda alla base della “crisi di sottoconsumo”,
ne è un esempio (a detta dei teorici riformisti) la grande depressione degli
anni trenta.
D’altra parte, i riformisti hanno anche sostenuto che la
crisi può derivare da una “eccessiva” resistenza dei lavoratori all’oppressione
capitalista nei luoghi di lavoro. Bloccando l’introduzione di innovazioni
tecnologiche, rifiutando maggiori carichi di lavoro, i lavoratori ridurrebbero
la crescita della produttività. Ne consegue una crescita minore, minori
profitti, riduzione degli investimenti e, infine, una “crisi dell’offerta”,
come ad esempio, sempre a detta dei teorici riformisti, l’attuale declino
economico iniziato alla fine degli anni sessanta.
Secondo tale approccio, dato che le crisi sono il risultato
imprevisto di una lotta di classe non regolata, lo stato è in grado di
assicurare stabilità economica e crescita intervenendo per regolare sia la
distribuzione del reddito, sia le relazioni lavoro-capitale. Tutto ciò implica
che la lotta di classe non è realmente necessaria, non essendo, sul lungo
termine, nell’interesse dei capitalisti e degli stessi lavoratori, i quali
dovrebbero combinare i propri sforzi.
Lo stato come apparato neutrale
La teoria riformista dello stato è complementare alla sua
economia politica. In questa prospettiva, lo stato è un apparato di potere
autonomo, in principio neutrale, utilizzabile da chiunque. Ne consegue che i
lavoratori, e gli oppressi in generale, hanno la possibilità di guadagnarne il
controllo, col proposito di regolare l’economia in modo da raggiungere la
stabilità economica, la crescita e, su questa base, ottenere riforme capaci di
soddisfare i loro interessi materiali.
La strategia politica del riformismo è il portato logico
della sua visione dell’economia e dello stato. I lavoratori e gli oppressi
dovrebbero concentrare i loro sforzi nell’eleggere politici riformisti. Poiché
l’intervento dello stato, sotto governo riformista, può assicurare stabilità a
lungo termine e crescita, sia al capitale che al lavoro, non c’è ragione per
credere che i datori di lavoro si opporranno a un governo riformista.
Quest’ultimo sarà in grado di prevenire le crisi di sottoconsumo attuando
politiche fiscali redistributive, così come le crisi dell’offerta, tramite la
creazione di commissioni congiunte fra lavoratori e management, al fine di
aumentare la produttività. Sullo sfondo di un economia in crescita e sempre più
produttiva, lo stato si troverà nella condizione di aumentare la spesa per
servizi, regolando, contemporaneamente, la contrattazione collettiva, così da
assicurare l’equità verso tutte le parti.
Per i riformisti i lavoratori devono costantemente rimanere
organizzati e vigili, in particolare nei sindacati, pronti a muoversi contro
quei capitalisti restii a sottostare all’interesse comune: pronti ad entrare in
sciopero contro datori di lavoro che rifiutano la mediazione, o – nel peggiore
dei casi – a sollevarsi in massa contro coalizioni di capitalisti reazionari
intenzionati a sovvertire l’ordine democratico. Presumibilmente, battaglie di
questo genere devono rimanere subordinate all’azione elettorale e legislativa,
e divenire progressivamente meno frequenti, considerato che lo stato riformista
agirà nell’interesse non solo dei lavoratori ma anche dei datori di lavoro,
sebbene questi ultimi non ne saranno inizialmente consapevoli.
Una risposta politica al riformismo
I rivoluzionari hanno tradizionalmente rigettato il metodo
politico riformista di affidarsi al processo elettorale-legislativo, alle
negoziazioni collettive regolate dallo stato, per la semplice ragione che non
funziona. Fino a quando perdurano i rapporti di proprietà capitalistici lo
stato non può essere considerato un entità autonoma. Non perché lo stato sia
sempre sotto controllo diretto dei capitalisti (i governi socialdemocratici e
laburisti, per esempio, non sempre lo sono). Bensì perché chiunque controlli lo
stato è ferocemente limitato, in ciò che può fare, dalla necessita del profitto
capitalista, la quale, a lungo andare, e irriconciliabile con riforme attuate
nell’interesse della classe lavoratrice.
In una società capitalista non vi può essere crescita
economica senza investimenti, i capitalisti, d’altro canto, non investono a
meno di poter ottenere un profitto che ritengano adeguato. Dato che alti
livelli di occupazione, un welfare crescente nell’interesse dei lavoratori
(dipendente dalla tassazione), si fondano sulla crescita economica, anche i
governi impegnati nell’avanzamento degli interessi di lavoratori e sfruttati –
ad esempio governi socialdemocratici e laburisti – si ritrovano a dover fare
della redditività capitalista e della crescita economica la priorità. Il
vecchio detto “ciò che è buono per General Motors è buono per la nazione”
contiene, malauguratamente, un importante fondo di verità, perlomeno sinché
durano i rapporti di proprietà capitalistici.
Ovviamente non si vuole negare che i governi capitalisti non
attueranno mai delle riforme. Specialmente in periodi di espansione economica,
nei quali il tasso di redditività è alto, il capitale e lo stato sono ben
disposti ad accordare concessioni ai lavoratori e agli oppressi, nell’interesse
della continuità della produzione e dell’ordine sociale. Tuttavia, in tempi di
recessione, quando la redditività diminuisce e la competizione si intensifica,
il costo (tramite la tassazione) di simili provvedimenti può minacciare la
sopravvivenza delle aziende. In tali circostanze le riforme non sono garantite,
a meno di vigorose lotte nei nei luoghi di lavoro e nelle strade. Ancora, in
questi periodi, governi di ogni colore – rappresentativi del capitale o del
lavoro – nella misura in cui sono per il mantenimento dei rapporti di proprietà
capitalistici – finiscono per restaurare la redditività attraverso il taglio
dei salari e dello stato sociale nonché diminuendo le tasse ai capitalisti.
La centralità della teoria della crisi
Dovrebbe risultare evidente il motivo dell’importanza, per i
rivoluzionari, dell’asserzione che estesi periodi di crisi sono intrinseci al
capitalismo. Da questo punto di vista, la crisi deriva dalla fondamentale
natura anarchica del capitalismo, la quale porta ad una via di accumulazione
del capitale contraddittoria. Poiché per natura un economia capitalista opera
in maniera non pianificata, i governi non possono prevedere le crisi.
Questa non è la sede adatta per un estesa discussione sui
dibattiti circa le teorie della crisi. Ciò nonostante, posiamo segnalare che la
storia del capitalismo supporta la tesi antiriformista. Sin dalla fine del XIX
secolo, se non prima, quale che fosse la tipologia di governo al potere, a
lunghi periodi di espansione capitalista (1850-1870, 1890-1913, 1940-1970) sono
seguiti estesi periodi di depressione capitalista (1870-1890, 1919-1939, 1970
fino ai giorni nostri). Fra i recenti e fondamentali contributi di Ernest
Mandel vi è l’aver enfatizzato questo modo di sviluppo capitalista, attraverso
lunghe onde di espansione e depressione.
Durante i primi due decenni del dopoguerra la visione
riformista sembrava vittoriosa. Un’epoca di espansione senza precedenti
accompagnata – e apparentemente causata – dall’applicazione di misure
Keynesiane atte a sostenere la domanda, così come le crescenti spese dei
governi associate al welfare state. Tutte le economie capitaliste avanzate
hanno vissuto non solo una rapida crescita dei salari, ma anche una
significativa espansione del settore pubblico nell’interesse della classe
lavoratrice e degli oppressi.
Verso la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta
non pochi osservatori ritenevano che per assicurare migliori condizioni di vita
ai lavoratori si dovesse portare la “lotta di classe dentro lo stato”, vale a
dire favorire la vittoria elettorale dei partiti socialdemocratici e laburisti
(il Partito democratico negli Stati Uniti).
I due decenni successivi hanno invalidato completamente
questa prospettiva. Il declino della redditività ha innescato una lunga crisi
della crescita e degli investimenti. In tali condizioni, un governo riformista
dietro l’altro – il Partito laburista negli anni settanta, i partiti socialisti
francese e spagnolo negli ottanta, così come il Partito socialdemocratico
svedese – si sono ritrovati nell’impossibilità di riportare la prosperità
tramite gli abituali metodi dello stimolo della domanda, giungendo alla
conclusione che l’unica scelta consisteva nel ristabilire la redditività, unica
via per aumentare investimenti e crescita.
Risultato: i partiti riformisti al
potere non solo hanno fallito nel difendere i salari e le condizioni di vita
dei lavoratori dagli attacchi dei datori di lavoro, ma hanno intrapreso anche
una gravosa politica di austerità, finalizzata alla crescita della redditività
tramite i tagli al welfare e la riduzione del potere dei sindacati. Non
potrebbe esserci confutazione più definitiva delle teorie economiche riformiste
e della nozione dell’autonomia dello stato. Il fatto che lo stato non può
prevenire la crisi capitalista ne rivela la completa dipendenza dal capitale.
Perché il riformismo non può attuare le riforme
Rimane da chiedersi perché i partiti riformisti al potere
continuano a preservare i diritti di proprietà capitalisti e tentano di
ripristinare i profitti capitalisti. Perché, invece, non tentano di difendere
gli standard di lavoro e di vita dei lavoratori, se necessario con la lotta di
classe? Se un simile approccio dovesse portare i capitalisti ad astenersi
dall’investire o alla fuga di capitali, perché non hanno nazionalizzato le
industrie aprendo la via al socialismo? Siamo ritornati al paradosso del
riformismo. La risposta va cercata nelle specifiche forze sociali dominanti la
politica riformista: responsabili sindacali e politici socialdemocratici. Ciò
che distingue queste forze sociali è il fatto che, pur dipendendo la loro
esistenza da organizzazioni della classe lavoratrice, non sono parte integrante
di tale classe (1).
In particolare questa categoria sociale è disconnessa dai
luoghi di lavoro. La sua base materiale, il suo sostentamento, risiede nelle
organizzazioni sindacali e di partito. Non si tratta solo del fatto che i loro
salari dipendano da sindacati e partiti, questione comunque importante. Tali
organizzazioni definiscono l’intero modo di vita di questi individui – ciò che
fanno, chi incontrano – così come la loro carriera. Come conseguenza la loro
posizione materiale e sociale ha il suo fondamento in sindacati e partiti. Fino
a quando queste organizzazioni sono vitali essi possono contare su livelli di
vita stabili e su ragionevoli possibilità di carriera.
Il fossato che separa le forme di vita della base salariata
anche dall’ultimo dei responsabili sindacali è enorme. La posizione economica –
salari, benefit, condizioni di lavoro – dei comuni lavoratori dipende
direttamente dalla lotta di classe nel luogo di lavoro e nell’industria in
generale. Il successo della lotta di classe rappresenta l’unica via di difesa
dei loro standard di vita. L’esponente sindacale, viceversa, gode comunque di
una buona situazione a prescindere dalle sconfitte nella lotta di classe, fin
tanto che le organizzazioni sindacali sopravvivono. È vero che tale
sopravvivenza, sul lungo periodo, dipende dalla lotta di classe, ma questo
raramente è un fattore rilevante. Di gran lunga più importante è il fatto che,
a breve termine, specie in peridi di crisi della redditività, la lotta di
classe è la minaccia principale alla vita di tali organizzazioni.
Dato che la resistenza militante al capitale può provocare
la risposta di quest’ultimo e dello stato, risposta che minaccia le condizioni
finanziarie e l’esistenza stessa delle organizzazioni, i responsabili sindacali
cercano accuratamente di evitarla.
Dunque, sindacati e partiti riformisti,
storicamente, hanno tentato di respingere il capitale scendendovi a
compromessi. Hanno assicurato al capitale la loro accettazione del sistema di
proprietà capitalista e la priorità della redditività all’interno dell’impresa.
Allo stesso tempo, hanno fatto sì che i lavoratori, sia all’interno delle loro
organizzazioni che al di fuori, non adottassero forme di azione militanti,
illegali, di classe, che apparissero troppo minacciose al capitale e foriere di
reazioni violente.
Ora, nella misura in cui un aspro conflitto di
classe è stato escluso come mezzo per ottenere le riforme, i sindacalisti e i
politici parlamentari hanno considerato la via elettorale-legislativa come la
strategia politica fondamentale. Attraverso la mobilitazione passiva delle
campagne elettorali queste forze sperano di creare le condizioni per guadagnare
le riforme, evitando al contempo di irritare troppo il capitale.
Con questo non si vuole adottare la tesi assurda che i lavoratori sono sempre
pronti a gettarsi nella lotta, salvo essere trattenuti dalla miopia di
dirigenti traditori. In realtà, i lavoratori spesso sono altrettanto
conservatori dei loro dirigenti, se non di più. Il punto e che la base dei
salariati, a differenza dei responsabili sindacali e di partito, non ha modo di
difendere i propri interessi senza la lotta di classe. Non solo, nel momento in
cui i lavoratori decidono di agire attaccando la controparte, i funzionari
sindacali possono costituire un ostacolo alla lotta, tentando di deviarla o
farla deragliare. Ovviamente, sindacalisti e esponenti di partito non sono
sempre contrari alla lotta di classe, e a volte loro stessi ne accendono la
miccia. Semplicemente, però, data la loro posizione sociale, non si può fare
affidamento su di loro perché la lotta prosegua. Per quanto radicale possa
essere la loro rettorica, nessuna strategia può contare sull’assunto che essi
resistano.
Il fatto che non si possa dare per scontata la
partecipazione di funzionari sindacali e politici ala lotta di classe, poiché
hanno interessi materiali che sarebbero minacciati dal confronto coi datori di
lavoro, costituisce la giustificazione centrale della nostra strategia,
finalizzata alla costruzione di organizzazioni di base di massa, indipendenti
dai responsabili sindacali e politici (senza che ciò escluda la
collaborazione), così come di partiti di classe autonomi.
Il riformismo contemporaneo e l’unità
Comprendere il riformismo non è un mero esercizio
accademico: ha un effetto su ogni iniziativa politica che intraprendiamo. Lo si
può riscontrare, in particolare, sia nel compito strategico di unire le forze
antiriformiste in una organizzazione comune , sia in quello di favorire una
rottura dal Partito democratico. Oggi, come negli anni passati, la migliore
speranza per un raggruppamento (per quanto debole) delle forze di sinistra
viene da quegli individui e gruppi posizionati a sinistra del riformismo
ufficiale o in rottura con esso. Tuttavia, molti di questi soggetti, più o meno
esplicitamente, si identificano ancora con un approccio politico che,
grossolanamente, possiamo definire di “fronte popolare”.
Benché sia nato al di fuori della socialdemocrazia
organizzata, questo approccio considera il riformismo al livello di un vero e
proprio sistema. L’Internazionale comunista è stata la prima a promuovere
l’idea del fronte popolare nel 1935, come complemento della politica estera sovietica,
consistente nel perseguire un’alleanza con le potenze “liberal-capitaliste” al
fine della difesa contro l’espansionismo nazista (“sicurezza collettiva”). In
questo contesto i comunisti hanno avanzato, al livello internazionale, l’idea
che fosse possibile per la classe lavoratrice forgiare una vasta alleanza
interclassista, non solo con le classe media liberale, ma anche con una
frazione illuminata della classe capitalista, nell’interesse della democrazia,
delle libertà civili e delle riforme.
La base concettuale di questa prospettiva era che una parte
illuminata della classe capitalista preferisse l’ordine costituzionale a uno di
stampo autoritario. In aggiunta, questa parte della classe capitalista avrebbe
acconsentito a un maggiore intervento del governo, a più eguaglianza, così da
creare le condizioni per un regime liberale e salvaguardare la stabilità
sociale. Come altre dottrine riformiste l’approccio dei fronti popolari si
basa, in termini economici, su una teoria della crisi di tipo sottoconsumista.
Teoria che ha goduto di larga eco negli anni Trenta, sia nei circoli liberali
che in quelli radical-socialisti, rafforzandosi particolarmente con la
pubblicazione e divulgazione delle idee di Keynes. Negli Stati Uniti il fronte
popolare significava, implicitamente, l’ingresso nel Partito democratico.
Contenendo l’amministrazione Roosevelt alcuni elementi di natura indubbiamente
progressista, questa veniva considerata l’archetipo del capitalismo illuminato.
Inoltre, l’imperativo della collaborazione con i democratici era rafforzato
dall’ascesa del movimento dei lavoratori come forza crescente in tutto il
paese. In un primo momento i comunisti sono stati alla testa
dell’organizzazione del sindacato CIO, contribuendo al suo successo nel settore
automobilistico, grazie all’adozione, per un breve e decisivo periodo (1935 –
inizio 1937), di una strategia di mobilitazione delle masse. Strategia
affiancata, inizialmente, dal rifiuto da parte dei comunisti di sostenere
Roosevelt.
A partire dal 1937, tuttavia, subito dopo l’adozione della
strategia del fronte popolare, e l’implicito imperativo di non alienarsi
l’amministrazione Roosevelt, il Partito comunista si oppose ad una linea
militante (occupazioni, scioperi selvaggi), nell’interesse della classica
politica socialdemocratica di alleanza con l’ala sinistra dei sindacati
ufficiali. Una simile politica rappresentava una sconfessione dell’idea che i
funzionari sindacali rappresentino un distinto ceto sociale, un ceto pronto a
porre gli interessi delle proprie organizzazioni al di sopra di quelli della
base – un ipotesi, quest’ultima, centrale nella politica della sinistra del
movimento socialdemocratico negli ani precedenti la Prima guerra mondiale
(Luxembourg, Trotsky, ecc.), nonché della Terza internazionale ai tempi di
Lenin.
In questo modo i responsabili sindacali non venivano più
differenziati, in termini sociali, dalla base, ma distinti al loro
interno esclusivamente in base alla linea politica (sinistra, centro, destra).
Un approccio del tutto in linea con l’obiettivo strategico dei comunisti,
consistente nello spingere gli emergenti sindacati industriali ad entrare nel
Partito democratico. Naturalmente, la maggior parte dei rappresentanti
sindacali era ben disposta ad enfatizzare il proprio ruolo politico all’interno
dell’ala riformista del Partito democratico, specie in comparazione col loro
ruolo economico, assai più pericoloso, nell’organizzare i membri dei sindacati
nella lotta contro i padroni. La politica duale di alleanza con i
rappresentanti della sinistra all’interno dei sindacati e di impegno per le
riforme, tramite il mezzo elettorale-legislativo, dentro il Partito democratico
(possibilmente a fianco dei leader sindacali progressisti) mantiene, a
tutt’oggi, la sua attrattiva per la sinistra.
Una prospettiva di base e di massa
Nel corso degli anni settanta, all’interno dei sindacati, i
rappresentanti di tendenze confluite infine nel gruppo Solidarity si sono visti
obbligati a contrapporre l’idea del movimento di base e di massa, indipendente
dai responsabili sindacali, all’idea del fronte popolare supportata da molti a
sinistra, idea che implicava il sostegno alla leadership
“progressista” esistente. Ciò significava, in primo luogo, sostenere l’idea che
i dirigenti sindacali progressisti sarebbero stati costretti a spostarsi a
sinistra e opporsi ai datori di lavoro, se non altro per difendere le proprie
organizzazioni. I rivoluzionari sostenevano, al contrario, che data la violenza
dell’offensiva padronale i sindacalisti sarebbero stati, in maggioranza, disponibili
a fare concessioni così da evitare il confronto con i datori di lavoro. Lo
smantellamento, pezzo dopo pezzo, del movimento dei lavoratori poteva
continuare indefinitamente.
Quest’ultima prospettiva ha ricevuto più di una conferma,
senza che i dirigenti sindacali muovessero un dito, la portata delle
concessioni aveva raggiunto proporzioni disastrose, la sindacalizzazione
crollava dal 25-30% degli anni sessanta al 10-15% di oggi.
Inoltre, i rivoluzionari nel movimento sindacale dovevano
contrastare l’idea, tipica del fronte popolare, che i dirigenti sindacali
fossero “a sinistra della base”. Parlando con dei militanti della sinistra,
all’epoca, prima o poi, veniva fuori l’argomento che la base era politicamente
arretrata. Dopo tutto, molti sindacalisti “progressisti” si sono opposti
all’intervento degli Stati Uniti in America centrale (e altrove) con più
fermezza di molti iscritti della base, si sono schierati più saldamente per
l’estensione del welfare state, pronunciandosi, in alcuni casi, per un partito
dei lavoratori indipendente. La nostra risposta a simili argomenti consisteva
nel mostrare la contraddizione tra le dichiarazioni dei sindacalisti
“progressisti” nel campo della politica, dove la posta in gioco era bassa, con
ciò che erano realmente disposti a fare contro i padroni, laddove il rischio
era molto più concreto. È ben noto che al capo dell’IAM William Winpisinger
costava poco essere membro della Democratic Socialist Association (DSA) e
contemporaneamente rivendicare una visione socialdemocratica, specie su
questioni come la riconversione dell’economia, il servizio sanitario nazionale,
ecc.
Quando però si doveva affrontare il tema della lotta di
classe, Winpisinger non solo si è pronunciato chiaramente contro i Teamsters
per un sindacato democratico, ma ha mandato i suoi macchinisti a sfidare i
picchetti nel corso del cruciale sciopero del PATCO (i controllori di volo).
Nell’ultimo decennio molti militanti hanno rotto con
l’Unione Sovietica e con la Cina, aprendo alla possibilità di rivedere la loro
concezione del mondo. Questo non significa che si siano avvicinati alle nostre
posizioni, infatti, la loro strategia politica, quella del fronte popolare,
corrisponde a ciò che abbiamo definito riformismo socialdemocratico. Se
vogliamo convincere questi compagni dovremo dimostrare loro, sistematicamente e
in dettaglio, che la strategia del fronte popolare, consistente nel collaborare
con la “sinistra” dei sindacati e penetrare nel Partito democratico, è
controproducente.
Un azione politica indipendente
In certi momenti, nel corso della campagna elettorale,
importanti elementi all’interno della leadership del movimento dei neri, delle
donne e perfino del movimento dei lavoratori hanno proclamato la loro
preferenza per una valida alternativa politica al Partito democratico. Le loro
dichiarazioni d’intenti hanno fatto apparire il progetto di una forza politica
indipendente più concreto. Si tratta di soggetti ormai indispensabili ad
ogni sforzo di ricomposizione a sinistra dei democratici, per la semplice
ragione che la maggior parte dei neri, delle donne e dei militanti operai
guardano a loro in tema di direzione politica. Rimane da chiedersi quanto sia
seria la loro attitudine.
In un certo senso è ovvio come tutte queste forze abbiano
bisogno di un azione politica indipendente. Il Partito democratico, da tempo, è
ormai impegnato a ristabilire la redditività capitalista, sempre meno attento
agli interessi dei lavoratori, delle donne e delle minoranze oppresse. Esso sta
perdendo qualsiasi utilità per le dirigenze dei sindacati, dei neri e del
movimento femminile, le quali lavorano, dopo tutto, all’interno del partito per
ottenere qualcosa a favore dei membri delle loro organizzazioni.
I vertici ufficiali di tali organizzazioni, senza dubbio,
sarebbero contenti della presenza di un terzo partito. Ma è il paradosso frutto
dello strato sociale cui appartengono e della loro politica riformista a
renderli incapaci di creare le condizioni perché un simile partito emerga.
È difficile vedere come queste condizioni possano essere raggiunte, eccetto
attraverso la rivitalizzazione dei movimenti sociali, in particolare il
movimento dei lavoratori – la crescita della lotta militante all’interno del
movimento sindacale e fuori. Movimenti nuovi e dinamici possono fare da base
materiale, per così dire, alla trasformazione di una coscienza politica che
porti alla formazione di un terzo partito elettoralmente vincente. Tuttavia,
movimenti di questo tipo sono esattamente ciò che le dirigenze attuali temono
di suscitare.
D’altra parte, senza una rottura netta nell’attività e nella
coscienza dei movimenti di massa appare del tutto insensato, per le loro
leadership, rompere col Partito democratico. Questi soggetti
considerano molto seriamente la via elettorale come mezzo per ottenere
un guadagno a favore di coloro che rappresentano. E la condicio sine qua non
per ottenere qualcosa tramite elezioni è evidente: vincere. Senza vittoria
elettorale niente è possibile. Il problema è che, nel futuro prossimo, nessun
terzo partito ha reali possibilità di vincere. Il livello di coscienza politica
non è sufficientemente alto. Inoltre, i partiti al di fuori dei due
tradizionali schieramenti, democratico e repubblicano, sono particolarmente
svantaggiati a causa del sistema presidenziale. In tale situazione i leader del
movimento sindacale, dei neri e delle donne si trovano in un impasse: non
possono rompere col Partito democratico fin che non ci sono le condizioni per
la vittoria di un terzo partito; non possono, però, creare queste condizioni senza
rinunciare, per un periodo sostanziale, ai loro metodi stabiliti per ottenere
guadagni per via elettorale.
Non è niente affatto sorprendente che i più seri sostenitori di una rottura in
direzione di un terzo partito – in particolare nel movimento femminile – hanno
manifestato molto meno interesse per il “loro” partito del XXI secolo che per
le candidature democratiche di Carole Moseley Braun, Barbara Boxer, e anche
Diane Feinstein. Qualsiasi ipotesi di rinnovamento del movimento dei
lavoratori, dei movimenti sociali in generale e di tutta la sinistra, nonché
ogni progetto di costruzione di un nuovo partito alla sinistra dei democratici,
dipenderà dalla rottura – e dal confronto – con le forze sociali e politiche
costituenti la base del riformismo.
1) Per un esame sociologico e storico dettagliato di questo
argomento si veda The Paradox of Social Democracy: the American Case, in Mike
Davis, Fred Pfeil e Michael Sprinker, The Year Left: an American Socialist
Yearbook 1985. Vol. 1. Londres & New York: Verso. pp. 33-86
Link alla versione originale in inglese Solidarity e
alla traduzione in francese Periode
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