venerdì 15 luglio 2016

Il paradosso del riformismo (1993)*- Robert Brenner**

**Robert Brenner è professore di storia e direttore del Center for Social Theory and Comparative History dell’UCLA 

La differenza tra riforma e rivoluzione non è una questione di programmi. In realtà il riformismo è incapace di ottenere autonomamente le riforme. In questo testo del 1993, destinato ai quadri dell’organizzazione Solidarity, Robert Brenner espone le ragioni sociologiche di questo paradosso, traendone le conseguenze strategiche riguardo al caso degli Stati Uniti. Il riformismo è l’ideologia spontanea di un determinato ceto sociale: i funzionari sindacali e i politici socialdemocratici. Brenner sostiene che la socialdemocrazia è una vera e propria “forma di vita”, la cui riuscita non dipende dalle sconfitte o dalle vittorie della lotta di classe, bensì dalle negoziazioni sindacali o dai risultati elettorali. Il compito dei rivoluzionari non è combattere i “programmi riformisti” quanto opporsi a un orientamento, interno alle lotte, che rende inevitabile la difesa dell’ordine stabilito.

Mi è stato chiesto di parlare delle lezioni storiche da trarre dalle rivoluzioni del XX secolo. Ma poiché il nostro principale interesse si rivolge a insegnamenti che possano essere rilevanti per il XI secolo, ho ritenuto più opportuno soffermarmi sulle esperienze delle riforme e del riformismo. “Il riformismo”, infatti, è ben presente tra di noi, sebbene raramente compaia sotto quest’etichetta, preferendo mostrarsi sotto una luce più favorevole. Resta il fatto che si tratta del nostro principale concorrente politico, è quindi necessario comprenderlo meglio. Per iniziare, è chiaro che il tratto distintivo del riformismo non consiste nel suo obbiettivo di attuare delle riforme. Rivoluzionari e riformisti mirano entrambi a delle riforme. In effetti, la lotta per ottenere delle riforme rimane la principale preoccupazione dei primi. I riformisti condividono, in buona parte, il nostro programma, o perlomeno è ciò che affermano. Anch’essi sono a favore di salari più alti, per la piena occupazione, uno stato sociale migliore, sindacati più forti e  una qualche forma di partito operaio.

Ora, se puntiamo a guadagnare i riformisti alla nostra politica non vi perverremo giocando al rialzo rispetto alle proposte del loro programma. Noi non possiamo portare dalla nostra parte i riformisti che tramite la nostra teoria (la nostra comprensione del mondo) e, ancora più importante, il nostro metodo e la nostra pratica. Ciò che distingue il riformismo, nell’azione quotidiana, è il suo metodo politico e la sua teoria, non il programma. Schematicamente, i riformisti ritengono che anche se l’economia capitalista porta in sé la tendenza verso la crisi, l’intervento dello stato può aiutare il capitalismo a raggiungere la stabilità e la crescita a lungo termine. D’altra parte, lo stato rappresenta per loro uno strumento che può essere utilizzato da qualsiasi gruppo, compresa la classe operaia, per servire i propri interessi.

Il metodo politico e la strategia del riformismo sono conseguenza diretta di tali premesse. I lavoratori, le lavoratrici, gli oppressi, possono, e dovrebbero, impegnarsi nella battaglia elettorale, al fine di conquistare il controllo dello stato e assicurasi una legislazione che regoli il capitalismo, e su questa base migliorare le proprie condizioni di lavoro e, più in generale, il loro livello di vita.

La base materiale del riformismo

I marxisti hanno sempre contrapposto le loro teorie e strategie a quelle dei riformisti. Tuttavia,  i rivoluzionari hanno sempre affermato che sia la teoria, che la pratica riformista, si comprendono realmente a partire dalle forze sociali specifiche sulle quali il riformismo è storicamente basato. In particolare, il riformismo può essere considerato una razionalizzazione di bisogni e interessi dei responsabili sindacali e dei politici, così come dei vertici di movimenti degli oppressi provenienti dalle classi medie.

La distintiva base sociale del riformismo, però, non è esclusivamente interessante dal punto di vista sociologico. Si tratta, infatti, della chiave del paradosso che ha definito ostinatamente il riformismo sin dalle sue origini come corrente interna ai partiti socialdemocratici (socialismo evoluzionista) intorno al Novecento. Vale a dire: le forze sociali che costituiscono il cuore del riformismo, nonché le loro organizzazioni, hanno sempre adottato metodi politici (e teorie atte a giustificarli), i quali, presto o tardi, hanno finito per impedire di raggiungere il loro stesso obiettivo, ossia le riforme. Questo, in particolare, per quanto riguarda la via elettorale-legislativa e le relazioni di lavoro regolate dalla mediazione dello stato.

Il risultato è che, nel corso del Novecento, l’attuazione delle riforme ha richiesto, non di rado, non solo la rottura, ma una sistematica lotta, col riformismo organizzato, i suoi vertici e le sue organizzazioni. Infatti, nell’ottenimento di tali riforme è stato necessario, pressoché in ogni caso, adottare strategie e tattiche disapprovate dal riformismo organizzato, poiché considerate una minaccia alla sua posizione sociale e ai suoi interessi. Più specificamente: un’intensa azione di massa, metodi illegali  e la costruzione di crescenti legami di solidarietà tra lavoratori sindacalizzati e non, occupati e disoccupati, ecc.

La visione riformista

La proposizione centrale della visione riformista del mondo può essere così sintetizzata: benché la crisi è intrinseca all’economia capitalista, quest’ultima è comunque suscettibile di regolazione da parte dello stato. In altre parole, i riformisti hanno identificato, in vari modi, nella lotta di classe non regolata la causa della crisi. Da qui l’asserzione che la crisi capitalista può derivare da un eccessivo sfruttamento dei lavoratori da parte dei capitalisti, al fine di aumentare i profitti, il che rappresenta un problema per l’intero sistema, risultandone un minore potere d’acquisto da parte dei lavoratori, impossibilitati a comperare parte dei beni da loro stessi prodotti. Insufficienza della domanda alla base della “crisi di sottoconsumo”, ne è un esempio (a detta dei teorici riformisti) la grande depressione degli anni trenta.

D’altra parte, i riformisti hanno anche sostenuto che la crisi può derivare da una “eccessiva” resistenza dei lavoratori all’oppressione capitalista nei luoghi di lavoro. Bloccando l’introduzione di innovazioni tecnologiche, rifiutando maggiori carichi di lavoro, i lavoratori ridurrebbero la crescita della produttività. Ne consegue una crescita minore, minori profitti, riduzione degli investimenti e, infine, una “crisi dell’offerta”, come ad esempio, sempre a detta dei teorici riformisti, l’attuale declino economico iniziato alla fine degli anni sessanta.

Secondo tale approccio, dato che le crisi sono il risultato imprevisto di una lotta di classe non regolata, lo stato è in grado di assicurare stabilità economica e crescita intervenendo per regolare sia la distribuzione del reddito, sia le relazioni lavoro-capitale. Tutto ciò implica che la lotta di classe non è realmente necessaria, non essendo, sul lungo termine, nell’interesse dei capitalisti e degli stessi lavoratori, i quali dovrebbero combinare i propri sforzi.

Lo stato come apparato neutrale

La teoria riformista dello stato è complementare alla sua economia politica. In questa prospettiva, lo stato è un apparato di potere autonomo, in principio neutrale, utilizzabile da chiunque. Ne consegue che i lavoratori, e gli oppressi in generale, hanno la possibilità di guadagnarne il controllo, col proposito di regolare l’economia in modo da raggiungere la stabilità economica, la crescita e, su questa base, ottenere riforme capaci di soddisfare i loro interessi materiali.

La strategia politica del riformismo è il portato logico della sua visione dell’economia e dello stato. I lavoratori e gli oppressi dovrebbero concentrare i loro sforzi nell’eleggere politici riformisti. Poiché l’intervento dello stato, sotto governo riformista, può assicurare stabilità a lungo termine e crescita, sia al capitale che al lavoro, non c’è ragione per credere che i datori di lavoro si opporranno a un governo riformista. Quest’ultimo sarà in grado di prevenire le crisi di sottoconsumo attuando politiche fiscali redistributive, così come le crisi dell’offerta, tramite la creazione di commissioni congiunte fra lavoratori e management, al fine di aumentare la produttività. Sullo sfondo di un economia in crescita e sempre più produttiva, lo stato si troverà nella condizione di aumentare la spesa per servizi, regolando, contemporaneamente, la contrattazione collettiva, così da assicurare l’equità verso tutte le parti.

Per i riformisti i lavoratori devono costantemente rimanere organizzati e vigili, in particolare nei sindacati, pronti a muoversi contro quei capitalisti restii a sottostare all’interesse comune: pronti ad entrare in sciopero contro datori di lavoro che rifiutano la mediazione, o – nel peggiore dei casi – a sollevarsi in massa contro coalizioni di capitalisti reazionari intenzionati a sovvertire l’ordine democratico. Presumibilmente, battaglie di questo genere devono rimanere subordinate all’azione elettorale e legislativa, e divenire progressivamente meno frequenti, considerato che lo stato riformista agirà nell’interesse non solo dei lavoratori ma anche dei datori di lavoro, sebbene questi ultimi non ne saranno inizialmente consapevoli.

Una risposta politica al riformismo

I rivoluzionari hanno tradizionalmente rigettato il metodo politico riformista di affidarsi al processo elettorale-legislativo, alle negoziazioni collettive regolate dallo stato, per la semplice ragione che non funziona. Fino a quando perdurano i rapporti di proprietà capitalistici lo stato non può essere considerato un entità autonoma. Non perché lo stato sia sempre sotto controllo diretto dei capitalisti (i governi socialdemocratici e laburisti, per esempio, non sempre lo sono). Bensì perché chiunque controlli lo stato è ferocemente limitato, in ciò che può fare, dalla necessita del profitto capitalista, la quale, a lungo andare, e irriconciliabile con riforme attuate nell’interesse della classe lavoratrice.

In una società capitalista non vi può essere crescita economica senza investimenti, i capitalisti, d’altro canto, non investono a meno di poter ottenere un profitto che ritengano adeguato. Dato che alti livelli di occupazione, un welfare crescente nell’interesse dei lavoratori (dipendente dalla tassazione), si fondano sulla crescita economica, anche i governi impegnati nell’avanzamento degli interessi di lavoratori e sfruttati – ad esempio governi socialdemocratici e laburisti – si ritrovano a dover fare della redditività capitalista e della crescita economica la priorità. Il vecchio detto “ciò che è buono per General Motors è buono per la nazione” contiene, malauguratamente, un importante fondo di verità, perlomeno sinché durano i rapporti di proprietà capitalistici.

Ovviamente non si vuole negare che i governi capitalisti non attueranno mai delle riforme. Specialmente in periodi di espansione economica, nei quali il tasso di redditività è alto, il capitale e lo stato sono ben disposti ad accordare concessioni ai lavoratori e agli oppressi, nell’interesse della continuità della produzione e dell’ordine sociale. Tuttavia, in tempi di recessione, quando la redditività diminuisce e la competizione si intensifica, il costo (tramite la tassazione) di simili provvedimenti può minacciare la sopravvivenza delle aziende. In tali circostanze le riforme non sono garantite, a meno di vigorose lotte nei nei luoghi di lavoro e nelle strade. Ancora, in questi periodi, governi di ogni colore – rappresentativi del capitale o del lavoro – nella misura in cui sono per il mantenimento dei rapporti di proprietà capitalistici – finiscono per restaurare la redditività attraverso il taglio dei salari e dello stato sociale nonché diminuendo le tasse ai capitalisti.

La centralità della teoria della crisi

Dovrebbe risultare evidente il motivo dell’importanza, per i rivoluzionari, dell’asserzione che estesi periodi di crisi sono intrinseci al capitalismo. Da questo punto di vista, la crisi deriva dalla fondamentale natura anarchica del capitalismo, la quale porta ad una via di accumulazione del capitale contraddittoria. Poiché per natura un economia capitalista opera in maniera non pianificata, i governi non possono prevedere le crisi.

Questa non è la sede adatta per un estesa discussione sui dibattiti circa le teorie della crisi. Ciò nonostante, posiamo segnalare che la storia del capitalismo supporta la tesi antiriformista. Sin dalla fine del XIX secolo, se non prima, quale che fosse la tipologia di governo al potere, a lunghi periodi di espansione capitalista (1850-1870, 1890-1913, 1940-1970) sono seguiti estesi periodi di depressione capitalista (1870-1890, 1919-1939, 1970 fino ai giorni nostri). Fra i recenti e fondamentali contributi di Ernest Mandel vi è l’aver enfatizzato questo modo di sviluppo capitalista, attraverso lunghe onde di espansione e depressione.

Durante i primi due decenni del dopoguerra la visione riformista sembrava vittoriosa. Un’epoca di espansione senza precedenti accompagnata – e apparentemente causata – dall’applicazione di misure Keynesiane atte a sostenere la domanda, così come le crescenti spese dei governi associate al welfare state. Tutte le economie capitaliste avanzate hanno vissuto non solo una rapida crescita dei salari, ma anche una significativa espansione del settore pubblico nell’interesse della classe lavoratrice e degli oppressi.

Verso la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta non pochi osservatori ritenevano che per assicurare migliori condizioni di vita ai lavoratori si dovesse portare la “lotta di classe dentro lo stato”, vale a dire favorire la vittoria elettorale dei partiti socialdemocratici e laburisti (il Partito democratico negli Stati Uniti).

I due decenni successivi hanno invalidato completamente questa prospettiva. Il declino della redditività ha innescato una lunga crisi della crescita e degli investimenti. In tali condizioni, un governo riformista dietro l’altro – il Partito laburista negli anni settanta, i partiti socialisti francese e spagnolo negli ottanta, così come il Partito socialdemocratico svedese – si sono ritrovati nell’impossibilità di riportare la prosperità tramite gli abituali metodi dello stimolo della domanda, giungendo alla conclusione che l’unica scelta consisteva nel ristabilire la redditività, unica via per aumentare investimenti e crescita. 

Risultato: i partiti riformisti al potere non solo hanno fallito nel difendere i salari e le condizioni di vita dei lavoratori dagli attacchi dei datori di lavoro, ma hanno intrapreso anche una gravosa politica di austerità, finalizzata alla crescita della redditività tramite i tagli al welfare e la riduzione del potere dei sindacati. Non potrebbe esserci confutazione più definitiva delle teorie economiche riformiste e della nozione dell’autonomia dello stato. Il fatto che lo stato non può prevenire la crisi capitalista ne rivela la completa dipendenza dal capitale.

Perché il riformismo non può attuare le riforme

Rimane da chiedersi perché i partiti riformisti al potere continuano a preservare i diritti di proprietà capitalisti e tentano di ripristinare i profitti capitalisti. Perché, invece, non tentano di difendere gli standard di lavoro e di vita dei lavoratori, se necessario con la lotta di classe? Se un simile approccio dovesse portare i capitalisti ad astenersi dall’investire o alla fuga di capitali, perché non hanno nazionalizzato le industrie aprendo la via al socialismo? Siamo ritornati al paradosso del riformismo. La risposta va cercata nelle specifiche forze sociali dominanti la politica riformista: responsabili sindacali e politici socialdemocratici. Ciò che distingue queste forze sociali è il fatto che, pur dipendendo la loro esistenza da organizzazioni della classe lavoratrice, non sono parte integrante di tale classe (1).
In particolare questa categoria sociale è disconnessa dai luoghi di lavoro. La sua base materiale, il suo sostentamento, risiede nelle organizzazioni sindacali e di partito. Non si tratta solo del fatto che i loro salari dipendano da sindacati e partiti, questione comunque importante. Tali organizzazioni definiscono l’intero modo di vita di questi individui – ciò che fanno, chi incontrano – così come la loro carriera. Come conseguenza la loro posizione materiale e sociale ha il suo fondamento in sindacati e partiti. Fino a quando queste organizzazioni sono vitali essi possono contare su livelli di vita stabili e su ragionevoli possibilità di carriera.

Il fossato che separa le forme di vita della base salariata anche dall’ultimo dei responsabili sindacali è enorme. La posizione economica – salari, benefit, condizioni di lavoro – dei comuni lavoratori dipende direttamente dalla lotta di classe nel luogo di lavoro e nell’industria in generale. Il successo della lotta di classe rappresenta l’unica via di difesa dei loro standard di vita. L’esponente sindacale, viceversa, gode comunque di una buona situazione a prescindere dalle sconfitte nella lotta di classe, fin tanto che le organizzazioni sindacali sopravvivono. È vero che tale sopravvivenza, sul lungo periodo, dipende dalla lotta di classe, ma questo raramente è un fattore rilevante. Di gran lunga più importante è il fatto che, a breve termine, specie in peridi di crisi della redditività, la lotta di classe è la minaccia principale alla vita di tali organizzazioni.

Dato che la resistenza militante al capitale può provocare la risposta di quest’ultimo e dello stato, risposta che minaccia le condizioni finanziarie e l’esistenza stessa delle organizzazioni, i responsabili sindacali cercano accuratamente di evitarla. 
Dunque, sindacati e partiti riformisti, storicamente, hanno tentato di respingere il capitale scendendovi a compromessi. Hanno assicurato al capitale la loro accettazione del sistema di proprietà capitalista e la priorità della redditività all’interno dell’impresa. Allo stesso tempo, hanno fatto sì che i lavoratori, sia all’interno delle loro organizzazioni che al di fuori, non adottassero forme di azione militanti, illegali, di classe, che apparissero troppo minacciose al capitale e foriere di reazioni violente.

Ora, nella misura in cui un aspro conflitto di classe è stato escluso come mezzo per ottenere le riforme, i sindacalisti e i politici parlamentari hanno considerato la via elettorale-legislativa come la strategia politica fondamentale. Attraverso la mobilitazione passiva delle campagne elettorali queste forze sperano di creare le condizioni per guadagnare le riforme, evitando al contempo di irritare troppo il capitale.
Con questo non si vuole adottare la tesi assurda che i lavoratori sono sempre pronti a gettarsi nella lotta, salvo essere trattenuti dalla miopia di dirigenti traditori. In realtà, i lavoratori spesso sono altrettanto conservatori dei loro dirigenti, se non di più. Il punto e che la base dei salariati, a differenza dei responsabili sindacali e di partito, non ha modo di difendere i propri interessi senza la lotta di classe. Non solo, nel momento in cui i lavoratori decidono di agire attaccando la controparte, i funzionari sindacali possono costituire un ostacolo alla lotta, tentando di deviarla o farla deragliare. Ovviamente, sindacalisti e esponenti di partito non sono sempre contrari alla lotta di classe, e a volte loro stessi ne accendono la miccia. Semplicemente, però, data la loro posizione sociale, non si può fare affidamento su di loro perché la lotta prosegua. Per quanto radicale possa essere la loro rettorica, nessuna strategia può contare sull’assunto che essi resistano.

Il fatto che non si possa dare per scontata la partecipazione di funzionari sindacali e politici ala lotta di classe, poiché hanno interessi materiali che sarebbero minacciati dal confronto coi datori di lavoro, costituisce la giustificazione centrale della nostra strategia, finalizzata alla costruzione di organizzazioni di base di massa, indipendenti dai responsabili sindacali e politici (senza che ciò escluda la collaborazione), così come di partiti di classe autonomi.

Il riformismo contemporaneo e l’unità

Comprendere il riformismo non è un mero esercizio accademico: ha un effetto su ogni iniziativa politica che intraprendiamo. Lo si può riscontrare, in particolare, sia nel compito strategico di unire le forze antiriformiste in una organizzazione comune , sia in quello di favorire una rottura dal Partito democratico. Oggi, come negli anni passati, la migliore speranza per un raggruppamento (per quanto debole) delle forze di sinistra viene da quegli individui e gruppi posizionati a sinistra del riformismo ufficiale o in rottura con esso. Tuttavia, molti di questi soggetti, più o meno esplicitamente, si identificano ancora con un approccio politico che, grossolanamente, possiamo definire di “fronte popolare”.

Benché sia nato al di fuori della socialdemocrazia organizzata, questo approccio considera il riformismo al livello di un vero e proprio sistema. L’Internazionale comunista è stata la prima a promuovere l’idea del fronte popolare nel 1935, come complemento della politica estera sovietica, consistente nel perseguire un’alleanza con le potenze “liberal-capitaliste” al fine della difesa contro l’espansionismo nazista (“sicurezza collettiva”). In questo contesto i comunisti hanno avanzato, al livello internazionale, l’idea che fosse possibile per la classe lavoratrice forgiare una vasta alleanza interclassista, non solo con le classe media liberale, ma anche con una frazione illuminata della classe capitalista, nell’interesse della democrazia, delle libertà civili e delle riforme.

La base concettuale di questa prospettiva era che una parte illuminata della classe capitalista preferisse l’ordine costituzionale a uno di stampo autoritario. In aggiunta, questa parte della classe capitalista avrebbe acconsentito a un maggiore intervento del governo, a più eguaglianza, così da creare le condizioni per un regime liberale e salvaguardare la stabilità sociale. Come altre dottrine riformiste l’approccio dei fronti popolari si basa, in termini economici, su una teoria della crisi di tipo sottoconsumista. Teoria che ha goduto di larga eco negli anni Trenta, sia nei circoli liberali che in quelli radical-socialisti, rafforzandosi particolarmente con la pubblicazione e divulgazione delle idee di Keynes. Negli Stati Uniti il fronte popolare significava, implicitamente, l’ingresso nel Partito democratico. Contenendo l’amministrazione Roosevelt alcuni elementi di natura indubbiamente progressista, questa veniva considerata l’archetipo del capitalismo illuminato. Inoltre, l’imperativo della collaborazione con i democratici era rafforzato dall’ascesa del movimento dei lavoratori come forza crescente in tutto il paese. In un primo momento i comunisti sono stati alla testa dell’organizzazione del sindacato CIO, contribuendo al suo successo nel settore automobilistico, grazie all’adozione, per un breve e decisivo periodo (1935 – inizio 1937), di una strategia di mobilitazione delle masse. Strategia affiancata, inizialmente, dal rifiuto da parte dei comunisti di sostenere Roosevelt.

A partire dal 1937, tuttavia, subito dopo l’adozione della strategia del fronte popolare, e l’implicito imperativo di non alienarsi l’amministrazione Roosevelt, il Partito comunista si oppose ad una linea militante (occupazioni, scioperi selvaggi), nell’interesse della classica politica socialdemocratica di alleanza con l’ala sinistra dei sindacati ufficiali. Una simile politica rappresentava una sconfessione dell’idea che i funzionari sindacali rappresentino un distinto ceto sociale, un ceto pronto a porre gli interessi delle proprie organizzazioni al di sopra di quelli della base – un ipotesi, quest’ultima, centrale nella politica della sinistra del movimento socialdemocratico negli ani precedenti la Prima guerra mondiale (Luxembourg, Trotsky, ecc.), nonché della Terza internazionale ai tempi di Lenin.

In questo modo i responsabili sindacali non venivano più differenziati, in termini sociali, dalla base, ma  distinti al loro interno esclusivamente in base alla linea politica (sinistra, centro, destra). Un approccio del tutto in linea con l’obiettivo strategico dei comunisti, consistente nello spingere gli emergenti sindacati industriali ad entrare nel Partito democratico. Naturalmente, la maggior parte dei rappresentanti sindacali era ben disposta ad enfatizzare il proprio ruolo politico all’interno dell’ala riformista del Partito democratico, specie in comparazione col loro ruolo economico, assai più pericoloso, nell’organizzare i membri dei sindacati nella lotta contro i padroni. La politica duale di alleanza con i rappresentanti della sinistra all’interno dei sindacati e di impegno per le riforme, tramite il mezzo elettorale-legislativo, dentro il Partito democratico (possibilmente a fianco dei leader sindacali progressisti) mantiene, a tutt’oggi, la sua attrattiva per la sinistra.

Una prospettiva di base e di massa

Nel corso degli anni settanta, all’interno dei sindacati, i rappresentanti di tendenze confluite infine nel gruppo Solidarity si sono visti obbligati a contrapporre l’idea del movimento di base e di massa, indipendente dai responsabili sindacali, all’idea del fronte popolare supportata da molti a sinistra, idea che implicava il sostegno alla leadership “progressista” esistente. Ciò significava, in primo luogo, sostenere l’idea che i dirigenti sindacali progressisti sarebbero stati costretti a spostarsi a sinistra e opporsi ai datori di lavoro, se non altro per difendere le proprie organizzazioni. I rivoluzionari sostenevano, al contrario, che data la violenza dell’offensiva padronale i sindacalisti sarebbero stati, in maggioranza, disponibili a fare concessioni così da evitare il confronto con i datori di lavoro. Lo smantellamento, pezzo dopo pezzo, del movimento dei lavoratori poteva continuare indefinitamente.

Quest’ultima prospettiva ha ricevuto più di una conferma, senza che i dirigenti sindacali muovessero un dito, la portata delle concessioni aveva raggiunto proporzioni disastrose, la sindacalizzazione crollava dal 25-30% degli anni sessanta al 10-15% di oggi.

Inoltre, i rivoluzionari nel movimento sindacale dovevano contrastare l’idea, tipica del fronte popolare, che i dirigenti sindacali fossero “a sinistra della base”. Parlando con dei militanti della sinistra, all’epoca, prima o poi, veniva fuori l’argomento che la base era politicamente arretrata. Dopo tutto, molti sindacalisti “progressisti” si sono opposti all’intervento degli Stati Uniti in America centrale (e altrove) con più fermezza di molti iscritti della base, si sono schierati più saldamente per l’estensione del welfare state, pronunciandosi, in alcuni casi, per un partito dei lavoratori indipendente. La nostra risposta a simili argomenti consisteva nel mostrare la contraddizione tra le dichiarazioni dei sindacalisti “progressisti” nel campo della politica, dove la posta in gioco era bassa, con ciò che erano realmente disposti a fare contro i padroni, laddove il rischio era molto più concreto. È ben noto che al capo dell’IAM William Winpisinger costava poco essere membro della Democratic Socialist Association (DSA) e contemporaneamente rivendicare una visione socialdemocratica, specie su questioni come la riconversione dell’economia, il servizio sanitario nazionale, ecc.

Quando però si doveva affrontare il tema della lotta di classe, Winpisinger non solo si è pronunciato chiaramente contro i Teamsters per un sindacato democratico, ma ha mandato i suoi macchinisti a sfidare i picchetti nel corso del cruciale sciopero del PATCO (i controllori di volo).

Nell’ultimo decennio molti militanti hanno rotto con l’Unione Sovietica e con la Cina, aprendo alla possibilità di rivedere la loro concezione del mondo. Questo non significa che si siano avvicinati alle nostre posizioni, infatti, la loro strategia politica, quella del fronte popolare, corrisponde a ciò che abbiamo definito riformismo socialdemocratico. Se vogliamo convincere questi compagni dovremo dimostrare loro, sistematicamente e in dettaglio, che la strategia del fronte popolare, consistente nel collaborare con la “sinistra” dei sindacati e penetrare nel Partito democratico, è controproducente.

Un azione politica indipendente

In certi momenti, nel corso della campagna elettorale, importanti elementi all’interno della leadership del movimento dei neri, delle donne e perfino del movimento dei lavoratori hanno proclamato la loro preferenza per una valida alternativa politica al Partito democratico. Le loro dichiarazioni d’intenti hanno fatto apparire il progetto di una forza politica indipendente più concreto. Si tratta di soggetti ormai indispensabili ad ogni sforzo di ricomposizione a sinistra dei democratici, per la semplice ragione che la maggior parte dei neri, delle donne e dei militanti operai guardano a loro in tema di direzione politica. Rimane da chiedersi quanto sia seria la loro attitudine.

In un certo senso è ovvio come tutte queste forze abbiano bisogno di un azione politica indipendente. Il Partito democratico, da tempo, è ormai impegnato a ristabilire la redditività capitalista, sempre meno attento agli interessi dei lavoratori, delle donne e delle minoranze oppresse. Esso sta perdendo qualsiasi utilità per le dirigenze dei sindacati, dei neri e del movimento femminile, le quali lavorano, dopo tutto, all’interno del partito per ottenere qualcosa a favore dei membri delle loro organizzazioni.

I vertici ufficiali di tali organizzazioni, senza dubbio, sarebbero contenti della presenza di un terzo partito. Ma è il paradosso frutto dello strato sociale cui appartengono e della loro politica riformista a renderli incapaci di creare le condizioni perché un simile partito emerga. È difficile vedere come queste condizioni possano essere raggiunte, eccetto attraverso la rivitalizzazione dei movimenti sociali, in particolare il movimento dei lavoratori – la crescita della lotta militante all’interno del movimento sindacale e fuori. Movimenti nuovi e dinamici possono fare da base materiale, per così dire, alla trasformazione di una coscienza politica che porti alla formazione di un terzo partito elettoralmente vincente. Tuttavia, movimenti di questo tipo sono esattamente ciò che le dirigenze attuali temono di suscitare.

D’altra parte, senza una rottura netta nell’attività e nella coscienza dei movimenti di massa appare del tutto insensato, per le loro leadership, rompere col Partito democratico. Questi soggetti considerano molto seriamente la via elettorale come mezzo per ottenere un guadagno a favore di coloro che rappresentano. E la condicio sine qua non per ottenere qualcosa tramite elezioni è evidente: vincere. Senza vittoria elettorale niente è possibile. Il problema è che, nel futuro prossimo, nessun terzo partito ha reali possibilità di vincere. Il livello di coscienza politica non è sufficientemente alto. Inoltre, i partiti al di fuori dei due tradizionali schieramenti, democratico e repubblicano, sono particolarmente svantaggiati a causa del sistema presidenziale. In tale situazione i leader del movimento sindacale, dei neri e delle donne si trovano in un impasse: non possono rompere col Partito democratico fin che non ci sono le condizioni per la vittoria di un terzo partito; non possono, però, creare queste condizioni senza rinunciare, per un periodo sostanziale, ai loro metodi stabiliti per ottenere guadagni per via elettorale.
Non è niente affatto sorprendente che i più seri sostenitori di una rottura in direzione di un terzo partito – in particolare nel movimento femminile – hanno manifestato molto meno interesse per il “loro” partito del XXI secolo che per le candidature democratiche di Carole Moseley Braun, Barbara Boxer, e anche Diane Feinstein. Qualsiasi ipotesi di rinnovamento del movimento dei lavoratori, dei movimenti sociali in generale e di tutta la sinistra, nonché ogni progetto di costruzione di un nuovo partito alla sinistra dei democratici, dipenderà dalla rottura – e dal confronto – con le forze sociali e politiche costituenti la base del riformismo.

1) Per un esame sociologico e storico dettagliato di questo argomento si veda The Paradox of Social Democracy: the American Case, in Mike Davis, Fred Pfeil e Michael Sprinker, The Year Left: an American Socialist Yearbook 1985. Vol. 1. Londres & New York: Verso. pp. 33-86

Link alla versione originale in inglese Solidarity e alla traduzione  in francese Periode 

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