*Da: http://www.rivistapaginauno.it/
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/06/lavoro-digitale-e-imperialismo.html
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La debolezza delle lotte, intesa come incapacità di incidere
sull’esistente, modificandolo, è evidente. Sconta sicuramente la
frammentazione, l’incapacità di comprendere che la lotta è una, sebbene
articolata su più campi, perché dietro le singole tematiche vi è un ‘nemico’
comune, ossia il sistema capitalistico: privatizzazioni e riduzione del welfare
rispondono alla necessità del Capitale di espandersi in nuovi ambiti, il
maggior sfruttamento, ossia bassi salari e lavoro precario a uso e consumo
delle oscillazioni della domanda del mercato, risponde al bisogno di recuperare
maggiori margini di profitto, ed entrambe le operazioni servono al capitalismo
per salvarsi dall’attuale crisi – fino alla prossima, ovviamente.
Ma l’area antagonista sconta anche l’esclusione dal
dibattito pubblico, che si muove sui canali mainstream, televisione su tutti e
poi grandi giornali, e quando riesce a esservi presente fa i conti con la
difficoltà di spostare l’opinione pubblica dalla propria parte.
Non è una questione che possa essere elusa, perché i mezzi a
disposizione per cambiare l’esistente sono ben pochi; non è più il tempo di
rivoluzioni, e non si vede all’orizzonte un partito che possa dare
rappresentanza concreta al pensiero critico, ancor meno a quello radicale. Non
resta quindi che la pubblica opinione, in teoria un potere ‘dal basso’ in grado
di imporre cambiamenti alla politica. O almeno questo era quando è nata.
Non si può parlare di opinione pubblica senza citare
Habermas. Nel suo saggio del 1962,Storia e critica dell’opinione pubblica,
lo studioso ne evidenzia innanzitutto i natali borghesi. Tra Inghilterra e
Francia, il percorso che si snoda fra il XVII e il XVIII secolo vede la nascita
di libelli, opuscoli e riviste nelle quali fa la sua comparsa l’articolo
‘dotto’, l’argomentazione razionale; una nuova classe sociale, la borghesia
commerciale, crea una sfera nella quale privati cittadini, raccolti come
pubblico, rivendicano il ruolo di attori insieme all’autorità dello Stato nella
regolamentazione dello scambio di merci e lavoro, disponendosi a costringere il
potere a legittimarsi dinanzi alla rappresentanza pubblica del nascente gruppo
sociale. È un ceto che inizia a essere dominante dal punto di vista economico
ma non lo è ancora sul piano politico, e dunque attacca il sistema di potere
vigente. In antitesi alla Corte nascono i salotti, dove borghesi e
aristocratici iniziano a incontrarsi, poi la nuova classe in ascesa si
autonomizza e fanno la loro comparsa i caffè, luoghi nei quali si discute di
arte, commerci e politica. In una società nella quale il modello liberale sta
divenendo dominante e afferma, come presupposto, che tutti possono diventare
borghesi, sempre più le questioni di cui si discute assumono valore di
‘interesse generale’; l’interesse della nuova classe viene dunque proposto come
interesse della società. Ciò significa, ed è un punto focale, che l’opinione
pubblica nasce come rappresentanza borghese, ossia di un interesse di classe, e
grazie alla forza economica che possiede.
È Marx a evidenziarne la natura classista, mentre John
Stuart Mill e Tocqueville, da buoni liberali, si pongono il tema del suo
contenimento nel momento in cui, con la diffusione della stampa e della
propaganda, il pubblico si amplia e perde l’esclusività borghese; mentre viene
quindi implicitamente riconosciuto che non tutti possono accedere alla
proprietà privata, negando dunque il presupposto iniziale, un’opinione pubblica
non più coesa negli interessi da difendere ma divenuta terreno di scontro di interessi
contrapposti deve essere sottoposta a una limitazione. Perché rischia di
divenire un ‘giogo’ per il potere politico, che può emanare leggi ‘sotto la
pressione della piazza’, ed essere dominata dal punto di vista dei molti e dei
mediocri; la stampa, infatti, per aumentare la diffusione ha abbassato il
proprio livello culturale, e l’opinione pubblica è divenuta più una spinta al
conformismo, dominata dalle passioni della massa, che una forza critica
razionale contro il potere; può dunque servire per limitarlo, ma non deve
influenzarlo. Occorre quindi strutturare una sorta di gerarchia, nella quale
un’élite di pochi cittadini istruiti e potenti si faccia carico di influenzare
l’opinione pubblica con scritti e discorsi.
Chiaramente si può concordare con parte dell’analisi dei due
pensatori – il minore livello culturale, la spinta al conformismo – ma è il
presupposto di base il punto fondamentale: lo Stato di diritto borghese nato
sull’idea della libera autodeterminazione di una società civile raziocinante diviene
reazionario nel momento in cui nella sfera pubblica fanno sentire la propria
voce le classi subalterne.
Alla sua nascita, la locuzione public opinion identifica
l’attività razionale di un pubblico capace di giudizio; ufficialmente conserva
tuttora questo significato, ma è chiaro che oggi non lo rappresenta più. Il
percorso che l’ha portata a trasformarsi da spazio critico a dimensione
manipolata è andato di pari passo con la crescita della società dei consumi.
La sfera letteraria, che ha prodotto quella politica, si
trasforma in un consumo culturale di massa che ha ben poco a che fare con una
crescita intellettuale: il fine è vendere una merce, non ‘educare’ un vasto
pubblico, quindi il livello del pensiero si abbassa. Scompaiono i circoli, e le
discussioni vengono formalmente organizzate in convegni, seminari, e poi
tribune politiche e programmi televisivi e radiofonici, appannaggio di quella
élite auspicata da Mill e Tocqueville, e diventano anch’esse bene di consumo;
il pubblico, sia esso borghese o classe lavoratrice, diviene ascoltatore e
spettatore: riceve un pacchetto di opinioni preconfenzionato e in assenza degli
strumenti culturali per metterlo in discussione lo assorbe, incapace di
ribattere e parlare. Nascono le pubblicità commerciali e gli uffici di
pubbliche relazioni, che si occupano di costruire il consenso intorno a una
merce come a una persona; una forma di consenso che ha più nulla a che vedere
con i criteri del ragionamento ma si basa su una fascinazione emotiva indotta
da un’operazione pubblicitaria. Sulla materia oggetto di promozione non viene
infatti aperto un pubblico dibattito ma inscenata una rappresentazione: le
discussioni in Parlamento come quelle in televisione diventano spettacoli (talk show,
appunto), e la sfera pubblica non è più il luogo in cui si manifesta la critica
ma lo spazio in cui prende forma l’acclamazione.
In L’uomo a una dimensione Marcuse scrive
che “la cultura industriale avanzata è, in senso specifico, più ideologica
della precedente, in quanto al presente l’ideologia è inserita nello stesso
processo di produzione”. È l’ideologia promossa dalla cultura di massa diffusa
dai mass media: apparentemente impolitica, in quanto promuove semplicemente un
prodotto, è in realtà fortemente politica, perché contiene in sé l’ideologia
capitalista, che non agisce più sul pensiero ma si concretizza nello spazio dei
comportamenti: l’abitudine al consumo di merci che vanno a soddisfare falsi
bisogni, indotti ed eterodiretti per alimentare un sistema produttivo che per
fare profitti ha bisogno di crescere incessantemente.
Il pensiero politico critico, dunque, quando non viene
censurato e riesce a raggiungere il dibattito pubblico, oggi ha davanti a sé
come vero antagonista non tanto un pensiero politico contrapposto, ma un’ideologia
trasformatasi in merce, promossa a suon di slogan pubblicitari,
inconsapevolmente assorbita da una massa di cittadini divenuti consumatori. Ed
è chiaro che un pensiero politico che si oppone alla mercificazione
dell’esistente non èvendibile sui media, televisione e grandi
quotidiani, che sono gli strumenti principali di diffusione dell’ideologia dei
consumi; non può raccogliere consenso tra quel pubblico. Il problema è che quel pubblico è
oggi l’opinione pubblica: una massa di consumatori analfabeti funzionali,
spettatrice di messinscene politiche, manipolata da una ristretta élite di opinion
maker che si occupa di dirigerla promuovendo il pensiero neoliberista
sotto forma di concetti estremamente superficiali e semplificati. Di fatto
la public opinion, nel suo reale significato, non esiste più.
Quando nei primi anni Novanta nasce il web, il mondo
antagonista che dopo il riflusso degli anni Ottanta è tornato a organizzarsi
nel Movimento della Pantera e nei centri sociali, vede nella nuova tecnologia
una possibilità di azione; un mezzo per creare una rete di collegamento e
comunicazione tra le varie realtà, innanzitutto, attraverso la messaggistica e
le mailing list, e successivamente uno strumento per fornire contenuti.
Parallelamente al Movimento no global nascono realtà come Indymedia e
Autistici/Inventati, che grazie alla nuova tecnologia iniziano a produrre
controinformazione in opposizione all’informazione mainstream, raccontando
direttamente le manifestazioni e creando siti web nei quali il pensiero critico
può esprimersi e confrontarsi. La rete sembra essere quello spazio libero che
mancava, un territorio in cui poter far crescere una rete antagonista
globale, parallelamente e in opposizione alla globalizzazione del Capitale. La
rapida diffusione della cultura e del movimento no global tra il 1999 di
Seattle e il 2001 di Genova dà l’impressione, e la speranza, che una nuova
opinione pubblica antagonista possa crearsi grazie al web, e che il suo peso
possa incidere sul potere politico ed economico nel momento in cui si
concretizza scendendo in piazza, in manifestazioni di una tale partecipazione e
forza da ricordare quelle degli anni Settanta del Novecento.
La violenza della repressione messa in atto a Genova taglia
le gambe al movimento, ma forse sull’ennesimo processo di riflusso seguito al
G8 e allo stato di eccezione messo in piedi dopo l’11 settembre 2001 molto di
più ha inciso la trasformazione della stessa rete che aveva permesso la nascita
di quella opinione pubblica raziocinante. Il Capitale aveva già iniziato la
colonizzazione del territorio del web attraverso la cosiddetta new economy
– è del 2000 l’esplosione della bolla finanziaria delle dot.com – e la rete
diventa social. Nasce MySpace e poi Facebook, Twitter e social
network di ogni genere. Ora il pensiero antagonista deve lottare per non essere
marginalizzato in quello stesso spazio che aveva creduto di poter usare a
proprio vantaggio, e che è divenuto non solo un altro territorio in cui il
Capitale promuove e diffonde l’ideologia della mercificazione, contribuendo a
creare lo stesso pubblico dei media mainstream e lo stesso consumo culturale di
massa, ma anche un luogo di compensazione di frustrazione e alienazione e uno
strumento che disinnesca il conflitto: condivido un post critico, metto un ‘mi
piace’ a un articolo di un sito di controinformazione, segno la mia
partecipazione a un dibattito e poi non non vado, e ho l’impressione di aver
fatto qualcosa, di avere ‘contato’, mentre ho fatto nulla che possa minimamente
incidere sull’esistente.
In aggiunta, dal punto di vista della crescita intellettuale
indispensabile alla creazione di un’opinione pubblica raziocinante, il web si è
trasformato in una contraddizione paradossale: non ha problemi fisici di spazio
e ha minimi costi economici, a differenza del supporto cartaceo, può dunque
contenere articoli lunghi di analisi e approfondimento, e invece ha eliminato
quel tipo di lettura ‘lenta’ e ragionata promuovendo la velocità, l’articolo
breve, l’informazione superficiale, l’ansia di essere continuamente aggiornati
su tutto ciò che accade senza avere né gli strumenti né il tempo per
comprenderlo davvero, in una continua deconcentrazione.
Che fare, dunque?
Se c’è una cosa che il percorso dell’opinione pubblica
borghese insegna è innanzitutto che la sua partenza è culturale e di classe.
Per cercare di modificare l’esistente occorre dunque per prima cosa
(ri)costruire una cultura di classe, e poi trasformarla in opinione pubblica.
Certo, da questa parte è più arduo: la borghesia era ceto dominante economico –
dunque aveva soldi – e agiva in una società liberale che già rispecchiava il
suo modello di sistema produttivo; doveva solo conquistare il potere politico,
e trasformare in borghese lo Stato. Ma resta il fattore culturale come punto
centrale: è dalla sfera letteraria che nasce quella politica.
Non è un caso infatti che la crescita della società dei
consumi sia andata di pari passo con lo svuotamento della cultura di sinistra –
non solo politica, anche letteraria e cinematografica – fino al suo totale
annientamento che ha registrato come contraltare la mercificazione totale
dell’esistente e la vittoria dell’ideologia neoliberista. Si tratta dunque di
ripartire da lì, dalla sfida culturale, ma non per farne un esercizio astratto
bensì per radicarla nella conflittualità sociale esistente.
Occorre poi capire che i media mainstream non possono essere
il terreno di questa battaglia e il loro pubblico non può essere conquistato;
per quanto rappresenti la maggioranza, è a tal punto annichilito e manipolato
che ora non si può che rinunciarci. È nella rete che si muove quella ristretta
minoranza di persone che sente il bisogno di informarsi, capire, approfondire
in modo critico; si deve dunque accettare che solo il web, pur con tutto ciò
che rappresenta in termini di colonizzazione dell’immaginario e controllo
sociale (1), può essere lo spazio in cui il pensiero antagonista può muoversi e
crescere. È una contraddizione, ma bisogna essere consapevoli che non esiste
più alcun territorio che il Capitale non abbia conquistato e mercificato,
dunque l’alternativa sarebbe l’immobilità, e non è un’alternativa. Come non lo
è quella messa in atto da molti centri sociali, che si sono ripiegati
all’‘interno’ in forme di autogestione mutualistica e hanno rinunciato a
opporsi alle dinamiche di potere che si muovono all’‘esterno’ nella società.
L’opinione pubblica è raziocinante. La lotta è teoria e prassi.
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