domenica 24 luglio 2016

CORPO E CITTA’: spazialità e corporeità dei dispositivi disciplinari in occasione del G8 genovese. 15 years later* - Paolo F. Peloso


Parte I.                                       Genova non ha scordato. Perché è difficile dimenticare.  F. Guccini, Piazza Alimonda, 2004 (https://www.youtube.com/watch?v=KbfIscqYKOE

2001-2016. 15 anni dopo: another word was possible?

Sono passati 15 anni da quelle tumultuose giornate del luglio 2001 e una domanda mi pare che oggi s’imponga: un altro mondo è stato possibile? Credo di no, o se sì, è decisamente un mondo peggiore. Credo che questo dimostri come la domanda di un altro mondo, migliore, che la moltitudine scesa in piazza a Genova rivolgeva agli otto grandi fosse una domanda colma di urgenza e di significato. La scelta di non prenderla neppure in considerazione ha avuto le conseguenze devastanti che ci sono ogni giorno sotto gli occhi.
Nei giorni del G8 sono accadute a Genova cose che, ragionandoci a 15 anni di distanza, paiono surreali, incredibili. Appare incredibile, ripercorrendo oggi quelle strade dove “viaggia il traffico solito, scorrendo rapido e irregolare” (Guccini), che esse - automobili, bancomat, vetrine - siano state per due giornate abbandonate al saccheggio della (piccola) parte più adolescenziale, superomista e irresponsabile del movimento, in un’ubriacante illusione di anarchia. Mentre “un pensionato ed un vecchio cane” magari passeggiavano lì accanto, senza timore. Ancora più surreale e angosciante si avverte la carica di ferocia che dal seno delle forze dell’ordine di una Repubblica europea nata dalla Resistenza ha potuto sprigionarsi per le strade, alla scuola Diaz-Pertini e a Bolzaneto. La foga, la rabbia e la passione con le quali si vedono nei video alcuni poliziotti, carabinieri, finanzieri accanirsi a picchiare persone intrappolate, inermi, spesso già sanguinanti lasciano allibiti. Come pure il fatto che l’accertamento dei fatti e delle responsabilità sia stato ostacolato in modo così pervicace e arrogante e reso solo in minima parte possibile, nonostante il nobile e ostinato impegno della Procura genovese, e ricordo il PM Enrico Zucca in particolare.
Questa impudente impunità, che ha riguardato anche il personale medico al cui coinvolgimento abbiamo già fatto riferimento, oltre a dimostrare un’incapacità dello Stato a criticare se stesso (che in democrazia non è mai buona cosa), costituisce una grave insidia in primo luogo proprio per chi apparentemente se ne è avvantaggiato, e poi per la società nel suo complesso; la straordinaria capacità di approfondire aspetti psicologici e ricadute sociali di questo fenomeno, che Dostoëvskij dimostrava scrivendone nelle Memorie di una casa di morti del 1862, dovrebbero essere di monito:

«Chi ha provato una volta questo potere, questa illimitata signoria sul corpo, il sangue e lo spirito di un altro uomo come lui, fatto allo stesso modo, suo fratello secondo la legge di Cristo; chi ha provato il potere e la possibilità senza limiti di infliggere il supremo avvilimento a un altro essere che porta su di sé l'immagine di Dio, costui, senza volere, cessa in certo qual modo di essere padrone delle proprie sensazioni. La tirannia è un'abitudine; essa è capace di sviluppo, e si sviluppa fino a diventare malattia. Io sostengo che il migliore degli uomini può, in forza dell'abitudine, farsi ottuso e brutale fino al livello della bestia.  Il sangue e il potere ubriacano: si sviluppano la durezza di cuore, la depravazione; all'intelligenza e al sentimento si fanno accessibili e infine riescono dolci le manifestazioni più anormali.  L'uomo e il cittadino periscono nel tiranno per sempre, e il ritorno alla dignità umana, al pentimento, alla rigenerazione diviene ormai quasi impossibile per lui. Inoltre l'esempio, la possibilità di siffatta licenza agisce in modo contagioso anche su tutta la società: un simile potere è tentatore. La società che assiste con indifferenza a un simile fenomeno è già infetta essa stessa nelle sue fondamenta. Insomma il diritto della punizione corporale concesso a un uomo su di un altro è una delle piaghe della società, e uno dei più forti mezzi per distruggere in essa ogni germe, ogni tentativo di civile libertà, ed è premessa sicura del suo immancabile e ineluttabile sfacelo».

Credo che gran parte dei fascismi trovi la sua comprensibilità in queste antiche considerazioni.
Sul piano della ricostruzione storica è andata meglio rispetto a quello della sanzione giudiziaria, amministrativa e politica. La produzione documentaria (video, libri ecc.) è iniziata subito dopo i fatti e non ha ancora avuto termine[v]; ai giorni del G8 genovese e al cuore repubblicano e ribelle della città di Paolo da Novi, di Balilla e di Mazzini, del 25 aprile ‘45 e del 30 giugno ‘60, Francesco Guccini ha dedicato una canzone robusta e bellissima, Piazza Alimonda (2004). Genova che capì subito da che parte stare: le coraggiose mani sconosciute a dare dalle finestre indicazioni, e ad aprire per subito richiudere usci che a molti in fuga dalle cariche furono provvidenziali.

Il film Carlo Giuliani, ragazzo di Francesca Comencini (Italia, 2001) è il dialogo tra due madri sulla morte di un ragazzo e in mezzo a loro “scorrono le folle che invasero Genova per essere pietra d'inciampo alla riunione dei signori del mondo, per essere pietra d'angolo di una nuova casa-mondo”; Black Block di Carlo Augusto Bachschmidt (Italia, 2011) è la raccolta di sette testimonianze semplici, commuoventi, scioccanti, profondamente umane; Diaz. Non pulire questo sangue di Daniele Vicari (Italia, 2012), nonostante qualche critica forse ingenerosa della quale è stato oggetto, ha più l’aspetto del prodotto artistico, capace dunque di trasmettere al grande pubblico - e questo è importante - l’orrore, la violenza, le emozioni di quanto si è verificato alla Diaz-Pertini e a Bolzaneto. Immagini e testimonianze destano ancora, appunto, a 15 anni di distanza, angoscia, sgomento, terrore.

Quella che Amnesty International ha definito la più grande sospensione dei diritti umani in un paese occidentale dal 1945 è una dolorosissima lacerazione nella storia dell’Italia democratica destinata a rimanere aperta e a continuare a interrogare fastidiosa, la “traccia aperta di una ferita” (Guccini). Peraltro, a 15 anni dal G8, la trasformazione in legge della convenzione ONU contro la tortura del 1984, ratificata nel 1988, continua a trovare ostacoli e, se lo sarà, si va delineando una versione più timida e omertosa di ciò che l’ONU chiederebbe. Ed è significativo che proprio in questi giorni del quindicesimo anniversario dei fatti del G8 il disegno di legge abbia subito un ulteriore rinvio.

Il 17 marzo 2015 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ha condannato il ritardo nell’adeguamento della legislazione italiana alla Convenzione proprio in merito a uno dei fatti della Diaz, esplicitamente qualificato in quell’occasione come “atto di tortura”. La Corte, che si è basata sulle sentenze emanate dalla Magistratura italiana nei tre ordini di giudizio, ha inoltre disapprovato in quell’occasione l’impossibilità di identificare mediante un codice i singoli partecipanti all’operazione, si è rammaricata del fatto che «la polizia italiana si sia potuta rifiutare impunemente di fornire alle autorità competenti la collaborazione necessaria all’identificazione degli agenti che potevano essere coinvolti negli atti di tortura», ha criticato l’entità delle pene di fatto comminate proprio in relazione all’inadeguatezza della legislazione italiana a punire in modo proporzionato i comportamenti qualificabili come tortura in base alla Convenzione, lamentato la mancata sospensione dei funzionari pubblici imputati di atti di tortura nel corso del procedimento penale, e relativamente all’evoluzione della loro carriera dopo le condanne «prende atto del silenzio del Governo al riguardo nonostante la domanda di informazioni espressamente formulata».

Parole che suonano vergognose, mi pare, per le istituzioni italiane; avvilenti davvero. Immeritatamente vergognose anche per il popolo italiano. Pagine che rendono poi imbarazzante e difficile, credo, per l’Italia fare la voce grossa quando un italiano viene spietatamente massacrato dalle istituzioni di un altro Paese, o quando in altri Paesi si assiste a violazioni dei diritti umani, certo, di altro livello anche rispetto a quelle, pur gravi, avvenute a Genova in quelle tristi giornate. E se poi abusi vengono lamentati oggi sui migranti bloccati  a Ventimiglia, cosa si deve pensare?

Credo che la sensazione di irrealtà, sgomento, terrore che oggi coglie nel rivedere e riascoltare quelle scene di sangue - un sentimento fisico di vuoto, annichilimento, disperazione che corrisponde all’esperienza di poter essere in balia della violenza e dell’arbitrio dell’altro - sia alla base di un desiderio generalizzato ma pericoloso di rimuovere i fatti, non saperne più cogliere fino in fondo la gravità con la sensazione di una cosa troppo grande per essere stata vera. E insieme rimuovere la domanda angosciante che si ha paura, forse, di farsi: quale misteriosa forza esiste oggi in Italia dietro lo strato pubblico della politica, che ha potuto rendere i responsabili di quegli atti a tutti i livelli decisionali, nonostante l’avvicendarsi dei governi, invulnerabili alla sanzione giudiziaria?

Quanto al “movimento”, esso ha continuato dopo Genova a riunirsi e a promuovere esperienze importanti dal basso, dall’Asia all’America latina, dove ha probabilmente contribuito all’affermarsi di esperienze progressive in gran parte del continente, effimere esperienze che hanno fatto sperare per una breve stagione e hanno consentito l’inizio di un minimo di ridistribuzione della ricchezza, ma oggi paiono ritornare a soccombere sotto il peso di una nuova offensiva conservatrice.
In Palestina continua, intanto, nell’indifferenza del mondo il lento ma inesorabile arretramento della popolazione araba e lo stillicidio quotidiano di giovani vittime in un territorio illegalmente occupato e conteso casa per casa, palmo per palmo dalla maggiore potenza militare dell’area a un popolo quasi inerme. Negli Stati Uniti, gli afroamericani hanno una probabilità di morire per mano della polizia o di essere incarcerati molto più elevata rispetto ai concittadini di pelle bianca[vi]. Nelle e tra le repubbliche dell’ex Unione Sovietica sono esplose in questi 15 anni guerre fratricide, che rimangono in gran parte temporaneamente come congelate e sempre pronte a riesplodere.

Ma il mondo è peggiorato da allora soprattutto nello dimensione più globale, quella della guerra e della cronaca di macelleria quotidiana alla quale abbiamo ormai fatto l’abitudine (purché, ovviamente, sia là, da loro e non qua[vii]). Mentre gli otto “grandi” discutevano a Genova, ingabbiati e superprotetti, la storia era già gravida a loro insaputa del crollo delle Torri gemelle, un evento solo il giorno prima inimmaginabile destinato a trasformare radicalmente il mondo e a rendere le cose discusse in quel vertice, qualunque esse siano state, da subito obsolete. La reazione occidentale ha investito per primo l’Afghanistan degli ex alleati antisovietici, i talebani, dando inizio a una guerra che quindici anni dopo non si è ancora interrotta. Nel frattempo la guerra, come un angelo sterminatore, ha investito l’Iraq, la Siria, la Libia, lo Yemen seminando devastazione e destabilizzazione. Non ha risparmiato operatori sanitari e feriti, massacrandoli anche negli ospedali, a partire da Kunduz in Afghanistan, mai poi ad Aleppo e in altre aree della Siria, e nello Yemen. Le bombe occidentali, insieme ad ambiguità, doppiopesismi, deportazioni amministrative, torture e umiliazioni ampiamente documentate hanno contribuito a evocare per contrasto dal seno dei settori più retrivi del mondo islamico una ferocia di altri tempi, che in maggior parte si manifesta in guerre fratricide ma - seppure solo in minima parte (quella però della quale qui ci accorgiamo di più) - colpisce anche l’Occidente seminando stragi di uomini, donne, bambini resi vulnerabili dall’essere innocentemente riuniti nei luoghi dell’assembramento e del divertimento. Il fascismo in clima islamico, stretto alleato dell’Occidente insieme alle feroci arcaiche petromonarchie del Golfo, si è imposto in Egitto e in Turchia, di nuovo a prezzo di massacri contro una parte, discriminata su base politica o etnica, della popolazione civile. Da 15 anni la fetta del mondo che va dalle coste occidentali dell’Africa alla penisola indiana, che aveva visto l’alba della civiltà, è entrata in uno stato di perenne ebollizione e non trova pace, pagando un prezzo di sangue davvero spaventoso.

Non solo. La prima giornata della contestazione al G8 era stata caratterizzata dal tema dell’accoglienza ai migranti: sembrava un fenomeno nuovo allora ma, guardandoci indietro oggi, era solo un inizio. Gli stranieri regolarmente residenti in Italia in quel lontano 2001 superavano di poco il milione, oggi sono più di cinque milioni. Solo una minoranza dei migranti in arrivo in Italia sospinta dalla guerra e la miseria arriva attraverso la micidiale rotta del Canale di Sicilia, considerata in questo momento la frontiera più pericolosa e letale al mondo, ma anche in questo caso le guerre in Siria e in Libia hanno aumentato in modo esponenziale i tentativi di traversata. Di fronte a questa massa in arrivo l’Europa si è rivelata luogo inospitale, altro che diritto di asilo[viii]! Muri e reticolati hanno reso di fatto impraticabile la via dei Balcani, meno pericolosa e non ci si fa scrupolo di riconsegnare i malcapitati arrivati e respinti nelle mani del fascista Erdogan, come ieri l’Italia li riconsegnava a Gheddafi chiudendo gli occhi su cosa poi ne avrebbe fatto. Organismi internazionali come Medici Senza Frontiere hanno condannato l’Europa per questa scelta pilatesca. Con sempre maggiore frequenza, nella massima indifferenza, di migrazione si muore. Secondo stime affidabili le persone morte nel tentativo di attraversare le frontiere in tutto il mondo negli ultimi 15 anni supererebbero 40.000; quelle perite nel tentativo di attraversare il Mediterraneo che separa nord e sud del mondo sarebbero circa 30.000, circa un terzo delle quali nel Canale di Sicilia. Ad esse dovrebbero essere aggiunti i morti nel deserto e per gli stenti, che non sono neppure arrivati a vedere la costa africana per l’imbarco. Tutti morti evitabili, morti sul limite della nostra porta chiusa. Sarebbe stato sufficiente socchiuderla. Erano 976 i decessi del 2016 nel canale di Sicilia al 15 maggio: 976 morti che avrebbero potuto essere evitati e interpellano l’opulenza e indifferenza dell’Europa. Morti spesso senza un nome; spesso donne e molto spesso bambini. Io credo che la Storia chiederà conto alla nostra generazione di Europei di queste migliaia di morti annegati: e non potremo certo dire che noi non sapevamo. Ci chiederà conto uno per uno dei piccoli corpi dei bambini, di quelli che il mare ci ha restituito come atti di accusa sulle spiagge e di quelli ripescati ancora avvinghiati al corpo della madre nelle stive dei barconi affondati…

Gli otto grandi non hanno creduto che un altro mondo fosse possibile, si sono rifiutati di provare ad esplorarlo; hanno voluto propinarci ad ogni costo il loro mondo, che oggi Adolfo Perez Esquivel, premio Nobel argentino per la pace nel 1980, descrive in questi termini:

«Migliaia di persone fuggono dalla guerra, dalla fame, dalla miseria, straziati senza pietà dalle bombe e dagli attentati, navigano per il Mediterraneo a bordo di barconi senza meta e senza un orizzonte certo. Sono persone che spinte dalla paura e dall’angoscia intraprendono un viaggio carico di rischi e dal destino incerto. La loro bussola indica solo la meta della tragedia umana e il dolore per orizzonti irraggiungibili. L’Europa e altre potenze mondiali come gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia non sono né capaci né vogliono affrontare il dramma che loro stessi hanno provocato. Fanno finta di ignorare di essere stati gli artefici delle guerre in  Medio Oriente e di aver armato, per i propri interessi economici, strategici, e politici nella regione, i gruppi di combattenti ribelli. I grandi centri di potere, con il complesso industriale militare, vogliono affermare la propria egemonia mondiale utilizzando la violenza e ogni altro mezzo, come ad esempio la droga, per finanziare le guerre e manipolare la vita dei popoli. Le invasioni contro Iraq, Afghanistan Siria, Libia e l’interminabile colonizzazione della Palestina da parte di Israele provocano gli erroneamente denominati “danni collaterali” mentre le potenze responsabili ignorano e giustificano l’ingiustificabile»[ix]

Ne avremmo fatto a meno. A Genova chi ha battuto alle griglie della zona rossa per farsi sentire lo ha fatto per cogliere nella presenza in città degli otto uomini più potenti del mondo un’occasione storica irripetibile per dire loro che l’orizzonte che avrebbe voluto per il mondo non era quello verso cui in questi 15 anni lo hanno portato. Un altro mondo era dunque possibile? Beh, sarebbe stato un mondo nel quale queste migliaia di stranieri che la crudeltà degli uomini - non del mare - ha strappato alla vita potessero viaggiare in sicurezza ed essere accolti. Guardandoci alle spalle mentre quel 19 luglio sfilavamo in un allegro corteo colorato e multietnico, non ancora traumatizzato dalla violenza, da piazza Sarzano alle strade della Foce, costeggiando quel Mediterraneo, sentiamo il peso di tutti questi uomini morti cercando solo un posto tra noi. E’ passata la prima parte dell’estate, e con essa sono giunte le notizie dei primi naufragi e dei primi morti in mare: anche quest’anno il Mediterraneo ha cominciato a riscuotere il suo tributo di morte. Quanti morti dovremo contare prima che l’estate finisca? E saremo disposti a fare di nuovo finta di niente, a non chiedere conto ai governanti dell’Europa della nuova carneficina che si va delineando?

Viviamo un mondo sospeso, ma non - come avremmo voluto 15 anni fa - sul ciglio della speranza di un altro mondo possibile, di un mondo migliore; viviamo un mondo che non sa quando l’inutile strage che insanguina il sud e l’est del Mediterraneo - e occasionalmente ma tragicamente ricorda alle nostre città che il mondo è uno, e non può esserci pace per nessuno se non c’è pace per tutti - avrà fine. E che non sa quando e come la pressione inquieta dei corpi che premono per un posto tra noi potrà trovare l’accoglienza cui ha diritto. Il capitalismo sta facendoci pagare un costo in termini di vite umane elevatissimo per continuare a mantenere migliaia di corpi eccedenti fuori dal banchetto che è imposto loro di desiderare, ma al quale devono rassegnarsi a non essere invitati.

Così va il mondo, di fronte al quale 15 anni fa in decine di migliaia ci siamo trovati a Genova per dire:«NO. Un altro mondo è possibile!». Alcuni, designati dal caso, sono stati massacrati per questo per le strade e in una scuola-dormitorio, e/o torturati e umiliati in un carcere improvvisato. Uno è stato ucciso. Poi il mondo è andato avanti così, di male in peggio; e se ancora ci sforziamo di coltivare la speranza che un altro mondo, forse, sia possibile, oggi a 15 anni di distanza il bilancio è negativo e sembra più difficile di allora ritrovarci in tanti sotto la sua bandiera, quella della pace; e cominciare a spostarci, almeno di qualche passo, nella sua direzione. 

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