martedì 2 dicembre 2025

Al bivio tra violenza e nonviolenza - Alessandra Ciattini

Da: https://www.pressenza.com - https://giuliochinappi.com - Alessandra Ciattini (Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni - Membro del Coordinamento Nazionale del Movimento per la Rinascita Comunista) ha insegnato Antropologia culturale alla Sapienza di Roma. E' docente presso l'Università Popolare Antonio Gramsci (https://www.unigramsci.it). - Antonio Minaldi, militante nei movimenti fin dal 68. Esponente del movimento studentesco del 77 e fra i fondatori dei COBAS SCUOLA nell'87. Si occupa di attualità politica e di studi di filosofia collaborando con varie riviste. 


Antonio Minaldi, Gandhi ad Aushwitz, elogio della Nonviolenza (e sue problematiche), Multimage 2025

Antonio Minaldi è un autore assai prolifico, scrive con fluidità e riesce a catturare i suoi lettori. Inoltre, nei suoi scritti troviamo una grande passione etica e politica sicuramente da apprezzare. Nel caso di questo libro “Gandhi ad Auschwitz. Elogio della nonviolenza e le sue problematiche”, Antonio ripercorre la sua vicenda umana e in particolare la sua partecipazione agli eventi politici a partire da 1968 fino ai ai nostri giorni. È abbastanza normale che qualcuno, protagonista di importanti vicende storiche, senta la voglia di raccontarle e di trasmettere la sua esperienza in modo che gli altri, soprattutto i giovani, ne possano ricavare qualcosa di buono. Dicevo il libro costituisce un elogio del pacifismo ed ovviamente non sarò certo io a non condividere tale atteggiamento, però nello stesso tempo Antonio riconosce che ci sono una serie di problematiche inerenti ad esso. Illustrerò prima brevemente il contenuto del libro e poi farò una serie di considerazioni, che si fondano su quanto è anche  stato scritto da Antonio e che riguarda la relazione tra pacifismo e contesto storico.

Il pacifismo di Antonio è il frutto di una sorta di ripensamento. Racconta che quando ha cominciato a fare politica era convinto che, per cambiare il sistema sociale nel quale viviamo, fosse opportuno un atto rivoluzionario, il quale in un modo o in un altro inevitabilmente implicasse una qualche forma di violenza. Oggi dichiara di aver abbandonato questo presupposto condiviso da molti, ma bisogna dire non da tutti coloro che si collocano nei cosiddetti movimenti di sinistra. Si potrebbe affermare che il mondo di sinistra è estremamente sfumato e presenta tendenze contraddittorie. Per esempio, soddisfatto dalla forza raggiunta dal Partito Socialdemocratico tedesco, Engels giunse ad ipotizzare che sarebbe stato anche possibile arrivare ad un ribaltamento sociale attraverso una vittoria elettorale, proponendo quindi una prospettiva riformista. Inoltre, inizialmente, i socialdemocratici tedeschi si opposero alla Prima guerra mondiale per poi capitolare tristemente, mentre Karl Liebnecht e Rosa Luxembourg pagarono con la vita il loro antimilitarismo. 

Purtroppo la storia ci ha insegnato che le vittorie elettorali non sono sufficienti a sostenere un cambiamento radicale della società, perché le forze sconfitte possono facilmente tornare alla ribalta. Basti pensare alle vicende cilene e al tragico colpo di Stato contro il governo Allende. Qualcosa di simile sta accadendo proprio sotto i nostri occhi con l’attacco statunitense al Venezuela, scatenato dal signor Trump che sta addirittura violando la legge degli Usa, perché  sta intraprendendo azioni militari senza aver consultato il Congresso. Ma torniamo al libro di Minaldi e a Gandhi.

In primo luogo Minaldi mette in discussione un’opinione abbastanza comune, secondo la quale la nonviolenza vince, quando ormai la vittoria è scontata, come nel caso dell’India o nel caso di Martin Luther King da lui citati. In realtà si potrebbe dire che in India non vinse la nonviolenza: Gandhi stesso fu ucciso e i conflitti tra le diverse componenti etniche sono stati sanguinosi e non si sono ricomposti. Per Antonio la nonviolenza costituisce un principio etico quasi inerente alla nostra stessa natura di esseri umani, ossia esseri sociali e cooperativi, i quali proprio per questa caratteristica sviluppano comportamenti solidaristici nei confronti dei loro simili.

Minaldi sostiene che a partire dall’Olocene  (11.700 anni fa) con la cosiddetta Rivoluzione agricola l’uomo avrebbe imposto il suo dominio sulla natura, e in questo modo si sarebbe affermata quello che lui chiama il dominio dell’uomo sulla natura e sugli altri. A suo parere questo costituisce il filo rosso che attraversa tutta la storia umana. Si potrebbe osservare che, già nel momento in cui l’uomo era cacciatore e raccoglitore, già esercitava una sorta di potere sulla natura, in quanto si appropriava dei suoi frutti per riprodursi. Ma qual è la differenza tra la violenza presente nella società capitalistica e la violenza precapitalistica? L’economista Robert Gordon sostiene che dal 1300 al 1700 non c’è stata nessuna crescita economica, mentre a partire dalla Rivoluzione industriale fino al 1950 la crescita è stata straordinaria con conseguenze dirompenti sugli esseri umani e sulla natura, che sono divenuti oggetto di una violenza industriale. La quale ha partorito tutti quei micidiali apparati bellici che oggi purtroppo vediamo in opera.

Una volta stabilito che la nonviolenza è un principio etico, Minaldi mette in evidenza la difficoltà di rispettarlo, sottolineando che in certi casi questo rispetto potrebbe trasformarsi anche in un’auto sacrificio. Per esempio, Gandhi avrebbe potuto idealmente immolarsi per impedire lo sterminio portato avanti dai nazisti. A suo parere tale gesto non sarebbe stato un gesto inutile in quanto avrebbe riaffermato un valore ineludibile e avrebbe costituito un esempio per tutti coloro che volessero ispirarsi ai principi della nonviolenza. Tuttavia, Minaldi riconosce che, se il sacrificio può essere un gesto individuale è assai difficile che esso si trasformi in un gesto collettivo in base al quale una certa comunità subisce passivamente una violenza su di essa esercitata. In questo caso è inevitabile pensare ai palestinesi, al 7 ottobre di Hamas e alla feroce reazione dello Stato d’Israele. Da queste constatazioni il nostro autore ricava quanto cito testualmente: la nonviolenza si trova sempre in bilico tra l’esigenza di riaffermare la primazia dei valori e la nuda realtà delle cose imposta dal realismo della pratica politica. Proprio per questa ambiguità egli trova del tutto accettabile, anche da parte di un non violento, il fatto che si verifichino situazioni estreme nelle quali unicamente a scopo difensivo è legittimo rispondere ad un’aggressione indebita con la violenza. Ciò è quanto prevede il diritto penale a proposito della legittima difesa: vi sono situazioni in cui per difendersi non c’è altro mezzo che il ricorso alla violenza. A mio parere questa posizione è del tutto condivisibile. Infatti, credo che la nonviolenza, là dove è praticabile e può essere efficace, deve essere impiegata, là dove queste condizioni, invece, non si danno e dove non c’è via di scampo, si deve ricorrere alla violenza. In questo senso violenza e non violenza sono atteggiamenti da contestualizzare. 

D’altra parte è difficile affermare che sia stata soltanto l’opera di Gandhi a portare alla indipendenza dell’India. Ci sono stati sicuramente molti altri fattori, come per esempio, la debolezza dell’esercito britannico che in gran parte era costituito da indiani, i quali erano stati mandati a combattere nella prima e nella seconda guerra mondiale con tantissime perdite. Inoltre, c’erano anche altri leader politici, in particolare musulmani, che invece portavano avanti la battaglia per l’indipendenza con modelli e progetti diversi. 

Paradossalmente dopo la morte di Gandhi, avvenuta per un omicidio, l’India fu teatro di gravi violenze che si concretarono nell’assassinio di importanti leader politici, e che riguardarono anche i conflitti tra le diverse entità etniche presenti nel subcontinente indiano; in particolare il conflitto mai del tutto risolto tra la componente musulmana e quella hindu.

Per esprimere meglio la mia idea di contestualizzazione della nonviolenza e della violenza, voglio fare il parallelo tra la importante figura di Gandhi, ispirata da Lev Tolstoj, e un’altra significativa figura di leader politico situata però in tutt’altro contesto storico. Anche lui, profondamente cristiano, si trovò di fronte alla scelta assai difficile tra la violenza e la nonviolenza. Mi riferisco al sacerdote, sociologo, uomo politico colombiano Camillo Torres Restrepo, il quale riteneva che il nucleo del Vangelo fosse la creazione del Regno di Dio in terra. Per l’opposizione della gerarchia ecclesiastica abbandonò il sacerdozio nel 1965, nello stesso anno fondò il settimanale Frente Unido, che aveva lo stesso nome della sua organizzazione politica. Resosi conto che le forze oligarchiche e reazionarie della Colombia non gli avrebbero permesso nessuna azione politica, Torres optò per la lotta armata e si unì ai guerriglieri dell’Esercito di Liberazione Nazionale, gruppo che si ispirava alla Rivoluzione cubana del 1959. Dopo solo un mese di militanza, fu ucciso il 15 febbraio 1966 dall’esercito nel suo primo giorno di battaglia. Come si vede non è facile scegliere tra violenza e nonviolenza e soprattutto è arduo prevedere le conseguenze della scelta fatta. 

Al breve saggio di Minaldi seguono alcune considerazioni di Olivier Turquet, per il quale il primo passo verso la nonviolenza consiste nello scoprire la violenza che si nasconde dentro di noi.

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