lunedì 29 dicembre 2025

USA E IL BOOMERANG CON IL VENEZUELA - Pino Arlacchi

Da: Pino Arlacchi - Originale: ilfattoquotidiano.it | 27 dicembre 2025 - Pino Arlacchi è un sociologo, politico e Ex vice-segretario dell'Onu. (Pino Arlacchi). 

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L'ILLUSIONE MILITARE OCCIDENTALE 

Nei confronti di Maduro l’America e i suoi alleati stanno ripetendo la stessa prova di imbecillità e paranoia messa in atto con la Russia, che doveva finire in ginocchio per le sanzioni.


Mi trovavo a Caracas due mesi fa, ospite di un Forum internazionale. Trump tuonava da tempo minacce d’invasione e guerra. 

Una formazione navale Usa si trovava a circa 700 km a Nord della capitale. Ma la città e il Paese apparivano immersi in una calma surreale. Niente coprifuoco né proclamazione d’emergenza nazionale, zero panico di massa. Piazze e strade illuminate. Nessuna fuga dai centri urbani né assalto a supermercati e distributori di benzina. Incoscienza latina? Testa sotto la sabbia? Strategia governativa di rassicurazione e minimizzazione del pericolo? Quest’ultimo punto veniva smentito dalla presenza, nella piazza antistante l’evento cui partecipavo, di un meeting della milizia popolare nazionale, una forza passata da 5 a 7 milioni di unità dopo l’intensificazione degli attacchi Usa. Ma anche qui niente discorsi accesi. La sindaca di Caracas e il ministro della difesa, all’ingresso della sala del Convegno, conversavano pacatamente con gli ospiti accrescendo il mio senso di sconcerto. Solo dopo il mio ritorno, ripensando il tutto alla luce di quanto ho scritto sulla guerra che non ci sarà tra Cina e Usa, ho elaborato una risposta compiuta. 

Il punto di partenza è il punto-nave della portaerei Gerald Ford, meraviglia tecnologica ed estetica che viene alla grande in tv, ma è in realtà una bara galleggiante, un potenziale rottame che deve stare ad almeno 700 km dalla costa per non essere colata a picco da missili e droni venezuelani. Come tutte le altre navi della vulnerabile Armada. Se la supremazia militare Usa fosse quella di un tempo, le navi si troverebbero a 7 e non a 700 km di distanza dalla costa. Stazionerebbero nelle acque di Trinidad, isola quasi attaccata al Venezuela, e il cui governo ha dato pieno accesso alla flotta Usa. Starebbero lì a fare il tiro a segno contro città, porti, centrali elettriche, raffinerie. Avrebbero concluso in poche settimane la missione, eliminato Maduro e il chavismo, installato la Machado di turno e preso possesso dell’agognato petrolio. Le forze armate si sarebbero divise, e la popolazione riversata nelle piazze celebrando la fine della feroce tirannia. Ma è wishful thinking occidentale, un esercizio d’imbecillità e paranoia simile a quello che aveva visto la Russia in ginocchio sotto le sanzioni, Putin malato e fuori gioco, Ucraina e Ue trionfanti sotto la spinta di una furia popolare antirussa, guidata da una leadership euroamericana rispettata e ammirata ovunque. Beh, abbiamo visto com’è andata qui, e siamo all’inizio di come andrà in Venezuela. 

Limitiamoci agli aspetti militari. Il posizionamento difensivo della squadra navale Usa è dovuto al fatto che il Venezuela dispone della forza armata asimmetrica più moderna ed efficace del continente. Il Paese è pieno di droni, missili supersonici (non ipersonici, per adesso), sistemi di difesa antiaerea S-300 mobili forniti da Iran e Russia negli ultimi venti anni. Armi in grado di trasformare in un fiasco qualunque attacco su larga scala condotto con mezzi militari obsoleti come navi, aerei e truppe da sbarco. La costa del Venezuela è protetta dentro un raggio di 450 km da missili che volano a Mach 2,5 rasente la superficie del mare per evitare i radar. Sono collaudate, convenzionali, armi russe. Assieme ad analoghi sistemi, come PantsirS1 e Buk-M2E, sono sufficienti a tener lontana la flotta Usa senza ricorrere ai missili ipersonici. Una portaerei da 13 miliardi di dollari, equipaggiata con 75 caccia F-35, è una macchina di distruzione insuperabile solo se vicina al bersaglio, immune da droni e missili antinave. Altrimenti è solo un bidone galleggiante, come dimostrato dagli Houthi nella strettoia del Mar Rosso. I loro droni (peraltro primitivi) hanno costretto lo Zio Sam a un umiliante accordo coi ribelli mediato dal Qatar. E a tenere lontane le sue portaerei. I caccia Usa più avanzati non possono volare in numero significativo per distanze superiori alle 300 miglia nautiche senza dover esser riforniti in volo da aerei cisterna facile preda di missili e caccia nemici. 

Avvicinandosi un po’ alla costa, la Ford potrebbe lanciare attacchi limitati, ma le sortite giornaliere sarebbero drasticamente ridotte. Non consentirebbero quei bombardamenti intensivi che fiaccano e demoralizzano l’avversario, e quelle ondate massicce di attacchi necessarie per coprire gli sbarchi con mezzi anfibi: bersaglio più semplice per droni e artiglieria tradizionale. 

Ma il deterrente forse più micidiale consiste nel sistema antiaereo S-300SV di marca russa combinato ai droni armati di fattura iraniana. I droni Ansu-100 e Ansu-200 son stati mostrati a Caracas il 5 luglio 2022 nella parata del giorno dell’indipendenza. Altri droni collaudati in Ucraina e facilmente ottenibili dal Venezuela possono rendere insostenibile il rapporto costo-letalità: un drone russo Fpv da mille dollari, producibile in migliaia di unità trasportabili su un aereo cargo, contro un distruttore Arleigh Burke da 2 miliardi. 

Preso atto dell’impossibilità tattica di un’invasione anfibia e di una campagna di bombardamenti a distanza, il 17 dicembre Trump proclama sul social Truth “il blocco totale di tutte le petroliere sanzionate” che entrano ed escono dal Venezuela. Attenzione: petroliere sanzionate, non tutte le petroliere. Un blocco totale sarebbe, secondo il diritto internazionale, atto di guerra. Limitando il blocco alle navi già sanzionate dagli Usa, Trump cerca di sostenere che esso non è altro che l’applicazione di sanzioni già esistenti. Facile a dirsi, quasi impossibile da farsi. Un blocco efficace richiederebbe molto più di quanto gli Usa abbiano dispiegato. Secondo Tanker Trackers, circa 712 navi in tutto il mondo sono nella lista nera Usa. Quasi 40 si trovano ora in acque venezuelane, di cui 18 cariche di petrolio. 

Il Venezuela ha diversi terminal petroliferi sulla sua costa lunga oltre 2.800 km. Per accerchiarli efficacemente non bastano le 11 navi militari di stanza nella regione. Ne servirebbero 24-36 da tenere in loco a tempo indefinito, con rotazioni che porterebbero il fabbisogno totale a 60-80 navi: più della metà dell’intera flotta americana da combattimento, che dovrebbe controllare accuratamente l’intero flusso, senza danneggiare il traffico commerciale e senza esporsi a incidenti con navi battenti bandiere di potenze nucleari non amiche. E con il rischio, sullo sfondo, di essere in gran parte affondata dal passaggio a una guerra vera e propria. 

Ma il problema non è solo il numero delle imbarcazioni che entrano ed escono dai porti del Venezuela. C’è la questione del pattugliamento delle rotte oceaniche. Gli oceani sono immensi e le navi sono solo dei puntini sulla mappa. Considerando un raggio di mille miglia nautiche dal Venezuela, l’area da monitorare è di circa 11 milioni di km2. Un aereo pattugliatore Poseidon può coprire circa 2.000-2.500 km2 per sortita completa. Con 6-8 Poseidon operativi destinati esclusivamente alle presunte rotte petrolifere, gli Usa possono monitorare efficacemente circa lo 0,15-0,18% dell’area totale. E i satelliti non risolvono il problema: quelli radar ad apertura sintetica (Sar) hanno una risoluzione sufficiente per vedere una nave, ma coprono solo una striscia di 50-100 km per passaggio. Ma i Sar sono solo 15 e possono offrire copertura parziale ogni 12-48 ore, non un monitoraggio continuo. Le navi della “dark fleet” petrolifera sfruttano bene tali limiti. Petroliere associate a Iran, Venezuela o Russia hanno condotto oltre 130 visite nell’area dei Caraibi negli ultimi 30 giorni, coinvolgendo 116 navi, con visite in aumento del 95% anno su anno. 

Torniamo a Caracas e alla sua tranquillità. È evidente che il governo venezuelano dispone degli stessi calcoli strategici e consapevolezza dei limiti operativi americani che ha il Pentagono. Sa che un attacco massiccio e un blocco navale completo sono impossibili da attuare. Non serve perciò proclamare l’emergenza nazionale quando si sa che l’emergenza non c’è. Le decorazioni natalizie nelle strade di Caracas erano semplicemente la risposta razionale di un Paese che ha fatto bene i suoi conti. 

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