mercoledì 3 dicembre 2025

Marxismo ed evoluzionismo - Paolo Crocchiolo

 Da: https://futurasocieta.com - Paolo Crocchiolo, professore dell'Università popolare Antonio Gramsci, già docente di evoluzionismo e filosofia all'Università americana e funzionario dell'Onu. 

Leggi anche. Occidente? No, grazie - Paolo Crocchiolo 


A fronte di letture distorte e fuorvianti del darwinismo, quale quella dei darwinisti sociali che giustificano in senso classista e razzista la “prevalenza del più forte”, una lettura marxista valorizza la parità biologica di tutti i membri della specie umana e vede i tratti comuni dell’evoluzione naturale e di quella sociale. L’esacerbarsi delle diseguaglianze, dovuto al sistema di sfruttamento capitalistico, rende sempre più urgente, anche per salvarci dal rischio dell’estinzione, un ristabilimento della parità di diritti e di opportunità economiche. 

Introduzione

Molto a lungo e ancor oggi, almeno in parte, il pensiero di Darwin non ha goduto e non gode di buona fama tra i marxisti e gli intellettuali di sinistra in generale. Questo perché, contrariamente alle intenzioni dello stesso Darwin, la sua teoria, principalmente a opera di Herbert Spencer, è stata rappresentata in forma semplicistica, anzi del tutto travisata mediante espressioni decontestualizzate quali “la sopravvivenza del più adatto” che si prestava alla facile, benché del tutto impropria traduzione di “sopravvivenza del più forte”; il che nel secolo scorso ha contribuito ad aprire la strada a posizioni eticamente inaccettabili quali l’eugenetica e, ancor prima, la “missione civilizzatrice” dell’Occidente.

Le più recenti acquisizioni nel campo dell’evoluzionismo hanno, invece, smantellato la falsa rappresentazione del darwinismo e i pregiudizi che ancora persistono sulla sua presunta incompatibilità con la Weltanschauung marxista. Anzi, il marxismo per molti aspetti si colloca in perfetta continuità con il pensiero di Darwin. Infatti, l’evoluzionismo modernamente inteso, dimostrando la parità biologica di tutti gli esseri umani, può rappresentare una valida piattaforma scientifica per sostenere la lotta contro ogni forma di discriminazione economica e sociale dei più vulnerabili, fondata sul presupposto di una loro presunta inferiorità e quindi addotta a giustificazione del loro sfruttamento. 

L’evoluzione dell’uomo

Il percorso evolutivo delle specie ominidi e di H. sapiens in particolare rappresenta un unicum fra tutte le forme di vita apparse sulla terra. Lo spostamento dei primati nostri antenati nelle savane a est della Rift Valley rispetto a quelli rimasti nelle boscaglie a ovest della stessa svolse un ruolo determinante nel favorire l’emergere e il progressivo consolidarsi della stazione eretta. Il fatto che l’uomo fosse l’unico bipede fra tutti i mammiferi terrestri condizionò a sua volta tutti i successivi sviluppi biologici, sociali, economici e infine culturali delle specie ominidi e, in particolare, di H. sapiens.

La libertà delle mani, trasformate in fini strumenti di mobilità, soprattutto attraverso l’opposizione del pollice alle altre dita, costituì il presupposto decisivo per la fabbricazione e l’uso degli strumenti e, al tempo stesso, innescò e favorì la parallela tendenza all’ingrandimento della massa encefalica e, in primo luogo, della corteccia cerebrale. Da cui il passaggio, attorno ai 10.000 anni fa, da società di cacciatori e raccoglitori a società di agricoltori e allevatori e la nascita di aggregazioni umane più vaste del branco o della tribù iniziali, grazie all’incremento demografico conseguente alla possibilità di accumulazione dei beni. Quest’ultima, d’altra parte, si collocò all’origine della divisione in classi sociali e dello schiavismo (fenomeni non a caso unici della specie umana fra tutte le specie animali), cui in epoche più recenti si affiancò il sistema feudale per poi, con l’affermarsi dell’industria, cedere il passo al lavoro salariato.

Evoluzione dell’evoluzionismo

Due sono le caratteristiche del pensiero di Darwin che sin dall’inizio suscitarono l’entusiastica approvazione da parte di Marx ed Engels: 1. la visione storicistica dell’evoluzione per selezione naturale e 2. l’approccio non teleologico alla stessa (1). Alcune loro perplessità erano invece legate alla lettura distorta e fuorviante del darwinismo da parte dei darwinisti sociali tra cui Herbert Spencer, Carl Vogt ed Eugen Dühring, che tendevano a far rientrare pretestuosamente l’evoluzionismo nella logica reazionaria, classista e razzista (la cosiddetta “prevalenza del più forte”) imperante nella società borghese di fine Ottocento. Vogt e Dühring, in particolare, furono oggetto di una vivacissima e polemica contestazione da parte di Marx ed Engels (2). 

Lungo tutto il secolo successivo si assistette, poi, a un susseguirsi di scoperte scientifiche parallelamente a uno sviluppo di interpretazioni filosofiche tra cui prevalsero, di volta in volta, quelle materialistiche volgari del vecchio positivismo, quelle idealistiche alla Bergson o alla Teilhard de Chardin e quelle materialiste dialettiche ispirate al marxismo come la scuola britannica e sovietica degli anni ’20 e ’30 e quella americana di Stephen J. Gould alla fine del secolo scorso. 

Le scoperte più recenti tendono a confermare la validità di queste ultime. Infatti, la stretta interconnessione dialettica fra natura, società e cultura costituisce la base delle moderne teorie ecosocialiste di pensatori marxisti quali Sebastiano Timpanaro (3), John B. Foster, David Harvey e Jason Moore. 

Negli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale la scienza evoluzionistica vide l’affermarsi della genetica delle popolazioni, che da una parte ebbe il merito di contribuire alla cosiddetta nuova sintesi e porre le basi dell’altruismo genetico, smantellando secoli di teorie basate sull’egoismo “innato”, giustificativo del sistema capitalista e quindi delle differenze di classe, dello sfruttamento, del colonialismo e dell’imperialismo. Le ricerche condotte a partire dalla metà del secolo scorso da Hamilton, Trivers, Wilson e altri sull’altruismo genetico contribuirono, infatti, a screditare sempre di più lo stereotipo dell’homo homini lupus che pretendeva di individuare dogmaticamente nell’egoismo individuale un tratto fondamentale della cosiddetta “natura umana”.

In realtà, tale concezione era nata ai tempi di Hobbes quale potente supporto ideologico del nascente capitalismo e in quanto tale si era andata affermando sempre più nei secoli successivi con il progressivo affermarsi dell’accumulazione privata dei beni nelle società industriali. Ma la scienza ha ormai dimostrato che la flessibilità genetica, massimamente sviluppata in H. sapiens, e contrariamente alle interpretazioni rozzamente positiviste ottocentesche e, oggi, riduzioniste e meccaniciste, determina la possibilità di un manifestarsi di attitudini prevalentemente egoiste o altruiste a seconda delle circostanze, dato il potenziale adeguamento delle pulsioni istintuali alle situazioni materiali cui si è esposti durante il percorso vitale, ma anche la potenziale adattabilità delle sovrastrutture ideologiche agli interessi della classe sociale d’appartenenza.

Dall’altra, però, la nuova sintesi restava fermamente ancorata a una visione meccanicista-riduzionista che vedeva i geni come elementi determinanti in larga misura svincolati dall’ambiente, sia esterno che interno agli organismi viventi. Tale visione trovò apparentemente conferma nella scoperta del Dna negli anni ’50. Ma, a partire dagli anni ’60 e, in particolare, dalle scoperte dei premi Nobel F. Jacob e J. Monod, sempre più si evidenziò il carattere flessibile dei geni e il loro rapporto dialettico di interdipendenza e continua interazione con gli stimoli ambientali cui sono via via esposti. Anzi, gli studi di epigenetica giunsero a considerare i geni come strumenti in grado, da un lato di costruire l’organismo secondo un impianto progettuale che è loro insito, ma dall’altro capaci, nel corso della vita dell’organismo, di modulare puntualmente la loro attività adattandola, mediante i meccanismi dell’attivazione e inattivazione, alle condizioni ambientali concrete (per es. le diverse quantità di luce e di calore cui sono esposte due piante diverse, ma identiche sul piano genetico). Da cui si poté evincere anche la profonda dialetticità, nel senso di una continua influenza reciproca, di natura, società e cultura. 

A partire dall’inizio del nostro secolo, genetisti e paleoantropologi hanno poi sviluppato un consenso pressoché unanime nel considerare il razzismo come mito ormai del tutto obsoleto. L’imperialismo, il colonialismo, il neocolonialismo e il capitalismo in generale, per giustificare le disparità economiche e sociali su cui si fondano, e peraltro da essi stessi create, si richiamano invece a questa mistificante e anacronistica chiave di lettura della realtà umana, ignorando totalmente l’ormai scientificamente inoppugnabile omogeneità biologica della nostra specie (del cui genoma ciascuno di noi non è che una variante individuale), nonché la nostra comune e relativamente recente origine africana.

L’evoluzionismo dialettico

La rivoluzione apportata dalla scuola di Gould alla scienza evoluzionistica poggia su tre pilastri fondamentali:

1. la teoria degli “equilibri punteggiati” (punctuated equilibria)

2. la teoria degli “esattamenti” (exaptations)

3. la teoria delle specie come “superorganismi” (species sorting).

L’impianto dottrinale che sottendeva il pensiero di Gould consisteva in una revisione e rielaborazione della logica darwiniana riguardante il problema di fondo dell’origine delle specie, alla luce delle scoperte del secolo successivo alla morte del maestro. Già negli anni ’60 del ’900 Ernst Mayr, importante esponente della nuova sintesi, aveva introdotto i concetti di deriva genetica, speciazione allopatrica ed effetto del fondatore, con cui s’indicava la possibilità che le specie si differenziassero in seguito a un allontanamento geografico dagli altri di un gruppo dei loro membri, il che da una parte favoriva l’affermarsi di mutazioni adatte al nuovo ambiente e, dall’altra, impediva che tratti genetici particolari dei soggetti geograficamente distaccati dagli altri fossero riassorbiti mediante il rimescolamento che sarebbe avvenuto se il distacco geografico non ci fosse stato.

Gould si spinse più in là, sostenendo che la carenza di reperti fossili riscontrabili nel passaggio da una specie alla successiva non fosse tanto dovuta a fattori casuali (cioè al mancato ritrovamento dei reperti), ma a lunghi periodi “d’incubazione” in cui maturavano mutazioni di per sé non determinanti fino a che un accumulo di tali mutazioni riunite in una particolare combinazione non dava luogo, nel suo insieme, a un “salto di specie”, cioè a un cambiamento complessivo del genoma che costituiva una nuova specie. Esempi di questa dinamica si erano, infatti, osservati in esperimenti compiuti sui batteri.

Questa interpretazione data da Gould e collaboratori fu ed è in parte tuttora contestata da altri scienziati in nome del cosiddetto “gradualismo”, che considerava l’origine di nuove specie a partire dalle specie progenitrici come dovuta a un graduale verificarsi di mutazioni in tutti i suoi membri, il che non spiegava, tuttavia, la mancanza di specie intermedie come si diceva prima. Secondo la scuola marxista, invece, il gradualismo rifletterebbe una visione conservatrice della scienza borghese, inconsciamente tesa a escludere possibilità del lavorio sotterraneo di tutta una serie di fattori di cambiamento che, interessando una massa critica di individui, porterebbe infine a esplosioni rivoluzionarie, sul modello della storia delle società umane.

Quanto all’exaptation, si trattava di un carattere precedentemente modellato dalla selezione naturale per una particolare funzione (cioè un adattamento), che viene cooptato in quanto utilizzabile per altre funzioni in una fase di sviluppo successiva. Gli esempi sono innumerevoli (dal sistema muscolare al linguaggio verbale alla scrittura ecc.). Gould in un famoso articolo (4) paragonava questo fenomeno ai “pennacchi di S. Marco”, in cui un effetto collaterale dell’adattamento architettonico di un transetto (quadrato) a una cupola (rotonda) si traduceva nella formazione di quattro pennacchi di raccordo (spandrels) che, a loro volta, spesso venivano poi “riciclati” come spazi occupabili da immagini pittoriche come i quattro evangelisti, ecc.

Infine, molto importante era anche la visione dialettica dello species sorting, ovvero selezione delle specie viste come superorganismi, nel cui ambito gli individui singoli presi in sé non hanno alcun senso, ma sono dialetticamente collegati con la collettività, la quale però, a sua volta, non può esistere senza i singoli. E questo riguardava non solo gli insetti sociali, ma anche tutte le altre specie, compresi i mammiferi e l’uomo.

Le deduzioni filosofiche che due allievi di Gould, Richard Levins e Richard Lewontin (5), traevano da queste premesse erano molteplici:

1. L’interdipendenza fra le fasi di sviluppo dell’unità corpo-mente, geneticamente predisposte nelle loro tappe fondamentali, e l’influsso che su di essa esercitano, plasmandola e orientandola, le condizioni naturali, sociali e culturali.

2. In questo contesto, l’interazione dialettica fra la soggettività del singolo e l’oggettività dell’ambiente, di cui è parte integrante la soggettività degli altri.

3. Gli influssi socio-culturali (ideologie, religioni, ecc.) che agiscono sulla plasmabilità della mente, a sua volta evoluta e predisposta geneticamente a impregnarsene e che rappresentano in un certo senso i surrogati psichici delle mutazioni fisiche, ma a differenza di queste ultime sono acquisiti e quindi non irreversibili, cioè non costituiscono uno κτῆμα ἐς αἰεί, ma possono modificarsi a seconda delle circostanze cui individui e collettività sono esposti nel corso della loro esistenza.

4. Secondo la visione degli equilibri punteggiati, le mutazioni genetiche che si accumulano in ciascuna specie devono raggiungere, quantitativamente, una certa soglia critica e, qualitativamente, una certa configurazione sinergica per poter dar luogo all’evento “rivoluzionario” della nascita della nuova specie. Analogamente, gli eventi rivoluzionari che si susseguono nella storia dell’uomo presuppongono lo sviluppo “sotto traccia” di una combinazione di elementi soggettivi e oggettivi, tra loro dialetticamente interagenti, in assenza di uno dei quali (per es. la massa critica di proletari che prendono coscienza di classe unita alle condizioni materiali oggettive che a loro volta concorrono a crearla), la rivoluzione abortisce (es. Jacqueries).

Infine, Levins e Lewontin sottolineavano che la sovrastruttura ideologica condiziona anche le visioni scientifiche nel senso di indirizzare la ricerca in una certa direzione funzionale agli interessi delle classi dominanti (per es. la ricerca bellica, non solo oggi ma ai tempi di Archimede o di Leonardo, la ricerca biomedica indirizzata alla produzione di cosmetici invece che di medicine di base e salvavita per malattie relegate al terzo mondo, mercato evidentemente non redditizio, ecc.).

Rientrano in questo quadro anche le problematiche inerenti alla cosiddetta “intelligenza artificiale”. Una macchina non costruita su un substrato “Dna-cellulare” e che, pertanto, non è sottoposta agli stessi condizionamenti in funzione dei quali si è selezionata, cioè di nascere, mantenere il suo equilibrio omeostatico indispensabile alla sopravvivenza, crescere e, potenzialmente, riprodursi, è un oggetto radicalmente diverso rispetto a un organismo biologico. Detto ciò, la robotica, come le altre conquiste della scienza, non è positiva o negativa di per sé, ma solo in rapporto all’uso che se ne fa e quindi al contesto sociale e politico in cui è inserita. Le “macchine intelligenti”, diffusamente adottate in un contesto di equa distribuzione delle risorse, potrebbero essere utilissime a ridurre i tempi e la fatica del lavoro per tutti, permettendo all’insieme degli esseri umani di dedicarsi ad attività creative e gratificanti. Se, invece, inserite nell’attuale contesto dell’economia del profitto, non avranno altro effetto se non d’ingrossare le file dei disoccupati senza minimamente ridurre la fatica e i tempi di lavoro degli occupati (6).

In conclusione, e partendo da tali presupposti, l’esacerbarsi dovuto alla globalizzazione capitalistica in corso delle diseguaglianze, della massimizzazione dei profitti e del sistema dello sfruttamento, basati sulla depredazione della forza-lavoro umana oltre che delle non illimitate risorse naturali, rende sempre più urgente, anche per salvarci dal concreto rischio dell’estinzione, un ristabilimento della parità di diritti e di opportunità economiche che rifletta la parità biologica di tutti i membri della nostra specie.

Riferimenti:

(1) Marx, K.: Capital. Penguin, London (1981) Vol.3, p. 949

(2) Marx, K.: Herr Vogt. Petsch & Co, London (1860)

(3) Timpanaro, S.: Sul materialismo. Unicopli, Milano (1997)

(4) Gould, S. J. e Lewontin, R.: The spandrels of San Marco and the Panglossian paradigm: a critique of the adaptationist programme.Proceedings of the Royal Society of Biological Sciences (1161): 581–598 (1979)

(5) Levins R. e Lewontin R.: The Dialectical Biologist. Aakar Books, Delhi (2009)

(6) Crocchiolo, P.: https://www.lacittafutura.it/unigramsci/intelligenza-artificiale-e-intelligenza-naturale (2023)

Nessun commento:

Posta un commento