Per quanto si possa essere in disaccordo con svariate posizioni prese negli anni, per me Limes resta una sorta di oggetto raro, oserei dire un lusso, dentro un paese che vive di politica estera come vive di meteorologia, a spanne, per sentito dire. Iniziai a leggerla dai primi anni Duemila, conscia che lì non avrei trovato il coraggio di una posizione netta, ma anche convinta che l’Italia, fuori da riviste di settore più specialistiche e quindi più ostiche nella lettura e spesso filoatlantiste, abbia avuto a disposizione poche cose capaci di tenere insieme mappe, storia, interessi materiali, rapporti di forza, senza scadere nel bollettino militare di giornata.
Sull’Ucraina, per esempio, Limes è stata utilissima. Per quanto i social sembrino un coacervo di tuttologi, in realtà dobbiamo ricordarci che in media si conoscono bene 2-3 argomenti. Io ho sempre studiato, sul lato storico, il medio oriente, quindi, prima dell’invasione russa, dell'Ucraina avevo in testa un bagaglio da liceo mal digerito e qualche nome lanciato in aria, Stalin, il salto nel vuoto di Janukovyč, un’idea vaga di frontiera postsovietica, ma avrei saputo nominare giusto due regioni. Poi arriva la guerra e ti accorgi che “sapere” significa sapere poco, oppure sapere male. Limes ti mette davanti cartine, geografie energetiche, dati concreti e analisi e ti fa vedere dove finisce la retorica e dove iniziano i vincoli storici. Anche quando sbaglia, è successo, anche a Caracciolo, almeno sbaglia davanti ai fatti, con un testo firmato e una presa di responsabilità.
IL FUGGI FUGGI, COSI', "DE BOTTO"
Negli ultimi giorni quattro nomi illustri hanno sbattuto la porta, denunciando un insostenibile "filoputinismo" strisciante fra le pagine dirette da Lucio Caracciolo. Il generale Vincenzo Camporini, già capo di Stato maggiore e oggi responsabile Difesa per Azione, ha dichiarato al Corriere: «Non potevo restare un minuto di più accanto a tutti quei filoputiniani sfegatati». Si, a me ha fatto ridere, un po'. Non troppo. Dietro a queste parole, via social, abbiamo saputo delle sue dimissioni dal Consiglio scientifico di Limes. Il motivo? L’incompatibilità con quella che definisce “la linea politica di mancato sostegno ai principi del diritto internazionale, stracciati dall’aggressione russa all’Ucraina”, insomma, secondo l’ex generale, Caracciolo e soci peccano di ignavia quando c’è da condannare Mosca: troppa equidistanza (in tempi di guerra inventata non si può), se non aperta indulgenza, verso Putin (sic.). Camporini non è solo. Lo hanno preceduto di poche ore Federigo Argentieri (politologo della John Cabot University), Franz Gustincich (analista) e Giorgio Arfaras (economista), veterani dei comitati di Limes. Anche loro, con un telegramma gelido, hanno chiesto la rimozione immediata dei propri nomi dalla prestigiosa testata. Si sono svegliati tutti assieme, così, "de botto". Una defezione collettiva mai vista in oltre trent’anni di storia della rivista, paragonabile a un ammutinamento in piena regola. Il professore Argentieri, penna presente sin dal primo numero del 1993, ha spiegato ad Adnkronos di aver maturato una scelta “politica e morale”, dettata dall’escalation della guerra in Ucraina e dall’impossibilità di tollerare oltre il bias anti-Kiev del magazine: «Il vero problema è il pregiudizio strutturale che la rivista ha nei confronti dell’Ucraina da oltre vent’anni», accusa Argentieri Già dalla Rivoluzione Arancione del 2004, a suo dire, Limes avrebbe assunto una postura diffidente se non ostile verso Kiev. Ci ha messo solo 21 anni per farlo presente. In passato la rivista avrebbe persino ospitato contenuti discutibili come L’autobus di Stalin di Antonio Pennacchi, “un’orrenda apologia cinica del dittatore”, proprio mentre altrove si denunciavano i crimini staliniani in Ucraina. Insomma, una linea editoriale giudicata filorussa ante litteram, divenuta per Argentieri “irrespirabile” nel contesto attuale: «La copertura mediatica sull’Ucraina ormai è una nube tossica che avvelena il pubblico» ha dichiarato, puntando il dito contro Caracciolo come responsabile di contribuire alla disinformazione invece di combatterla.
PERCHÉ CI DOVREBBE INTERESSARE?
Perché un manipolo di folli rischia sul serio di portarci in guerra. I segnali ci sono tutti. Questi ammutinamenti puzzano di presa di distanza a due passi dall'abisso. Come se in guerra ci fossimo già, e forse ci siamo davvero.
IL CASO JACQUES BAUD
In tutta Europa infuria la guerra dell’informazione parallela a quella combattuta con i tank sul campo. Bruxelles, ad esempio, ha adottato misure senza precedenti contro i "supposti" propagandisti filorussi. L’ultimo pacchetto di sanzioni UE ha colpito non solo oligarchi e generali di Mosca, ma persino un insospettabile analista svizzero, Jacques Baud. Ex colonnello dell’esercito elvetico e già consigliere d’intelligence ONU, Baud si è ritrovato nella black list di guerra dell’Unione. Il Consiglio UE lo accusa di fungere da “portavoce della propaganda filorussa” e di diffondere teorie complottiste, ad esempio l’idea che “l’Ucraina abbia orchestrato la propria invasione per aderire alla NATO”. Che poi visto il Nord Stream non appare neanche un'ipotesi così estrema. In altre parole Bruxelles ha bollato Baud come un pericoloso influencer di Putin, rendendolo bersaglio di sanzioni personali: congelamento dei beni e divieto d’ingresso nell’UE, alla stregua di un oligarca qualunque. Chiunque ponga dei dubbi rischia seriamente. Si rischia per Gaza, vedi Albanese, si rischia per la Russia. Se oggi nel mirino c’è un ex colonnello con idee sgradite, argomentano i critici, domani potrebbe toccare a un giornalista, a un accademico, a chiunque osi scostarsi dalla narrativa ufficiale. Nel fervore bellico, osservano con preoccupazione, “censure e liste di proscrizione non bastano più”: si invocano “condanne alla morte civile” sul modello di quelle che Stati Uniti e Israele riservano ai dissidenti interni. Ecco perché ci interessa.
C’è quasi un’ironia storica in tutto ciò. In piena Guerra Fredda gli uomini come Caracciolo venivano additati come “compagni che sbagliano” o utili idioti di Mosca per il solo fatto di non allinearsi alle narrazioni atlantiche. Oggi, a distanza di mezzo secolo e con una Russia molto diversa, gli epiteti cambiano di poco: putiniani, filorussi, anti-NATO.
Se siamo davvero migliori di Putin, dovremmo dimostrarlo anche tollerando qualche voce fuori dal coro, fosse pure la fastidiosa zanzara di un geopolitico con la sua mappa colorata. E invece non siamo migliori di Putin. Siamo sullo stesso piano. Talmente sullo stesso piano che sembra scattare quel narcisismo delle piccole differenze di cui parlava Freud.
USCIRE TUTTI INSIEME
Con la guerra sullo sfondo, la complessità diventa sospetta, e allora un gesto netto fa uscire dalle liste di proscrizione. Sono tempi duri, durissimi per chi tira a campare. il clima premia chi dichiara appartenenza e punisce chi insiste sul dubbio metodico. Le sanzioni Ue presentate come risposta alla “manipolazione informativa” raccontano una stagione in cui l’esecutivo aspira a decidere anche la legittimità delle voci. In una stagione così, restare dentro una rivista accusata di ambiguità diventa un rischio identitario, e il modo più rapido per trasformare quel rischio in virtù è uscire insieme, fare massa, in parole più eleganti: pararsi il cxxo!
Nessun commento:
Posta un commento