In italiano
possiamo dire <quella persona non ha carattere>, per intendere che
su quella persona non si può contare - in particolare nel caso si tratti di
assumere un qualche atteggiamento deciso, di mostrare una certa risolutezza
e volontà e continuità
nella decisione presa. Una persona che non ha carattere ha in sé qualcosa di
indefinito, non è né questo né quell’altro ed, in tal senso, possiamo anche
dire che <quella persona non esiste>, appunto perché né è
definibile in modo sufficientemente preciso, né ha ‘il polso’, la ‘robustezza
morale’, che ci si attende da una persona, che sia effettivamente tale.
Tuttavia, potremmo
(e dovremo) dire che quella stessa persona tuttavia esiste: però
nel senso particolare, che mi sembra ben precisato in questa pagina, scritta da
Sartre nel 1943:
“(la persona) è
in quanto evento, nel senso che posso dire che Filippo II è stato; che
il mio amico Pierre è, esiste; è in quanto compare in una situazione che
egli non ha scelto; in quanto Pierre è un borghese del 1942 e Schmitt era,
invece, un operaio berlinese del 1870; egli è, perché gettato nel mondo,
abbandonato in una ‘situazione’; è, in quanto pura contingenza; è nella misura
in cui –per lui, come per tutte le cose di questo mondo -per questo muro, per
questo albero, per questa tazza-, è legittimo porsi la questione originaria
<perché questo essere qui è così e non altrimenti?> Esso è
nella misura in cui vi è qualcosa di cui esso stesso non è il fondamento,
ovvero la sua presenza al mondo.” [1]
Lo sappiamo, al
senso ed al linguaggio comuni può capitare di trasmettere, sia pure in modo
largamente inconsapevole, una saggezza,
a volte perfino profonda -ed è
questo, appunto, che capita nel nostro caso.
Cosa ci insegna,
infatti, quel comune uso linguistico, che abbiamo richiamato e che stiamo
esaminando?
Che una persona mancante di carattere non esiste propriamente; ma, anche, ci mostra come questo sia un giudizio che generalmente diamo di persone, le quali in un altro senso -ovvero empiricamente- tuttavia esistono, son presenti, stanno lì, possono essere indicate a dito; ovvero, persone di cui potremmo scattare una foto, che potremmo sentir parlare, ecc.
Che una persona mancante di carattere non esiste propriamente; ma, anche, ci mostra come questo sia un giudizio che generalmente diamo di persone, le quali in un altro senso -ovvero empiricamente- tuttavia esistono, son presenti, stanno lì, possono essere indicate a dito; ovvero, persone di cui potremmo scattare una foto, che potremmo sentir parlare, ecc.
Persone, insomma, di cui potremmo avere, come si dice, esperienza, che potrebbero
essere, appunto, quel Pierre o quello Schmitt, di cui Sartre diceva.
Linguaggio e
senso comune sembrano, dunque, distinguere due sensi del termine esistere:
l’uno, che potremmo definire debole, l’altro forte.
In senso
debole, essere, esistere stanno ad indicare una mera presenza,
la cui fondamentale caratteristica è l’indeterminatezza, l’opacità, la
vischiosità.
In senso
forte, al contrario, essere, esistere implicano più che la
semplice presenza, perché comportano la capacità, da parte di ciò che esiste,
di orientarsi, di organizzarsi, di perseverare nella prospettiva di un
risultato da raggiungere.
L’essere in
senso forte, dunque, non è gratuito, ovvero, la sua presenza ha un
senso, una prospettiva, rispetto alle quali si organizza, si muove,
s’impegna, ordina se stesso, dunque, dà a se stesso una
razionalità.
In una parola
possiamo dire che ciò che esiste in senso forte, ciò che non è semplice
presenza, ma è effettivamente reale, quello, nello stesso tempo e
proprio perciò, è razionale.
In fin dei
conti, usando questa formula (ciò che è reale è razionale) non diciamo
altro, se non che ciò che è reale è, appunto, reale e che razionale
è quell’esistente, che non si esaurisce nel semplice ‘star là’, nel mero
‘esserci’, perché invece è qualcosa di strutturato o, meglio, qualcosa che
va strutturandosi diacronicamente, per porsi in condizione di giungere
al risultato, a cui tende a pervenire.
Come si vede, la
duplice formula hegeliana (ciò che è reale è razionale e ciò che è
razionale è reale) dice qualcosa, che è ricavabile dallo stesso linguaggio
comune; qualcosa che, in nessun caso, implicita il sacrificio del mondo effettuale
in nome di una ragione onnivora.
Al contrario,
quella duplice formula se da un lato recupera e chiarisce (rispetto al pensiero
comune) la distinzione tra esistenza in senso debole ed esistenza in senso
forte, dall’altro mostra, fuori di ogni possibile dubbio, che lo spazio della razionalità
coincide con quello di ciò che realmente è, di ciò che esiste in senso
forte, insomma della realtà stessa.
Il senso della
duplice formula hegeliana, dunque, non ha nulla della trascendenza idealistica,
perché piuttosto è la ferma, orgogliosa affermazione che non esiste spazio
della razionalità che non sia quello della realtà, e che non ha senso una
razionalità che non coincida con la realtà, appunto.
E’ interessante
cogliere subito la relazione che esiste tra la duplice formula hegeliana e la
critica –così frequente nello stesso Hegel- al moralismo dell’<anima
bella>.
Se, infatti, si
parla veramente di realtà quando ci si riferisce non ad una semplice presenza,
ma ad un complesso che –sia pure contraddittoriamente e per vie indirette (Umwege)-
si muove verso la realizzazione piena di sé, allora è chiaro che, per il
filosofo (per chi voglia rendersi conto dei processi reali), il problema non
sarà mai quello di valutare il movimento obiettivo, ponendolo di fronte al
tribunale della sua propria, soggettiva ragione.
Al contrario, il
problema e il compito del filosofo (nel senso chiarito sopra) sarà sempre
quello di riuscire ad afferrare ed esprimere con chiarezza quali sono le effettive
‘linee di movimento’ del processo in esame, quali le ‘torsioni e
tensioni’ che ne determinano la dinamica e perché ciò avviene. Comprendere tutto ciò, a sua volta, sarà
possibile, se si riuscirà a cogliere qual è la regola fondamentale, che
ordina “il movimento della cosa stessa”.[2]
Il filosofo,
dunque, giudica il fatto, l’evento. Ma lo giudica nel senso che ne mette
in luce il senso, la prospettiva, la dinamica di cui è parte, da cui è
mosso e che contribuisce a realizzare; il filosofo giudica, nella stessa misura
in cui comprende quale sia la linea di movimento della cosa stessa.
L’anima bella,
il moralista, invece, giudica, ma nel senso che pretende sottrarsi alla storia,
al movimento, per valutarlo rispetto ad una regola, che non è della cosa,
ma sì del suo arbitrio, del suo intelletto –una regola, che il soggetto stesso
ha elevato a questo rango, in seguito ad una sua decisione, ad una sua
preferenza: dunque, in modo del tutto arbitrario e casuale rispetto al movimento
effettivo.
Per non
incorrere in fraintendimenti, di cui spesso per altro il pensiero di Hegel è
stato vittima, è bene precisare subito quale sia l’oggetto della riflessione
hegeliana.
L’orizzonte del
pensiero di Hegel è lo svolgersi dell’esperienza e, dunque, il processo
storico di formazione dell’uomo,
in quanto Gattungswesen o ente sociale, collettivo[3].
Insomma,
l’oggetto della riflessione di Hegel è la storia dell’uomo e, in particolare,
di quelle fasi critiche, che segnano il passaggio da una tappa all’altra del
processo di auto-costruzione dell’umanità; ciò che Hegel studia, potremmo dire,
è la scena della difficile costruzione dell’uomo in quanto Sé, in quanto Soggetto;
ovvero il dramma, di cui Hegel dà conto,
è quello della continua fatica dell’uomo per realizzarsi come Soggetto, che
esce da e supera l’Außersichsein (l’essere-esterno-a-sé).[4]
Com’è noto, l'esplicita
distinzione fra teoresi e politica, fatta in base alle finalità
(rispettivamente, il vero e/o la vittoria, il potere, l'utilità), è d'origine
aristotelica.
Se
per questo rispetto -della formalità-, secca è l'alternativa (o puo' esserlo)
fra le due attività (la teoretica e la politica), non meraviglia certamente
che, nell'ambito della prospettiva dialettica, l'atteggiamento sia, invece,
quello di chi ricerca la mediazione fra i due opposti.
In
linea generale, infatti -come mostra bene lo stesso Leibniz-, l'atteggiamento
dialettico consiste, appunto, nell'assumere l'opposizione (o la contraddizione,
la contrapposizione, la dissonanza, lo scarto, ecc.) come una sorta di sfida
alla ragione, come quell'occasione privilegiata, che consente alla ragione
appunto di svolgersi, di arricchirsi di ulteriori modalità e forme, insomma, di
mostrare la propria plastica capacità di tutto penetrare, mediare e sviluppare.
La ragione
dialettica, infatti, non sta essenzialmente nei contenuti, che storicamente essa riconosce e accoglie ma che, volta
a volta, possono esser messi in questione (e lo sono di fatto) da nuove
credenze ed atteggiamenti, decisioni.
La ragione
dialettica, piuttosto, è una certa forma,
che si raffina, complica ed arricchisce nell'impegno a superare cio', che
sembra contraddirla o, meglio, cio' che si presenta in opposizione, in
dissonanza con i suoi contenuti storicamente definiti. Ed è esattamente di
questo tipo l'atteggiamento, che la ragione dialettica assume di fronte all'opposizione
fra teoresi e politica, tra filosofia e pratica.
Nell'Enciclopedia[5], Hegel scrive che
lo spirito è attività; ma poiché lo spirito è attivo, allora si esteriorizza;
non bisogna, dunque, esaminare lo spirito come un ente senza processo, come
avveniva nella metafisica antica, la quale divideva l'interiorità di dio
aprocessuale dalla sua processualità; al contrario, lo spirito va esaminato
essenzialmente nella sua concreta realtà, nella sua energia, e le sue
esteriorizzazioni vanno riconosciute come determinate dalla sua interiorità.
Abbiamo qui un chiarissimo documento dell'immanentismo dialettico che, da
un lato, riconosce la differenza fra spirito ed esistenza effettiva (dunque non appiattisce, non riduce l'una
all'altro, non perde la differenza, ma la
mantiene); dall'altro lato, pero', fa dell'uno la condizione, il
completamento dell'altra, per cui il processo reale -che non è se non questo
inverarsi dello spirito nell'esistenza (Dasein)
e potenziarsi dell'esistenza nello spirito (Geist)- è l'effettiva realtà dello spirito stesso.
Il processo non
è, dunque, un contrapposto dello spirito, che vada forzatamente ricondotto alla
stabilità della regola; non è un semplice contingente privo di senso, casuale,
assurdo; piuttosto il processo è il farsi
reale dell'intimità dello spirito, è il momento in cui effettivamente questa intimità esiste.
Così come
dall'altra parte, è solo perché attraverso di essa è lo spirito che si mostra,
è solo per questa ragione o condizione, che l'esistenza (il Dasein) acquista senso e peso effettivi.
Come si vede, giusta la prospettiva dialettica, lo spirito da morta cosa,
irrigidita e fissa, diviene energia, diviene la ragione, il logos del processo, del divenire. Come,
per l'altro verso, quest'ultimo, a sua volta, da semplice, gratuito mutamento
diviene, invece, svolgimento, esplicazione, esteriorizzazione della regola.
E' in forza di
tale mediazione, di tale compenetrarsi di contingenza e necessità, di mutamento
e di permanenza, di deviazione e di regola, è in forza di ciò che il cambiamento -sottolinea Hegel nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia[6]- è qualcosa che
resta identico a sé, perché non è il rigido contrapposto dell'universale, con
la sua necessità, ma piuttosto è momento
dell'universale stesso, dunque, si colloca all'interno di esso.[7]
A questo
scenario universale di compenetrazione degli opposti, a questo gioco di
continuo rinvio di un opposto al proprio opposto, appartiene l'esperienza
umana, che è sempre espressione della conflittuale relazione fra uomo/ altro
uomo (società) e natura.
Per tornare al
motivo iniziale, ciò che è reale è razionale, significa in definitiva
che Hegel non condivide una visione atomistica del reale stesso, come aggregato
di puntuali presenze irrelate; sì piuttosto, nella sua prospettiva, reale
è una sorta di socialità di enti e processi, la cui connessione non è
per caso, in quanto risulta, invece, dallo svolgersi del movimento
orientato[8], che comprende in
sé e spiega ogni sua parte (fenomeno o processo, che sia).
Ed allora è
corretto, com’è stato fatto più volte, sottolineare l’opposizione hegeliana ad
ogni filosofia del finito ed, in questo senso, la sua opposizione
all’Illuminismo.[9]
Ciò è corretto,
ma a condizione che non si perda di vista che la polemica hegeliana è contro la
filosofia del finito, nel senso di una teoria che pretende di dire così
e così (ovvero, finita) è l’essenza del reale.
Se invece
l’affermazione del finito, della differenza e della separazione si colloca sul
piano delle scienze particolari (Einzelwissenschaften), non solo Hegel
non ha obiezioni da muovere, ma addirittura mostra nelle sue pagine di aver
fortissima la consapevolezza che il sapere, che quelle scienze forniscono è necessariamente
e legittimamente circoscritto entro la dimensione del finito, del
convenzionale ed appartiene, dunque, all’atteggiamento[10] dell’intelletto
(o della percezione), non ancora dunque a quello della ragione.[11]
[1] - J-P. Sartre, L’Etre et le néant, Paris
Gallimard 2001: 115.
[2]
- Ad es., il mantenimento o, addirittura, la crescita del tasso medio di
profitto, nel quadro del modo capitalistico di produzione.
[3]
- L’espressione Gattungswesen la
troviamo anche nel giovane Marx, utilizzata nel senso che abbiamo visto. Si
consideri che il termine Gattung
rimanda al tedesco antico Gatte (=
compagno) e a gatten (= unirsi). Si
noti quanto scrive O. Pöggeler: “Poiché Hegel vede attuata (la) <natura>
nella vita etica e statuale di un popolo, può accogliere anche la filosofia
politica classica di un Platone e di un Aristotele, facendo propria la
convinzione aristotelica, secondo la quale il popolo è più conforme del singolo
alla natura, e opponendosi alle teorie giusnaturalistiche moderne che
prendevano le mosse dal singolo.” (O. Pöggeler, Hegel,
L’idea di una fenomenologia dello spirito, Napoli
Guida 1986: 99).
[4]
- La volontà individuale si esprime come “Triebe, Begierde, Neigungen … secondo
la terminologia che appartiene alla tradizione settecentesca delle teorie della
socialità, o a teorie in cui l’immediata adesione alle norme che regolano una
situazione di convivenza tra individui indipendenti venga attribuita ad
un’astratta ‘natura umana’.” (Cafagna,
8462: 28). Hegel legge con attenzione il
Neuer Emil di Feder; da
Thaulow Cafagna ricava: la filosofia ascrive ad un uomo una Begierde, quando si rappresenta
qualcosa come per lui necessaria e bene,
con la conseguenza che cerca di ottenerla; la Neigung è qualcosa che si manifesta di tanto in tanto nei
confronti dell’oggetto della Begierde; Trieb
è l’orientamento attivo della forza,
volta a realizzare qualcosa. (Cafagna, 8462: 28n).
[5] - G.W.F. Hegel, Enzyklopödie
der philosophischen Wissenschaften, Frankfurt/Main 1970: 101a.
[7]
- Per Hegel l’universale non può esistere, se non in quanto si particolarizza.
Dall’altra parte, l’esistenza effettiva del particolare c’è in quanto modo di
presentarsi dell’universale. Potremmo dire che, da un lato, l’universale s’abbassa nel particolare ma che,
dall’altro, il particolare s’eleva ad
universale –si tratta di un duplice movimento, esplicitamente indicato da Marx,
quando spiega il senso di realizzazione
della filosofia.
[8]
- Uno dei termini più frequenti nel vocabolario hegeliano è il verbo bestimmen
(e naturalmente anche il sostantivo Bestimmung, che da esso deriva).
Solitamente, lo si traduce con determinare (e il sostantivo con determinazione),
secondo un’accezione <deterministica>, appunto, del termine. Senonché, in
tedesco bestimmen (Bestimmung) ha una gamma più ampia di
significati, tra cui quello di <chiamare verso>, <orientare>,
secondo una prospettiva non certo deterministica.
[9]
- Per l’Illuminsmo, scrive A. Gargano, L’idealismo
tedesco. Fichte, Schelling, Hegel, Napoli La Città del Sole 1995: 75,
“ogni realtà è un finito separato da un altro
finito, per Hegel nessun finito può esser separato da un altro finito …”
[10]
- Va ricordato che, per Hegel, intelletto e ragione sono, prima
di tutto, due angolazioni, da cui si possono prospettare le cose; sia pure
intesi in questo senso, tuttavia, intelletto e ragione non compaiono per caso sulla scena della
storia, ma sì in quanto si collegano ed esprimono, in un certo modo, il
movimento storico-obiettivo. In ogni caso, resta vero che intelletto e ragione
son punti di vista, orientamenti, attitudini, che incidono nella
valutazione dei comportamenti e nella loro scelta.
[11]
- E’ ben nota l’influenza, che Platone ebbe per la maturazione della
prospettiva dialettica in Hegel; ora, è proprio in Platone (ad es., in Filebo.
17be) che Hegel può trovare un tema, che per lui diverrà centrale: ovvero che
si ha realmente conoscenza, solo quando si abbia conoscenza determinata
(dunque, finita). Insomma, per Hegel, “il tutto può essere pensato, solo
in quanto differenziantesi in se stesso: esso non è che la differenza delle
differenze e, perciò, è identico con se stesso, poiché è la non-identità delle
differenze. In relazione ai generi suddetti, il concetto passa nel
proprio contrario, l’identità passa nella non-identità che, in quanto tale, di
nuovo è identità: dunque, identità della non-identità.” (H.H. Holz, “Gegensatz und
Reflexion zum Grundmunster einer materialistischen Dialektik”, in Strukturen der Dialektik, DIALEKTIK
1/1992 Meiner 1992: 19). Si tenga presente, inoltre, F. Valentini, La controriforma della dialettica, Roma Editori riuniti 1966: 40,
il quale avverte che la critica hegeliana all’Illuminismo non va confusa con
quella romantica.”; ricordiamo, inoltre, L. Althusser, Ecrits philosophiques et politiques, Paris Stock/Imec 1994: 82 e
224nota, il chiarisce come, per Hegel, Kant fosse l’Illuminismo espresso in
teoria.
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