venerdì 21 febbraio 2014

Sulla Dialettica Logica di Evald Ilyenkov - (1974) -


From the History of Dialectics

 Il compito, tramandatoci da Lenin, di definire una logica (con una “L” maiuscola), cioè di procedere ad una esposizione sistematicamente sviluppata della comprensione dialettica come logica e teoria della conoscenza del materialismo moderno, è oggi particolarmente urgente. Il carattere marcatamente dialettico dei problemi aperti in ogni ambito della vita sociale e della conoscenza scientifica rende sempre più chiaro che solo la dialettica marxista-leninista ha la forza di costituire il metodo della comprensione scientifica e dell’attività pratica, e aiutare gli scienziati nella comprensione teorica dei dati fattuali e sperimentali e nella soluzione dei problemi che essi incontrano nel corso della ricerca.

    Negli ultimi dieci o quindici anni, ben pochi lavoro sono stati scritti rivolti a separare le branche che sono parti dell’intero che noi solo sogniamo; essi possono appena essere considerati come paragrafi, persino capitoli, della futura Logica, come blocchi più o meno completi dell’edificio che deve essere eretto. Non si può, naturalmente, cementare tali blocchi meccanicamente in un insieme; ma dato che il compito di una esposizione sistematica della logica dialettica può essere svolto solo con uno sforzo collettivo, dobbiamo almeno determinare i principi più generali del lavoro d’insieme. Negli studi qui presentati tentiamo di concretizzare alcuni punti di partenza per tale lavoro collettivo.

 

In filosofia, più che in ogni altra scienza, come Hegel ricordava con qualche contrarietà nella sua Fenomenologia dello Spirito il termine o il risultato finale sembra…dover assolutamente esprimere il fatto completo stesso nella sua reale natura; in opposizione ad esso il mero processo di portarlo alla luce, sembrerebbe, propriamente parlando, non avere significato essenziale”.

 

Ciò è posto molto propriamente. Per quanto la dialettica (la logica dialettica) sia considerata mero strumento per accertare una tesi già stabilita (indipendentemente da quanto essa sia inizialmente progredita come le regole delle dispute medievali prevedevano, o solo scoperta al termine dell’argomentazione, al fine di creare l’illusione che non sia determinata pregiudizialmente, cioè di poter dire : “Guarda, questo è quello che abbiamo ottenuto, sebbene non lo avessimo inizialmente assunto”) essa resterà qualcosa senza “alcun significato essenziale”. Quando la dialettica è assunta quale strumento per provare una tesi previamente accettata (o data), essa diviene una sofisticheria solo superficialmente assomigliante alla dialettica, ma vuota di contenuto. E se è vero che la vera logica dialettica vive non nei “nudi risultati” e non nella “tendenza” del movimento di pensiero ma solo nella forma del “risultato assieme al processo per giungervi”, allora nel corso dell’esposizione della dialettica come Logica dobbiamo fare i conti con questa verità.

 

E’ del resto impossibile tenersi all’altro estremo, assumendo il punto di vista secondo cui non ci si sia posti, sin dall’inizio dell’analisi di un problema, alcun obiettivo che determini il significato ed il carattere della nostra attività, ma si sia proceduto navigando a caso. Siamo quindi obbligati, in ogni caso, di definire chiaramente, sin dall’inizio, quale sia l’”oggetto” in cui vogliamo scoprire la necessaria articolazione in parti.

 

Il nostro “oggetto” o “materia”, in generale e nell’insieme, è il pensiero, il pensare; e la Logica dialettica ha come obiettivo lo sviluppo di una rappresentazione scientifica del pensiero in tali momenti necessari, ed in più nella necessaria sequenza, che non dipenda in ultima istanza dalla nostra volontà o dalla nostra coscienza. In altri termini la Logica deve mostrare come il pensiero, che sia scientifico, si svolga, se riflette, cioè riproduce in concetti, un oggetto esistente al di fuori della nostra coscienza e del nostro volere ed indipendente da essi, in altre parole, crea una riproduzione mentale di esso, ricostruisce il suo auto-sviluppo, lo ricrea nella logica del movimento dei concetti così come più tardi lo ricrea fattualmente (nell’esperimento o nella pratica). La Logica è quindi la rappresentazione teorica di tale pensiero.

 

Da quanto abbiamo detto sarà chiaro che concepiamo il pensiero (il pensare) come la componente ideale della reale attività degli individui sociali che trasformano tanto la natura esterna quanto se stessi per mezzo del loro lavoro.

 

La Logica dialettica non è quindi solo uno schema universale dell’attività creativa soggettiva di trasformazione della natura, ma anche, allo stesso tempo, lo schema universale della trasformazione di ogni materiale naturale o socio-storico in cui tale attività è impegnata nelle condizioni obiettive a cui è sempre connessa.

 

Questo, nella nostra opinione, è il reale significato della tesi di Lenin sulla identità (non solo “unità”, ma precisamente identità, piena coincidenza) di dialettica, logica e teoria della conoscenza in cui consiste il moderno, scientifico, cioè materialista,  sguardo sul mondo.

 

Pensiamo che dialettica e materialismo si possano congiungere esattamente in tale modo e mostriamo che la Logica, essendo dialettica, non è solo scienza del “pensare” ma anche scienza dello sviluppo di tutte le cose, materiali e “spirituali”. Intesa in tal modo la Logica può essere anche la scienza genuina della riflessione del movimento del mondo nel movimento dei concetti. Altrimenti essa inevitabilmente si trasforma, come le è accaduto nelle mani dei neopositivisti, in disciplina puramente tecnica, una descrizione, in termini di linguaggio, dei sistemi di manipolazione.

 

La concretizzazione della definizione generale di Logica sopra presentata deve ovviamente consistere nello scoprire i concetti che la compongono, a partire dal concetto di pensiero (pensare). Qui, nuovamente sorge una difficoltà puramente dialettica, e precisamente, che definire tale concetto completamente , cioè concretamente, significa “scrivere” la Logica, dato che una descrizione completa non può in nessun modo essere data da una “definizione” ma solo dallo “sviluppo della materia stessa”.

 

Lo stesso concetto “concetto”  è strettamente correlato al concetto di pensiero. Dare qui una “definizione” di esso sarebbe facile, ma sarebbe utile a qualcosa?

Se aderendo ad una certa tradizione in Logica, preferiamo non intendere per “concetto” né il “segno” né un “termine definito attraverso un altro termine”, e non semplicemente la “riflessione di intrinseci o essenziali attributi di una cosa” (poiché qui il significato delle insidiose parole “essenziale” ed “intrinseco” appare in luce), ma il nocciolo della questione, allora sarebbe più corretto, ci pare, limitarci ad una definizione piuttosto che a ciò che è stato già definito, e partire col considerare “il nocciolo della questione” come nella astratta, semplice definizione per quanto possibile più accettata da tutti. Il compito è di giungere alla “concreta” comprensione, o in questo caso a quella marxista-leninista, dell’essenza della Logica ed al suo “concetto” concretamente sviluppato.

 

Tutto ciò che abbiamo detto determina il progetto ed il piano del libro. Ad una prima impressione può sembrare che, se non completamente, in considerevole misura esso debba consistere in uno studio di storia della filosofia. Ma il confronto “storico” con la chiarificazione della “questione della Logica”  non è per noi il fine in se stesso, ma solo il materiale fattuale attraverso cui la “logica della Questione” gradualmente si mostra [si vedano i Contributi alla Critica della Filosofia del Diritto di Hegel, di Marx], in riferimento a quelle forme molto generali della dialettica come Logica che, criticamente corrette e materialisticamente ripensate da Marx, Engels e Lenin, anche caratterizzano la nostra comprensione di tale scienza.

 

     


   Il Problema dell’Oggetto e delle Origini della Logica [Cartesio e Leibniz]

 

Il metodo più proficuo per risolvere ogni problema scientifico è quello costituito dall’approccio storico. Nel nostro caso tale metodo si dimostra particolarmente appropriato. Il fatto è che ciò che oggi è chiamato logica si riferisce ad un insieme di dottrine che hanno un rapporto assai diverso con i rispettivi limiti di tale scienza. Ciascuna di esse, naturalmente, rivendica per se non tanto solo lo specifico titolo quanto il diritto ad essere considerata l’unica autentica  espressione dell’attuale stadio di sviluppo del pensiero logico. Questo è il motivo per cui si richiede un’analisi della storia di ciò che è in questione.

 

Il termine “logica”  fu originariamente adoperato nella scienza del pensiero dagli stoici che consideravano come tale solo quella parte del relativo insegnamento di Aristotele, ritenuta corrispondente alla loro stessa concezione della natura del pensare. Il termine stesso era derivato dal termine greco logos (che letteralmente significa “il verbo”), e la scienza così denominata era strettamente legata allo stesso oggetto della grammatica e delle retorica. La scolastica medievale, che in ultimo diede forma canonica alla tradizione, convertì la logica in una mero sistema tecnico (organon) per la conduzione delle dispute verbali, uno strumento per l’interpretazione delle Sacre Scritture, un apparato puramente formale. Di  conseguenza non solo l’ufficiale interpretazione della logica cadde in dicredito, ma il suo stesso nome. La deprivata “logica aristotelica” stessa, quindi, cadde in discredito agli occhi degli scienziati e dei filosofi dell’età moderna, motivo per cui la prevalenza dei filosofi del XVI e sino al XVIII secolo rinunciarono all’utilizzo del termine “logica” per  identificare la scienza dell’intelletto, e della ragione.

 

Il riconoscere l’inutilità della versione ufficiale, formale, della logica, come organon del pensiero e del progresso della conoscenza scientifica, fu il leitmotiv di tutti gli scienziati più avanzati e progressisti del tempo. “La logica oggi utilizzata serve più a fissare e stabilizzare gli errori che hanno origine nelle nozioni comunemente accettate che ad aiutare la ricerca della verità. Così essa produce più danni che benefici” affermava Francesco Bacone nel Novum Organum “Osservo rispetto alla logica”, affermava Cartesio, “che i sillogismi e la  maggiore parte degli  altri insegnamenti servono meglio a spiegare ad altri quelle cose che si conoscono (o come nell’arte lulliana, nel rendere capaci di parlare senza giudizio di cose rispetto a cui si è ignoranti) che nell’apprendere il nuovo”[Discorso sul metodo]. John Locke evidenziava che “Il sillogismo, al massimo, è nient’altro che l’Arte di dare battaglia con la piccola conoscenza che abbiamo, senza fare alcuna Aggiunta ad essa”[Saggio sull’intelletto umano]. Su queste basi Cartesio e Locke ritenevano di dover ascrivere i problemi della vecchia logica alla retorica. Ed in misura in cui la logica veniva considerata una scienza speciale essa era unanimemente considerata non la scienza del pensiero ma la scienza del corretto uso delle parole, dei nomi e dei segni. Hobbes, per esempio, sviluppò una concezione della logica come calcolo dei segni verbali.

 

Nel concludere il suo Saggio sull’intelletto umano, Locke definiva l’oggetto ed il compito della logica come segue: “Affare [della logica] è considerare la natura dei segni di cui la mente fa uso per conoscere le cose, o comunicare la sua conoscenza ad altri.” Egli trattò la logica come dottrina dei segni, ossia come semiotica.

 

Ma la filosofia, fortunatamente, son si fossilizzò a tale livello. Le migliori menti del tempo comprendevano molto bene che poteva essere corretto intendere la logica in tale spirito, ma non la scienza del pensiero. Corrispondeva, in generale,ad una ad una visione del mondo e ad un pensiero puramente meccanicistico tale nozione della logica. Poiché si interpretava la realtà oggettiva in modo geometrico ed astratto (cioè si consideravano oggettive e  scientifiche solo caratteristiche puramente quantitative), le forme del pensare delle scienze matematiche si confondevano con i principi logici del pensare in generale, tendenza che assunse configurazione ultima in Hobbes.

 

L’approccio di Cartesio e Leibniz fu molto più cauto. Anch’essi perseguirono l’idea di creare una “matematica universale” in luogo della vecchia, ridicola e discreditata logica; e sognarono l’istituzione di un linguaggio universale, un sistema di termini strettamente ed in modo non ambiguo definiti e quindi ammettendo la possibilità di operare, al suo interno, operazioni puramente formali.

 

Ma sia Cartesio che Leibniz, a differenza di Hobbes, erano ben consapevoli della difficoltà di stabilire principi lungo il percorso di realizzazione di tale compito. Cartesio comprese che alla definizione di termini nel linguaggio universale non si potesse giungere per accordo bonario, ma si dovesse procedere attraverso un’analisi delle idee semplici, i mattoni da cui l’intero edificio dell’intelletto umano era costituito; e che il linguaggio esatto della “matematica universale” potesse essere solo qualcosa di derivabile dalla “vera filosofia”. Solo allora si sarebbe potuto sostituire il pensare le cose date nella riflessione o nell’immaginazione (cioè, nella terminologia dell’epoca, nella contemplazione) ed in generale nell’esperienza di senso comune degli uomini, in una sorta di calcolo dei termini e delle asserzioni, e nel dedurre conclusioni ed inferenze altrettanto infallibili quanto le soluzioni di equazioni.

 

A rafforzare tali posizioni del Cartesio, Leibniz limitò categoricamente il campo di applicazione della “matematica universale” esclusivamente alle cose che appartenevano alla sfera dell’immaginazione. La “matematica universale” avrebbe potuto, dal suo punto di vista, essere solo (così per dire) una logica del potere dell’immaginazione. Ma proprio per questo tutta la metafisica restava esclusa da tale provincia, così come cose come il pensiero, l’azione, e l’ambito della matematica ordinaria accessibili solo alla ragione. Una limitazione davvero speciale! Il pensiero, in ogni caso, esulava dalla competenza della “matematica universale”.

 

Non desta meraviglia che Leibniz, con insolita ironia, considerasse il trattamento riservato da Locke alla logica, da egli concepito come una dottrina speciale dei segni, come puramente nominalistico. Leibniz rilevava le difficoltà associata a tale concezione della logica. Innanzitutto, sosteneva, “La scienza del ragionamento, dei giudizi e delle scoperte, appare molto differente da una ricognizione delle etimologie e dell’uso delle parole, che è qualcosa di indeterminato ed arbitrario. Si dovrebbe, inoltre, quando si volessero spiegare le parole, ricercare dentro la scienza stessa, come se si ricercasse in un dizionario; e non si dovrebbe, d’altro canto, operare scienza  senza allo stesso tempo dare una definizione dei termini.”

In luogo della tripartizione della filosofia in differenti scienza (logica, fisica ed etica) che Locke aveva ereditato dagli stoici; Leibniz  quindi suggeriva di parlare di tre diversi aspetti sotto cui la stessa conoscenza, la stessa verità, si articolerebbe, e precisamente teoreticamente (fisica), praticamente (etica) e terminologicamente (logica). La vecchia logica  cioè, corrisponderebbe semplicemente, all’aspetto terminologico della conoscenza, o come Leibniz poneva, “l’organizzazione per termini, come in un manuale”. Tale sistematizzazione, naturalmente, anche nella migliore ipotesi, non sarebbe stata una scienza del pensiero, dato che Leibniz aveva una concezione più profonda del pensare. Così egli classificò la vera dottrina del pensiero come metafisica, in questo seguendo la terminologia di Aristotele e riferendosi all’essenza della sua logica, piuttosto che a quella degli stoici.

 

Ma perché il pensiero dovrebbe essere investigato nella cornice della “metafisica”? Non si trattava naturalmente di stabilire a quale “dipartimento” la comprensione teoretica del pensiero dovesse “appartenere” ma piuttosto di individuare una specifica via di approccio alla soluzione di un problema filosofico essenziale. La difficolta a cui si trova di fronte ogni teoretico consiste nel comprendere: cosa tiene insieme la conoscenza (la totalità dei concetti, delle costruzioni teoriche e delle idee) ed il suo oggetto, e come uno si accorda all’altro e i concetti su cui ci si fonda corrispondono a qualcosa di reale, esistente al di fuori della coscienza?. E se può questo essere, in generale, verificato?. E se si, come?.

 

I problemi sono in realtà molto complicati. Una risposta positiva, per quanto essa possa sembrare ovvia, non è affatto così semplice da dimostrare, e così per una risposta negativa, essa mostra plausibile l’opposizione di argomenti molto pesanti, come quello secondo cui poiché un oggetto, nel corso della sua apprensione è rifratto attraverso una prisma avente la “speciale natura” degli organi di senso e di ragione, noi possiamo conoscere ogni oggetto solo nella forma che esso assume come risultato di tale rifrazione. Così l’”esistenza” di cose al di fuori della coscienza non è in nessun modo necessariamente rigettata. Un “sola” cosa è rigettata, la possibilità di verificare se tali cose siano o no, “in realtà”, come noi le comprendiamo. E’ impossibile comparare le cose come sono date nella coscienza con le cose al di fuori di essa, poiché è impossibile comparare quelle che conosco  con quello che non conosco, quello che non vedo, quello che non percepisco, quello di cui non mi accorgo. Prima che io possa confrontare la mia idea della cosa con la cosa, devo accorgermi della cosa, cioè devo anche trasformarla in un’idea. Come risultato comparo e confronto solo idee con idee, sebbene possa pensare di comparare l’idea con la cosa.

 

Solo oggetti simili, naturalmente, possono essere comparare e contrapposti. Non ha senso comparare stai con bastoni, o canne, o il sapore della bistecca con la diagonale del quadrato. E se, nondimeno, volessimo comparare bistecche con quadrati, non compareremmo più “bistecca” e “quadrato” ma due oggetti che possiedono entrambi una forma geometrica nello spazio. La “specifica” proprietà dell’uno e dell’altro non può in generale entrare nella comparazione.

 

Quale è la distanza tra la vocale A ed il tavolo?  La domanda sarebbe insensata. Nel parlare della distanza tra due cose, parliamo della loro differenza nello spazio… Cioè le equipariamo come esistenti  entrambe nello spazio, e solo dopo averle equiparate sub specie spatii [sotto l’aspetto dello spazio] le distinguiamo come punti dello spazio differenti. Essere nello spazio costituisce la loro unità. In altre parole, se vogliamo stabilire una relazione di qualche sorta tra due oggetti, compariamo sempre non le “specifiche” qualità che rendono un oaggetto la “vocale A” e l’altro un “tavolo”, una “bistecca” o un “quadrato”, ma solo quelle proprietà che esprimono un “terzo” qualcosa, differente dalla loro esistenza in quanto cose considerate. Le cose comparate sono riguardate come differenti modificazioni di questa “terza” proprietà che è loro comune,  inerenti ad esse. Così se non c’è un “terzo” nella natura delle due  cose comune ad entrambe, esattamente la differenza tra di esse diviene completamente insensata.

 

In cosa sono legati oggetti come “concetto” (“idea”) e “cosa”? In quale speciale “spazio” possono essere contrapposti, comparati e differenziati? C’è, in generale, una “terza” cosa in cui esse sono “una e la stessa”, a dispetto di tutte le loro differenze direttamente visibili? Se non c’è tale comune sostanza, espressa in diverso modo in una idea ed in una cosa, è impossibile stabilire alcuna relazione intrinsecamente necessaria tra di esse. Al massimo possiamo “vedere” solo una relazione esterna del tipo di quella che una tempo era stabilita tra la posizione delle stelle e gli eventi delle vite personali, cioè  relazioni tra due ordini di eventi completamente eterogenei, ognuno dei quali procede in accordo alle sue proprie, particolari, specifiche leggi. Avrebbe allora ragione Wittgenstein nell’asserire essere le forme logiche mistiche ed inesprimibili.

 

Ma nel caso della relazione tra un’ idea e la realtà c’è ancora un’ ulteriore difficoltà.  Sappiamo dove la ricerca di qualche sorta di speciale essenza può e deve condurre, un’essenza che non sia al tempo stesso un’idea ed una realtà materiale, ma che costituisca la loro comune sostanza, un “terzo” che appia una volta come idea ed un’altra come essente. Poiché idea ed essente sono concetti mutuamente escludentesi. Ossia ciò che è idea non è essere e vice versa. Come allora, in generale, possono essere comparati? In cosa, in generale, pouò basarsi la loro interazioni, in cosa esse sono “uno e lo stesso”?

 

Tale difficoltà fu acutamente mostrata nella sua nuda forma logica da Cartesio. Nella sua forma generale è il problema di ogni qual filosofia, il problema della relazione tra “pensiero” e realtà esistente al di fuori ed indipendentemente da esso, ed il mondo delle cose nello spazio e nel tempo o, per porlo nel tradizionale linguaggio filosofico, il “problema dell’identità di pensiero ed essere”.

 

E’ evidente ad ognuno che “pensiero” e “cose fuori dal pensiero” sono ben lungi dall’essere uno e lo stesso. Non è necessario essere filosofi per comprenderlo. Ognuno sa che una cosa è avere cento rubli (o sterline, o dollari) nella propria tasca, altra averli solo in sogno, nel suo pensiero. Il concetto ovviamente è solo uno stato della speciale sostanza che riempie la scatola cranica (potremmo proseguire, ulteriormente, esplicando tale sostanza come tessuto cerebrale o anche come l’etere molto sottile dell’anima che vi abita, come struttura del tessuto cerebrale, o persino come la formale struttura del discorso interiore, nella forma in cui il pensiero si svolge nella testa); ma l’oggetto è fuori dalla testa, nello spazio al di là della testa ed è qualcosa di completamente altro dallo stato interno del pensiero, delle idee, del cervello, del discorso, etc..

 

Per comprendere chiaramente un fatto talmente auto evidente, e tenerlo in considerazione, non è generalmente necessario avere la mente di Cartesio, ma è necessario avere il suo rigore analitico per definire il fatto che il pensiero ed il mondo delle cose nello spazio non sono solo e semplicemente fenomeni differenti, ma anche direttamente opposti.

 

Il chiaro e rigoroso intelletto di Cartesio sarebbe, piuttosto, necessario per padroneggiare il problema che sorge da tale difficoltà, ossia, in che modo questi due mondi (cioè il mondo dei concetti, dello stato interno del pensiero, da una parte, ed il mondo delle cose nello spazio esterno, dall’altra), nondimeno si accordano tra loro?

 

Cartesio espresse tale difficoltà come segue. Se l’esistenza delle cose è determinata dalla loro estensione e se le forme spaziali, geometriche, delle cose sono le sole forme oggettive della loro esistenza fuori dal soggetto, allora il pensare non è semplicemente colto dalla sua descrizione in termini di spazio. La caratteristica spaziale del pensare in generale non ha relazione con la sua natura specifica. La natura del pensare è colta da concetti che non hanno nulla in comune con l’espressione di alcun tipo di immagine geometrica, spaziale. Egli espresse questo punto di vista nel modo seguente: pensiero ed estensione sono realmente due differenti sostanze, ed una sostanza è ciò che esiste ed è definita solo attraverso se stessa e non attraverso qualcos’altro. Non c’è nulla in comune tra pensiero ed estensione che potrebbe essere espresso in una definizione speciale. In altre parole, in una serie di definizioni del pensiero non esiste un singolo attributo che potrebbe essere parte della definizione dell’estensione, e vice versa. Ma se non c’è tale attributo comune è anche impossibile dedurre razionalmente l’essere dal pensiero, e vice versa, poiché la deduzione richiede un “termine medio”, ossia un termine tale che possa essere incluso in una serie di definizioni dell’idea e dell’esistenza  di cose al di fuori della coscienza, al di fuori del pensiero. Pensiero ed estensione non possono in generale venire in contatto l’uno con l’altro, poiché il loro confine (la linea o persino il punto di contatto) dovrebbe essere anche esattamente ciò che simultaneamente e contemporaneamente li divide e li unisce.

Data l’assenza di tale confine, il pensiero non può limitare la cosa estesa, né la cosa l’espressione mentale. Essi sono liberi, per così dire,  di penetrarsi e permearsi l’un l’altro, non incontrando alcun confine. Il pensiero in quanto tale non può interagire con la cosa estesa, né la cosa con il pensiero; ognuno si risolve in se stesso.

Immediatamente sorge un problema: come funzionano, quindi, in congiunzione pensiero e corpo nell’individuo umano? Che essi siano legati è un fatto ovvio. L’uomo può coscientemente controllare il suo corpo spazialmente determinato tra altri similu corpi, i suoi impulsi mentali sono trasformati in movimenti spaziali, ed i movimenti dei corpi, causando alterazioni negli organi umani (sensazioni) sono trasformati in immagini mentali. Il che significa che, dopo tutto,  il pensiero ed il corpo interagiscono in qualche modo. Ma come? Quale è la natura dell’interazione? Come essi si determinano, cioè si delimitano l’un l’altro?

Come avviene che una traiettoria, tracciata dal pensiero nel piano dell’immaginazione, per esempio una curva descritta dalla sua equazione si dimostra essere congruente con il  profilo geometrico della stessa curva nello spazio reale? Significa che la forma della curva nel pensiero (cioè nella forma della “grandezza” dei segni algebrici dell’equazione) è identica con una corrispondente curva nello spazio reale, ad esempio una curva tracciata su un pezzo di carta fuori dalla testa. Essa è sicuramente una e la stessa curva, solo che una è nel pensiero e l’altra nello spazion reale; quindi agendo in accordo con il pensiero (inteso come senso di parole o segni), simultaneamente agisco nel più stretto accordo con la forma (in questo caso il profilo geometrico) di una cosa fuori dal pensiero.

Come può essere, se “la cosa nel pensiero” e “la cosa fuori dal pensiero” sono non solo “differenti” ma anche assolutamente opposte? Per assolutamente opposte intendiamo precisamente questo: non aventi nulla in “comune”, nulla di identico, alcuna attributo che possa costituire un criterio del concetto “cosa fuori dal pensiero” e per il concetto “ cosa nel pensiero”, o “cosa immaginata”. Come possono quindi i due mondi conformarsi reciprocamente? E, per di più, non accidentalmente, ma sistematicamente e regolarmente, questi due mondi che non hannno assolutamente nulla in comune, nulla di identico? Questo è il problema attorno al quale ruotavano, Cartesio stesso, Geulincx, Malebranche e la massa dei loro seguaci.

Malebranche espresse la principale difficoltà qui sorta in un suo proprio, arguto, modo: durante l’assedio di Vienna, coloro che difendevano la città indubitabilmente vedevano l’esercito turco come “turchi trascendentali”, ma quelli uccisi erano turchi molto reali. La difficoltà qui è chiara; e dal punto di vista di Cartesio a proposito del pensiero essa è assolutamente insolubile, poiché i difensori di Vienna agivano, cioè armavano e sparavano le loro cannonate in accordo con le immagini dei turchi che si producevano nei loro cervelli, in accordo con i “turchi trascendentali” “immaginati”, e con traiettorie calcolate nei loro cervelli; ed i colpi cadevano tra i turchi reali in uno spazio che non solo rea fuori dalle loro teste, ma anche fuori dalle mura delle fortezze.

Come avviene che due mondi non aventi assolutamente nulla in comune tra loro siano in accordo, cioè il mondo “pensato”, il mondo nel pensiero, ed il mondo reale, il mondo nello spazio? E perché? Dio solo lo sa, rispondevano Cartesio e Malebranche e Geulincx; dal nostro punto di vista è inesplicabile. Solo Dio può spiegare tale fatto. Egli rende accordati i due mondi opposti. Il concetto “Dio” entra qui come costruzione “teoretica” attraverso la quale esprimere l’ovvio ma completamente inconcepibile, fatto dell’unità, congruenza, e forse identità, di fenomeni che sono assolutamente contrari per definizione. Dio è il “terzo” che, come “anello di congiunzione”, unisce e tiene in accordo pensiero ed essere, “corpo” ed “anima”, “concetto” ed “oggetto”, azione nel piano dei segni e delle parole ed azione nel piano dei reali, geometricamente definiti corpi fuori dalla testa.

Giunti di fronte alla nuda dialettica del fatto che il “pensiero” e “l’essere al di fuori del pensiero” sono in assoluta opposizione, sebbene nondimeno in accordo l’uno con l’altro, in una unità, in una inseparabile e necessaria interconnessione (e quindi subordinati ad una qualche legge più alta – ed in aggiunta, ad una stessa unica legge, la scuola cartesiana capitolò di fronte alla teologia, risolvendo tale fatto  inesplicabile (dal suo punto di vista) in Dio, e spiegandolo come “miracolo”, cioè in virtù di un diretto intervento di poteri sovrannaturali che agiscono nella catena causale degli eventi naturali.

Cartesio, il fondatore della geometria analitica, non potè quindi spiegare in alcun modo razionale alcuna ragione come l’espressione algebrica di una curva nella forma di equazione “corrispondesse” all’immagine spaziale della curva tracciata. Esse non potevano, infatti, accordarsi senza l’intervento di Dio, poiché, secondo il punto di vista di Cartesio, le azioni con i segni e sulla base dei segni, coerenti nel puro piano dei segni (nel loro senso matematico), e cioè azioni nello spezio del “puro pensiero”, non avevano nulla in comune con la reale azione fisica nella sfera delle cose spazialmente determinate, secondo i loro reali profili. Le prime essendo pure azioni dell’anima (o del pensare come tale), le seconde – azioni nei corpi, che ripetono i profili (le linee geometriche spaziali) dei corpi esterni, e quindi completamente governate dalle leggi del mondo materiale “esterno”.

(Tale problema non è meno acutamente posto oggi dalla “filosofia della matematica”. S le costruzioni matematiche sono trattate come costruzioni dell’intelletto creativo dei matematici, “libere” da ogni determinazione esterna e operanti esclusivamente sulla base di regole “logiche” – ed i matematici stessi, seguendo Cartesio, sono raramente capaci di interpretarle esattamente – diviene del tutto enigmatico ed inesplicabile come, sulla terra, i fatti dell’”esperienza esterna”, siano in accordo e coincidano nella loro espressione matematica, o numerica, con i risultati ottenuti da un calcolo puramente logico e operato dalla “pura” azione dell’intelletto. E’ assolutamente non chiaro. Solo “Dio” può aiutare).

In altre parole l’identità di tali opposti (“pensiero”, “spirito”, ed “estensione”, “corpo”) fu anche compresa da Cartesio come principio fattuale – senza il quale persino la sua idea di una geometria analitica sarebbe stata impossibile (e non solo inesplicabile) – spiegato come un atto di Dio, un suo intervento nella interrelazione di “pensiero ed essere”, “corpo ed anima”. Dio, in aggiunta, nella filosofia cartesiana, ed in particolare per Malebranche e Geulincx, veniva inteso come il tradizionale ed ortodosso Dio cattolico, agente dall’esterno, dall’alto del suo trono celeste, sui “corpi” e sulle “anime”, per co-ordinare le azioni dell’”anima” con quelle del “corpo”.

Questo è l’essenziale del problema mente-corpo, in cui non è difficile leggere la specificatamente concreta, e quindi storicamente limitata, formulazione del problema centrale della filosofia. Il problema della comprensione teoretica del pensiero (della logica), in rapporto al quale, e non alle mere regole per l’operare con parole o altri segni, si pone la soluzione del problema cardinale della filosofia, o della metafisica, per usare un antico termine. E’ qui che risiede l’importanza della cultura del pensiero genuinamente teoretico dei filosofi classici, che non solo seppero porre i problemi in tutta la loro chiarezza, ma seppero come risolverli.

 

 

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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