From the History of
Dialectics
Negli ultimi dieci o quindici anni, ben
pochi lavoro sono stati scritti rivolti a separare le branche che sono parti
dell’intero che noi solo sogniamo; essi possono appena essere considerati come
paragrafi, persino capitoli, della futura Logica,
come blocchi più o meno completi dell’edificio
che deve essere eretto. Non si può, naturalmente, cementare tali blocchi
meccanicamente in un insieme; ma dato che il compito di una esposizione
sistematica della logica dialettica può essere svolto solo con uno sforzo
collettivo, dobbiamo almeno determinare i principi più generali del lavoro
d’insieme. Negli studi qui presentati tentiamo di concretizzare alcuni punti di
partenza per tale lavoro collettivo.
In filosofia, più che in ogni altra
scienza, come Hegel ricordava con qualche contrarietà nella sua Fenomenologia dello Spirito “il
termine o il risultato finale sembra…dover assolutamente esprimere il fatto
completo stesso nella sua reale natura; in opposizione ad esso il mero processo
di portarlo alla luce, sembrerebbe, propriamente parlando, non avere
significato essenziale”.
Ciò è posto molto propriamente. Per
quanto la dialettica (la logica dialettica) sia considerata mero strumento per
accertare una tesi già stabilita (indipendentemente da quanto essa sia
inizialmente progredita come le regole delle dispute medievali prevedevano, o
solo scoperta al termine dell’argomentazione, al fine di creare l’illusione che
non sia determinata pregiudizialmente, cioè di poter dire : “Guarda, questo è quello che abbiamo
ottenuto, sebbene non lo avessimo inizialmente assunto”) essa resterà qualcosa senza
“alcun significato essenziale”. Quando la dialettica è assunta quale
strumento per provare una tesi previamente accettata (o data), essa diviene una
sofisticheria solo superficialmente assomigliante alla dialettica, ma vuota di
contenuto. E se è vero che la vera logica dialettica vive non nei “nudi
risultati” e non nella “tendenza” del movimento di pensiero ma solo nella forma
del “risultato assieme al processo per giungervi”, allora nel corso
dell’esposizione della dialettica come Logica dobbiamo fare i conti con questa
verità.
E’ del resto impossibile tenersi
all’altro estremo, assumendo il punto di vista secondo cui non ci si sia posti,
sin dall’inizio dell’analisi di un problema, alcun obiettivo che determini il
significato ed il carattere della nostra attività, ma si sia proceduto navigando
a caso. Siamo quindi obbligati, in ogni caso, di definire chiaramente, sin
dall’inizio, quale sia l’”oggetto” in cui vogliamo scoprire la necessaria
articolazione in parti.
Il nostro “oggetto” o “materia”, in
generale e nell’insieme, è il pensiero, il pensare; e la Logica dialettica ha
come obiettivo lo sviluppo di una rappresentazione scientifica del pensiero in
tali momenti necessari, ed in più nella necessaria sequenza, che non dipenda in
ultima istanza dalla nostra volontà o dalla nostra coscienza. In altri termini
la Logica deve mostrare come il pensiero, che sia scientifico, si svolga, se
riflette, cioè riproduce in concetti, un oggetto esistente al di fuori della
nostra coscienza e del nostro volere ed indipendente da essi, in altre parole, crea
una riproduzione mentale di esso, ricostruisce il suo auto-sviluppo, lo ricrea
nella logica del movimento dei concetti così come più tardi lo ricrea
fattualmente (nell’esperimento o nella pratica). La Logica è quindi la
rappresentazione teorica di tale pensiero.
Da quanto abbiamo detto sarà chiaro
che concepiamo il pensiero (il pensare) come la componente ideale della reale
attività degli individui sociali che trasformano tanto la natura esterna quanto
se stessi per mezzo del loro lavoro.
La Logica dialettica non è quindi
solo uno schema universale dell’attività creativa soggettiva di trasformazione
della natura, ma anche, allo stesso tempo, lo schema universale della
trasformazione di ogni materiale naturale o socio-storico in cui tale attività
è impegnata nelle condizioni obiettive a cui è sempre connessa.
Questo, nella nostra opinione, è il
reale significato della tesi di Lenin sulla identità (non solo “unità”, ma
precisamente identità, piena coincidenza) di dialettica, logica e teoria della
conoscenza in cui consiste il moderno, scientifico, cioè materialista, sguardo sul mondo.
Pensiamo che dialettica e
materialismo si possano congiungere esattamente in tale modo e mostriamo che la
Logica, essendo dialettica, non è solo scienza del “pensare” ma anche scienza
dello sviluppo di tutte le cose, materiali e “spirituali”. Intesa in tal modo
la Logica può essere anche la scienza genuina della riflessione del movimento
del mondo nel movimento dei concetti. Altrimenti essa inevitabilmente si
trasforma, come le è accaduto nelle mani dei neopositivisti, in disciplina
puramente tecnica, una descrizione, in termini di linguaggio, dei sistemi di
manipolazione.
La concretizzazione della
definizione generale di Logica sopra presentata deve ovviamente consistere nello
scoprire i concetti che la compongono, a partire dal concetto di pensiero
(pensare). Qui, nuovamente sorge una difficoltà puramente dialettica, e
precisamente, che definire tale concetto completamente , cioè concretamente,
significa “scrivere” la Logica, dato che una descrizione completa non può in
nessun modo essere data da una “definizione” ma solo dallo “sviluppo della
materia stessa”.
Lo
stesso concetto “concetto” è
strettamente correlato al concetto di pensiero. Dare qui una “definizione” di
esso sarebbe facile, ma sarebbe utile a qualcosa?
Se
aderendo ad una certa tradizione in Logica, preferiamo non intendere per
“concetto” né il “segno” né un “termine definito attraverso un altro termine”,
e non semplicemente la “riflessione di intrinseci o essenziali attributi di una
cosa” (poiché qui il significato delle insidiose parole “essenziale” ed
“intrinseco” appare in luce), ma il nocciolo della questione, allora sarebbe
più corretto, ci pare, limitarci ad una definizione piuttosto che a ciò che è
stato già definito, e partire col considerare “il nocciolo della questione”
come nella astratta, semplice definizione per quanto possibile più accettata da
tutti. Il compito è di giungere alla “concreta” comprensione, o in questo caso
a quella marxista-leninista, dell’essenza della Logica ed al suo “concetto” concretamente
sviluppato.
Tutto ciò che abbiamo detto
determina il progetto ed il piano del libro. Ad una prima impressione può
sembrare che, se non completamente, in considerevole misura esso debba consistere
in uno studio di storia della filosofia. Ma il confronto “storico” con la
chiarificazione della “questione della Logica”
non è per noi il fine in se stesso, ma solo il materiale fattuale
attraverso cui la “logica della Questione” gradualmente si mostra [si vedano i
Contributi alla Critica della Filosofia del Diritto di Hegel, di Marx], in
riferimento a quelle forme molto generali della dialettica come Logica che,
criticamente corrette e materialisticamente ripensate da Marx, Engels e Lenin,
anche caratterizzano la nostra comprensione di tale scienza.
Il
Problema dell’Oggetto e delle Origini della Logica [Cartesio e Leibniz]
Il metodo più proficuo per risolvere
ogni problema scientifico è quello costituito dall’approccio storico. Nel
nostro caso tale metodo si dimostra particolarmente appropriato. Il fatto è che
ciò che oggi è chiamato logica si riferisce ad un insieme di dottrine che hanno
un rapporto assai diverso con i rispettivi limiti di tale scienza. Ciascuna di
esse, naturalmente, rivendica per se non tanto solo lo specifico titolo quanto
il diritto ad essere considerata l’unica autentica espressione dell’attuale stadio di sviluppo
del pensiero logico. Questo è il motivo per cui si richiede un’analisi della
storia di ciò che è in questione.
Il termine “logica” fu originariamente adoperato nella scienza
del pensiero dagli stoici che consideravano come tale solo quella parte del
relativo insegnamento di Aristotele, ritenuta corrispondente alla loro stessa
concezione della natura del pensare. Il termine stesso era derivato dal termine
greco logos (che letteralmente
significa “il verbo”),
e la scienza così denominata era strettamente legata allo stesso oggetto della
grammatica e delle retorica. La scolastica medievale, che in ultimo diede forma
canonica alla tradizione, convertì la logica in una mero sistema tecnico (organon) per la conduzione delle dispute
verbali, uno strumento per l’interpretazione delle Sacre Scritture, un apparato
puramente formale. Di conseguenza non
solo l’ufficiale interpretazione della logica cadde in dicredito, ma il suo
stesso nome. La deprivata “logica aristotelica” stessa, quindi, cadde in
discredito agli occhi degli scienziati e dei filosofi dell’età moderna, motivo
per cui la prevalenza dei filosofi del XVI e sino al XVIII secolo rinunciarono
all’utilizzo del termine “logica” per
identificare la scienza dell’intelletto, e della ragione.
Il riconoscere l’inutilità della versione
ufficiale, formale, della logica, come organon
del pensiero e del progresso della conoscenza scientifica, fu il leitmotiv di tutti gli scienziati più
avanzati e progressisti del tempo. “La logica oggi utilizzata serve più a
fissare e stabilizzare gli errori che hanno origine nelle nozioni comunemente
accettate che ad aiutare la ricerca della verità. Così essa produce più danni
che benefici” affermava Francesco Bacone nel Novum Organum “Osservo rispetto alla logica”, affermava Cartesio, “che i sillogismi e la maggiore parte degli altri insegnamenti servono meglio a spiegare
ad altri quelle cose che si conoscono (o come nell’arte lulliana, nel rendere
capaci di parlare senza giudizio di cose rispetto a cui si è ignoranti) che
nell’apprendere il nuovo”[Discorso sul metodo]. John Locke evidenziava che
“Il sillogismo, al massimo, è nient’altro che l’Arte di dare battaglia con la
piccola conoscenza che abbiamo, senza fare alcuna Aggiunta ad essa”[Saggio
sull’intelletto umano]. Su queste basi Cartesio e Locke ritenevano di dover
ascrivere i problemi della vecchia logica alla retorica. Ed in misura in cui la
logica veniva considerata una scienza speciale essa era unanimemente
considerata non la scienza del pensiero ma la scienza del corretto uso delle
parole, dei nomi e dei segni. Hobbes, per esempio, sviluppò una concezione
della logica come calcolo dei segni verbali.
Nel concludere il suo Saggio sull’intelletto umano, Locke
definiva l’oggetto ed il compito della logica come segue: “Affare [della logica] è considerare la natura dei segni di cui la
mente fa uso per conoscere le cose, o comunicare la sua conoscenza ad altri.” Egli
trattò la logica come dottrina dei segni, ossia come semiotica.
Ma la filosofia, fortunatamente, son
si fossilizzò a tale livello. Le migliori menti del tempo comprendevano molto
bene che poteva essere corretto intendere la logica in tale spirito, ma non la
scienza del pensiero. Corrispondeva, in generale,ad una ad una visione del
mondo e ad un pensiero puramente meccanicistico tale nozione della logica.
Poiché si interpretava la realtà oggettiva in modo geometrico ed astratto (cioè
si consideravano oggettive e
scientifiche solo caratteristiche puramente quantitative), le forme del
pensare delle scienze matematiche si confondevano con i principi logici del
pensare in generale, tendenza che assunse configurazione ultima in Hobbes.
L’approccio di Cartesio e Leibniz fu
molto più cauto. Anch’essi perseguirono l’idea di creare una “matematica
universale” in luogo della vecchia, ridicola e discreditata logica; e sognarono
l’istituzione di un linguaggio universale, un sistema di termini strettamente
ed in modo non ambiguo definiti e quindi ammettendo la possibilità di operare,
al suo interno, operazioni puramente formali.
Ma sia Cartesio che Leibniz, a
differenza di Hobbes, erano ben consapevoli della difficoltà di stabilire principi
lungo il percorso di realizzazione di tale compito. Cartesio comprese che alla
definizione di termini nel linguaggio universale non si potesse giungere per accordo
bonario, ma si dovesse procedere attraverso un’analisi delle idee semplici, i
mattoni da cui l’intero edificio dell’intelletto umano era costituito; e che il
linguaggio esatto della “matematica universale” potesse essere solo qualcosa di
derivabile dalla “vera filosofia”. Solo allora si sarebbe potuto sostituire il
pensare le cose date nella riflessione o nell’immaginazione (cioè, nella
terminologia dell’epoca, nella contemplazione) ed in generale nell’esperienza
di senso comune degli uomini, in una sorta di calcolo dei termini e delle
asserzioni, e nel dedurre conclusioni ed inferenze altrettanto infallibili
quanto le soluzioni di equazioni.
A rafforzare tali posizioni del
Cartesio, Leibniz limitò categoricamente il campo di applicazione della
“matematica universale” esclusivamente alle cose che appartenevano alla sfera
dell’immaginazione. La “matematica universale” avrebbe potuto, dal suo punto di
vista, essere solo (così per dire) una logica del potere dell’immaginazione. Ma
proprio per questo tutta la metafisica restava esclusa da tale provincia, così
come cose come il pensiero, l’azione, e l’ambito della matematica ordinaria
accessibili solo alla ragione. Una limitazione davvero speciale! Il pensiero,
in ogni caso, esulava dalla competenza della “matematica universale”.
Non desta meraviglia che Leibniz,
con insolita ironia, considerasse il trattamento riservato da Locke alla
logica, da egli concepito come una dottrina speciale dei segni, come puramente
nominalistico. Leibniz rilevava le difficoltà associata a tale concezione della
logica. Innanzitutto, sosteneva, “La
scienza del ragionamento, dei giudizi e delle scoperte, appare molto differente
da una ricognizione delle etimologie e dell’uso delle parole, che è qualcosa di
indeterminato ed arbitrario. Si dovrebbe, inoltre, quando si volessero spiegare
le parole, ricercare dentro la scienza stessa, come se si ricercasse in un
dizionario; e non si dovrebbe, d’altro canto, operare scienza senza allo stesso tempo dare una definizione
dei termini.”
In luogo della tripartizione della
filosofia in differenti scienza (logica, fisica ed etica) che Locke aveva
ereditato dagli stoici; Leibniz quindi
suggeriva di parlare di tre diversi aspetti sotto cui la stessa conoscenza, la
stessa verità, si articolerebbe, e precisamente teoreticamente (fisica),
praticamente (etica) e terminologicamente (logica). La vecchia logica cioè, corrisponderebbe semplicemente, all’aspetto terminologico della conoscenza,
o come Leibniz poneva, “l’organizzazione per termini, come in un manuale”. Tale
sistematizzazione, naturalmente, anche nella migliore ipotesi, non sarebbe
stata una scienza del pensiero, dato che Leibniz aveva una concezione più
profonda del pensare. Così egli classificò la vera dottrina del pensiero come
metafisica, in questo seguendo la terminologia di Aristotele e riferendosi
all’essenza della sua logica, piuttosto che a quella degli stoici.
Ma perché il pensiero dovrebbe
essere investigato nella cornice della “metafisica”? Non si trattava
naturalmente di stabilire a quale “dipartimento” la comprensione teoretica del
pensiero dovesse “appartenere” ma piuttosto di individuare una specifica via di
approccio alla soluzione di un problema filosofico essenziale. La difficolta a
cui si trova di fronte ogni teoretico consiste nel comprendere: cosa tiene
insieme la conoscenza (la totalità dei concetti, delle costruzioni teoriche e
delle idee) ed il suo oggetto, e come uno si accorda all’altro e i concetti su
cui ci si fonda corrispondono a qualcosa di reale, esistente al di fuori della
coscienza?. E se può questo essere, in generale, verificato?. E se si, come?.
I problemi sono in realtà molto
complicati. Una risposta positiva, per quanto essa possa sembrare ovvia, non è
affatto così semplice da dimostrare, e così per una risposta negativa, essa
mostra plausibile l’opposizione di argomenti molto pesanti, come quello secondo
cui poiché un oggetto, nel corso della sua apprensione è rifratto attraverso
una prisma avente la “speciale natura” degli organi di senso e di ragione, noi
possiamo conoscere ogni oggetto solo nella forma che esso assume come risultato
di tale rifrazione. Così l’”esistenza” di cose al di fuori della coscienza non
è in nessun modo necessariamente rigettata. Un “sola” cosa è rigettata, la
possibilità di verificare se tali cose siano o no, “in realtà”, come noi le
comprendiamo. E’ impossibile comparare le cose come sono date nella coscienza
con le cose al di fuori di essa, poiché è impossibile comparare quelle che
conosco con quello che non conosco,
quello che non vedo, quello che non percepisco, quello di cui non mi accorgo.
Prima che io possa confrontare la mia idea della cosa con la cosa, devo
accorgermi della cosa, cioè devo anche trasformarla in un’idea. Come risultato
comparo e confronto solo idee con idee, sebbene possa pensare di comparare
l’idea con la cosa.
Solo oggetti simili, naturalmente,
possono essere comparare e contrapposti. Non ha senso comparare stai con
bastoni, o canne, o il sapore della bistecca con la diagonale del quadrato. E
se, nondimeno, volessimo comparare bistecche con quadrati, non compareremmo più
“bistecca” e “quadrato” ma due oggetti che possiedono entrambi una forma
geometrica nello spazio. La “specifica” proprietà dell’uno e dell’altro non può
in generale entrare nella comparazione.
Quale è la
distanza tra la vocale A ed il tavolo? La
domanda sarebbe insensata. Nel parlare della distanza tra due cose, parliamo
della loro differenza nello spazio… Cioè le equipariamo come esistenti entrambe nello spazio, e solo dopo averle
equiparate sub specie spatii [sotto l’aspetto dello spazio] le distinguiamo
come punti dello spazio differenti. Essere nello spazio costituisce la loro
unità. In altre parole, se vogliamo stabilire una relazione di qualche sorta
tra due oggetti, compariamo sempre non le “specifiche” qualità che rendono un
oaggetto la “vocale A” e l’altro un “tavolo”, una “bistecca” o un “quadrato”,
ma solo quelle proprietà che esprimono un “terzo” qualcosa, differente dalla
loro esistenza in quanto cose considerate. Le cose comparate sono riguardate
come differenti modificazioni di questa “terza” proprietà che è loro
comune, inerenti ad esse. Così se non
c’è un “terzo” nella natura delle due
cose comune ad entrambe, esattamente la differenza tra di esse diviene
completamente insensata.
In cosa sono legati oggetti come
“concetto” (“idea”) e “cosa”? In quale speciale “spazio” possono essere
contrapposti, comparati e differenziati? C’è, in generale, una “terza” cosa in
cui esse sono “una e la stessa”, a dispetto di tutte le loro differenze
direttamente visibili? Se non c’è tale comune sostanza, espressa in diverso modo
in una idea ed in una cosa, è impossibile stabilire alcuna relazione
intrinsecamente necessaria tra di esse. Al massimo possiamo “vedere” solo una
relazione esterna del tipo di quella che una tempo era stabilita tra la
posizione delle stelle e gli eventi delle vite personali, cioè relazioni tra due ordini di eventi
completamente eterogenei, ognuno dei quali procede in accordo alle sue proprie,
particolari, specifiche leggi. Avrebbe allora ragione Wittgenstein
nell’asserire essere le forme logiche mistiche ed inesprimibili.
Ma nel caso della relazione tra un’
idea e la realtà c’è ancora un’ ulteriore difficoltà. Sappiamo dove la ricerca di qualche sorta di
speciale essenza può e deve condurre, un’essenza che non sia al tempo stesso
un’idea ed una realtà materiale, ma che costituisca la loro comune sostanza, un
“terzo” che appia una volta come idea ed un’altra come essente. Poiché idea ed
essente sono concetti mutuamente escludentesi. Ossia ciò che è idea non è
essere e vice versa. Come allora, in generale, possono essere comparati? In
cosa, in generale, pouò basarsi la loro interazioni, in cosa esse sono “uno e
lo stesso”?
Tale difficoltà fu acutamente
mostrata nella sua nuda forma logica da Cartesio. Nella sua forma generale è il
problema di ogni qual filosofia, il problema della relazione tra “pensiero” e
realtà esistente al di fuori ed indipendentemente da esso, ed il mondo delle
cose nello spazio e nel tempo o, per porlo nel tradizionale linguaggio
filosofico, il “problema dell’identità di pensiero ed essere”.
E’ evidente ad ognuno che “pensiero”
e “cose fuori dal pensiero” sono ben lungi dall’essere uno e lo stesso. Non è
necessario essere filosofi per comprenderlo. Ognuno sa che una cosa è avere
cento rubli (o sterline, o dollari) nella propria tasca, altra averli solo in
sogno, nel suo pensiero. Il concetto ovviamente è solo uno stato della speciale
sostanza che riempie la scatola cranica (potremmo proseguire, ulteriormente,
esplicando tale sostanza come tessuto cerebrale o anche come l’etere molto sottile
dell’anima che vi abita, come struttura del tessuto cerebrale, o persino come
la formale struttura del discorso interiore, nella forma in cui il pensiero si
svolge nella testa); ma l’oggetto è fuori dalla testa, nello spazio al di là
della testa ed è qualcosa di completamente altro dallo stato interno del
pensiero, delle idee, del cervello, del discorso, etc..
Per comprendere chiaramente un fatto
talmente auto evidente, e tenerlo in considerazione, non è generalmente
necessario avere la mente di Cartesio, ma è necessario avere il suo rigore
analitico per definire il fatto che il pensiero ed il mondo delle cose nello
spazio non sono solo e semplicemente fenomeni differenti, ma anche direttamente
opposti.
Il chiaro e rigoroso intelletto di
Cartesio sarebbe, piuttosto, necessario per padroneggiare il problema che sorge
da tale difficoltà, ossia, in che modo questi due mondi (cioè il mondo dei
concetti, dello stato interno del pensiero, da una parte, ed il mondo delle
cose nello spazio esterno, dall’altra), nondimeno si accordano tra loro?
Cartesio espresse tale difficoltà
come segue. Se l’esistenza delle cose è determinata dalla loro estensione e se
le forme spaziali, geometriche, delle cose sono le sole forme oggettive della
loro esistenza fuori dal soggetto, allora il pensare non è semplicemente colto
dalla sua descrizione in termini di spazio. La caratteristica spaziale del
pensare in generale non ha relazione con la sua natura specifica. La natura del
pensare è colta da concetti che non hanno nulla in comune con l’espressione di
alcun tipo di immagine geometrica, spaziale. Egli espresse questo punto di
vista nel modo seguente: pensiero ed estensione sono realmente due differenti
sostanze, ed una sostanza è ciò che esiste ed è definita solo attraverso se
stessa e non attraverso qualcos’altro. Non c’è nulla in comune tra pensiero ed
estensione che potrebbe essere espresso in una definizione speciale. In altre
parole, in una serie di definizioni del pensiero non esiste un singolo
attributo che potrebbe essere parte della definizione dell’estensione, e vice
versa. Ma se non c’è tale attributo comune è anche impossibile dedurre
razionalmente l’essere dal pensiero, e vice versa, poiché la deduzione richiede
un “termine medio”, ossia un termine tale che possa essere incluso in una serie
di definizioni dell’idea e dell’esistenza
di cose al di fuori della coscienza, al di fuori del pensiero. Pensiero
ed estensione non possono in generale venire in contatto l’uno con l’altro,
poiché il loro confine (la linea o persino il punto di contatto) dovrebbe
essere anche esattamente ciò che simultaneamente e contemporaneamente li divide
e li unisce.
Data
l’assenza di tale confine, il pensiero non può limitare la cosa estesa, né la
cosa l’espressione mentale. Essi sono liberi, per così dire, di penetrarsi e permearsi l’un l’altro, non
incontrando alcun confine. Il pensiero in quanto tale non può interagire con la
cosa estesa, né la cosa con il pensiero; ognuno si risolve in se stesso.
Immediatamente
sorge un problema: come funzionano, quindi, in congiunzione pensiero e corpo
nell’individuo umano? Che essi siano legati è un fatto ovvio. L’uomo può
coscientemente controllare il suo corpo spazialmente determinato tra altri
similu corpi, i suoi impulsi mentali sono trasformati in movimenti spaziali, ed
i movimenti dei corpi, causando alterazioni negli organi umani (sensazioni)
sono trasformati in immagini mentali. Il che significa che, dopo tutto, il pensiero ed il corpo interagiscono in qualche
modo. Ma come? Quale è la natura dell’interazione? Come essi si determinano,
cioè si delimitano l’un l’altro?
Come
avviene che una traiettoria, tracciata dal pensiero nel piano
dell’immaginazione, per esempio una curva descritta dalla sua equazione si
dimostra essere congruente con il profilo
geometrico della stessa curva nello spazio reale? Significa che la forma della
curva nel pensiero (cioè nella forma della “grandezza” dei segni algebrici
dell’equazione) è identica con una corrispondente curva nello spazio reale, ad
esempio una curva tracciata su un pezzo di carta fuori dalla testa. Essa è
sicuramente una e la stessa curva, solo che una è nel pensiero e l’altra
nello spazion reale; quindi agendo in accordo con il pensiero (inteso come
senso di parole o segni), simultaneamente agisco nel più stretto accordo con la
forma (in questo caso il profilo geometrico) di una cosa fuori dal pensiero.
Come
può essere, se “la cosa nel pensiero” e “la cosa fuori dal pensiero” sono non
solo “differenti” ma anche assolutamente opposte? Per assolutamente opposte
intendiamo precisamente questo: non aventi nulla in “comune”, nulla di
identico, alcuna attributo che possa costituire un criterio del concetto “cosa
fuori dal pensiero” e per il concetto “ cosa nel pensiero”, o “cosa
immaginata”. Come possono quindi i due mondi conformarsi reciprocamente? E, per
di più, non accidentalmente, ma sistematicamente e regolarmente, questi due
mondi che non hannno assolutamente nulla in comune, nulla di identico?
Questo è il problema attorno al quale ruotavano, Cartesio stesso, Geulincx,
Malebranche e la massa dei loro seguaci.
Malebranche
espresse la principale difficoltà qui sorta in un suo proprio, arguto, modo:
durante l’assedio di Vienna, coloro che difendevano la città indubitabilmente
vedevano l’esercito turco come “turchi trascendentali”, ma quelli uccisi erano
turchi molto reali. La difficoltà qui è chiara; e dal punto di vista di
Cartesio a proposito del pensiero essa è assolutamente insolubile, poiché i
difensori di Vienna agivano, cioè armavano e sparavano le loro cannonate in
accordo con le immagini dei turchi che si producevano nei loro cervelli, in
accordo con i “turchi trascendentali” “immaginati”, e con traiettorie calcolate
nei loro cervelli; ed i colpi cadevano tra i turchi reali in uno spazio che non
solo rea fuori dalle loro teste, ma anche fuori dalle mura delle fortezze.
Come
avviene che due mondi non aventi assolutamente nulla in comune tra loro siano
in accordo, cioè il mondo “pensato”, il mondo nel pensiero, ed il mondo reale,
il mondo nello spazio? E perché? Dio solo lo sa, rispondevano Cartesio e
Malebranche e Geulincx; dal nostro punto di vista è inesplicabile. Solo
Dio può spiegare tale fatto. Egli rende accordati i due mondi opposti. Il concetto “Dio” entra qui come
costruzione “teoretica” attraverso la quale esprimere l’ovvio ma completamente
inconcepibile, fatto dell’unità, congruenza, e forse identità, di fenomeni che
sono assolutamente contrari per definizione. Dio è il “terzo” che, come “anello
di congiunzione”, unisce e tiene in accordo pensiero ed essere, “corpo” ed
“anima”, “concetto” ed “oggetto”, azione nel piano dei segni e delle parole ed
azione nel piano dei reali, geometricamente definiti corpi fuori dalla testa.
Giunti
di fronte alla nuda dialettica del fatto che il “pensiero” e “l’essere al di
fuori del pensiero” sono in assoluta opposizione, sebbene nondimeno in accordo
l’uno con l’altro, in una unità, in una inseparabile e necessaria
interconnessione (e quindi subordinati ad una qualche legge più alta – ed in
aggiunta, ad una stessa unica legge, la scuola cartesiana capitolò di fronte
alla teologia, risolvendo tale fatto
inesplicabile (dal suo punto di vista) in Dio, e spiegandolo come
“miracolo”, cioè in virtù di un diretto intervento di poteri sovrannaturali che
agiscono nella catena causale degli eventi naturali.
Cartesio,
il fondatore della geometria analitica, non potè quindi spiegare in alcun modo
razionale alcuna ragione come l’espressione algebrica di una curva nella forma
di equazione “corrispondesse” all’immagine spaziale della curva tracciata. Esse
non potevano, infatti, accordarsi senza l’intervento di Dio, poiché, secondo il
punto di vista di Cartesio, le azioni con i segni e sulla base dei segni,
coerenti nel puro piano dei segni (nel loro senso matematico), e cioè azioni
nello spezio del “puro pensiero”, non avevano nulla in comune con la reale
azione fisica nella sfera delle cose spazialmente determinate, secondo i loro
reali profili. Le prime essendo pure azioni dell’anima (o del pensare come
tale), le seconde – azioni nei corpi, che ripetono i profili (le linee
geometriche spaziali) dei corpi esterni, e quindi completamente governate dalle
leggi del mondo materiale “esterno”.
(Tale
problema non è meno acutamente posto oggi dalla “filosofia della matematica”. S
le costruzioni matematiche sono trattate come costruzioni dell’intelletto
creativo dei matematici, “libere” da ogni determinazione esterna e operanti
esclusivamente sulla base di regole “logiche” – ed i matematici stessi,
seguendo Cartesio, sono raramente capaci di interpretarle esattamente – diviene
del tutto enigmatico ed inesplicabile come, sulla terra, i fatti
dell’”esperienza esterna”, siano in accordo e coincidano nella loro espressione
matematica, o numerica, con i risultati ottenuti da un calcolo puramente logico
e operato dalla “pura” azione dell’intelletto. E’ assolutamente non chiaro.
Solo “Dio” può aiutare).
In
altre parole l’identità di tali opposti (“pensiero”, “spirito”, ed
“estensione”, “corpo”) fu anche compresa da Cartesio come principio fattuale –
senza il quale persino la sua idea di una geometria analitica sarebbe stata
impossibile (e non solo inesplicabile) – spiegato come un atto di Dio, un suo
intervento nella interrelazione di “pensiero ed essere”, “corpo ed anima”. Dio,
in aggiunta, nella filosofia cartesiana, ed in particolare per Malebranche e
Geulincx, veniva inteso come il tradizionale ed ortodosso Dio cattolico, agente
dall’esterno, dall’alto del suo trono celeste, sui “corpi” e sulle “anime”, per
co-ordinare le azioni dell’”anima” con quelle del “corpo”.
Questo
è l’essenziale del problema mente-corpo, in cui non è difficile leggere la
specificatamente concreta, e quindi storicamente limitata, formulazione del
problema centrale della filosofia. Il problema della comprensione teoretica del
pensiero (della logica), in rapporto al quale, e non alle mere regole per
l’operare con parole o altri segni, si pone la soluzione del problema cardinale
della filosofia, o della metafisica, per usare un antico termine. E’ qui che
risiede l’importanza della cultura del pensiero genuinamente teoretico dei
filosofi classici, che non solo seppero porre i problemi in tutta la loro
chiarezza, ma seppero come risolverli.
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