lunedì 13 aprile 2020

Riflessioni 18... - Stefano Garroni

Stefano Garroni (Roma, 26 gennaio 1939 – Roma, 13 aprile 2014) è stato un filosofo italiano. Assistente presso la Cattedra di Filosofia Teoretica (Roma Sapienza) diretta, nell'ordine, dai Proff. U. Spirito, G. Calogero e A. Capizzi. Nel 1973 entrò a far parte del Centro di Pensiero Antico del CNR diretto dal Prof G. Giannantoni.
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Pubblichiamo, in forma di "Riflessioni", un'altro breve scritto  inedito di Stefano Garroni. 
Ci sembra opportuno farlo in quanto esplicita la situazione di smarrimento in cui gli appartenenti ad una vasta area "di sinistra" si sono ritrovati all'indomani del crollo dei paesi socialisti nell'Est europeo. 
La preoccupazione di fondo descritta da Garroni relativamente all'incapacità del cosidetto marxismo italiano (e non solo) di farsi "arma critica radicale" nell'affrontare la situazione in corso, per rivolgersi, invece, ad una "oscillante nuova cultura" al contempo "rigida ed accomodante, sclerotica e disponibilissima, spocchiosa e incoerente" ma appunto incapace di leggere la gravissima fase storica, lascia intendere (profeticamente) quella che sarà poi la deriva autodistruttiva fino ai nostri giorni. 
E' una denuncia chiara della scelta di rinunciare all'analisi marxista della lettura dei fatti. 
Una scelta che s'è rivelata, lo vediamo bene oggi, l'annichilimento totale di una sinistra "perbene" pronta a credere nella possibilità di un capitalismo riformabile.

Stefano Garroni ci ha lasciato il 13 aprile 2014. Vogliamo oggi così ricordarlo. (il collettivo)
"Smarrimento" - Stefano Garroni 20/02/1990
Tentiamo una prima riflessione sulle reazioni della sinistra, in particolare della cultura di sinistra, agli eventi dell’Est europeo.
È certo, ciò che subito si nota è smarrimento (non perché sia l’unica reazione, ma sì la più visibile e diffusa).
D’altra parte contenuti, modi e ritmi di quegli eventi son tali da giustificare tale smarrimento, data la grande difficoltà di organizzare gli eventi stessi entro parametri e inferenze, che consentano valutazioni sufficientemente pacate e ragionevoli.
Tuttavia in quello stesso smarrimento c’è anche qualcosa di assai meno ovvio. Lo testimonia il linguaggio della sinistra, che si va sempre di più connotando per il ricorso a termini generici, retorici (“democrazia”, “libertà”, “valori universali”, “modernità”), quasi non fosse vero che un concetto è scientificamente attendibile, quando è internamente articolato fino al punto da specificarsi, puntualizzarsi e, quindi, divenir comprensibile ed usabile in contesti storici e politici determinati.
Ciò che preoccupa è che, di fronte ad eventi sicuramente epocali (come che vadano, poi, giudicati per la loro dinamica e il loro significato), la sinistra e la sua cultura riescano, solo, a compiere un clamoroso balzo all’indietro, riscoprendo modalità di ragionamento e di giudizio storicamente così datati (la sinistra, ad esempio, sembra a volte rilanciare perfino la dottrina sociale della Chiesa), da renderle sempre meno capaci di orientarsi nel mondo attuale.
È una preoccupazione, questa, largamente fondata. Non è infatti la prima volta (si pensi agli anni del cosiddetto miracolo economico, o agli inizi degli anni ’60, o al ‘68) che la sinistra e la sua cultura non riescono a recepire, egemonizzare, anticipare (mentre è proprio questo che dovrebbero fare) eventi grandi, che interessano la società tutta ed, in particolare, le masse del proletariato tradizionale e moderno.
In questo senso, il periodo, che iniziò col ’67-’68, è largamente significativo: è lì che abbiamo visto la sinistra oscillare smaccatamente fra i poli di un marxismo sclerotizzato ed una cultura vissuta come “nuova”, che non altro, invece, significava se non l’immediata espressione di una crisi vasta, profonda, insieme al rilancio di temi spiritualistici ed irrazionalistici.
Quell’oscillare ed il tentativo di saldare temi del marxismo sclerotizzato con pezzi interi della cosiddetta “nuova” cultura, ovviamente, testimoniavano di guasti profondi già avvenuti: in definitiva , di uno scarto apertosi fra la cultura (e la politica) di sinistra ed i processi profondi, che specificano il nostro tempo.
Questo forse è l’elemento più di fondo. Quali che ne siano i motivi (che vanno studiati puntualmente), anche il cosiddetto marxismo italiano è andato progressivamente perdendo il carattere di arma critica radicale, per trasformarsi in un pasticcio di tradizioni spurie (se non opposte addirittura) con un sostanziale esito mistificante. Il realismo proprio della grande tradizione marxista è stato sostituito da una cultura , ad un tempo, rigida ed accomodante, sclerotica e disponibilissima, spocchiosa e incoerente. L’innesto, poi, di motivi “moderni” – ma, in realtà, fortemente ideologici, addirittura nel senso dello spiritualismo e dell’irrazionalismo – certo, non potevano migliorare la situazione.
Se così stanno le cose, allora ecco il significato più vero ed allarmante di quello smarrimento, di cui dicevamo all’inizio.
E possiamo, a questo punto, anche comprendere perché proprio la sinistra non riesca a fornire degli eventi dell’Est Europa una lettura non di maniera, non ideologica, ma che tenga conto, invece, di un gioco più nascosto di fattori (militari, economici, diplomatici), che per il fatto di non essere “televisivi”, non per questo risultano meno reali e determinanti.
Insomma, se è vero – come è vero – che un’epoca è finita, sarebbe auspicabile che ne iniziasse una nuova, in cui i marxisti si mostrassero capaci di “tornare a Marx” nell’unico modo in cui ciò è possibile. Ossia, non certo mettendo tra parentesi la storia e leggendo finalmente il “vero” Marx (che in un certo senso non esiste); ma sì riprendendo del marxismo la criticità radicale e la disponibilità piena all’uso della ragione per leggere gli odierni processi contraddittori del capitalismo e costruire, su questa base, la strada per il socialismo.

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