sabato 4 aprile 2020

- PRIVILEGIO DI CLASSE: IN QUARANTENA A SPESE DEGLI ALTRI -

Da: https://www.idiavoli.com/it -


Nel cinema la borghesia mangia di continuo, beve spesso, fuma un po’ più di rado, ma soprattutto ha una costante: è sempre chiusa in casa. In una lunga, infinita, abominevole e godereccia quarantena. Avere una casa, dei soldi, del cibo, una rendita, un lavoro, non è un diritto garantito a tutti. È un privilegio per pochi, esiste dalla notte dei tempi, persiste prima e dopo l’epoca della pandemia.


«È pronto, venite!» esclama sorridente la padrona di casa. Cuochi e cameriere depositano sulla tavola imbandita svariate pietanze per la cena in piedi. E in un attimo un’orda famelica di persone, già sazia per grazia ricevuta, si avventa a divorare tutto quel ben di dio in eccesso, quel plusvalore gastronomico di cui non può fare a meno. 


È la borghesia romana, composta da registi e produttori cinematografici, deputati e giornalisti, professori e cortigiani. È una classe sociale che da sempre vive rinchiusa dentro quelle quattro mura della sala da pranzo – più infinite stanze, più terrazza – nutrendosi come un parassita di ciò che ha tolto agli altri. 

È il film La terrazza (1980) di Ettore Scola, ma potrebbe essere un qualsiasi film che cerchi di rappresentare la borghesia occidentale del dopoguerra. Da quelli più elegiaci e assolutori, emblematica la scena del pranzo ne Il capitale umano (2013) di Paolo Virzì, a quelli più feroci e sovversivi, come nei manicaretti de La grande abbuffata (1973) di Marco Ferreri. 


Nel cinema la borghesia mangia di continuo, beve spesso, fuma un po’ più di rado, ma soprattutto ha una costante: è sempre chiusa in casa. In una lunga, infinita, abominevole e godereccia quarantena. Avere una casa, dei soldi, del cibo, una rendita, un lavoro, non è un diritto garantito a tutti. È un privilegio per pochi. Dalla notte dei tempi. Prima e dopo l’epoca della pandemia. 

L’elogio della clausura, la romanticizzazione della quarantena, sono privilegi di classe.

Gli operai che nelle province di Milano, Bergamo e Brescia sono stati costretti a continuare a lavorare per settimane dopo l’esplosione del SARS-CoV-2, dopo la creazione delle prime zone rosse nel lodigiano e nel padovano, dopo il lockdown imposto all’intera penisola. Tranne a loro. 

Solo in queste province quasi due milioni di persone, più della metà nelle cosiddette filiere produttive non essenziali, per settimane sono state costrette a uscire di casa, si sono contagiate, sono tornate a casa, hanno contagiato. Sono morte, hanno fatto morire. Per la gloria del capitale, del fatturato, della borghesia. 

I camion dell’esercito nella notte hanno trasportato bare con cadaveri di esseri umani sacrificati sull’altare del plusvalore. 

I facchini della logistica, i rider delle consegne, gli operai delle fabbriche e dell’agricoltura, i commessi della grande distribuzione alimentare, i venditori ambulanti. I medici, gli infermieri, gli assistenti, i volontari, i richiamati al lavoro, i ritornati in servizio. Tutte persone senza tutele, senza futuro, con contratti a termine, in nero. Tutte persone che non hanno potuto, cui è stato impedito di, rimanere a casa. Sempre che una casa ce l’avessero, e non dormissero per strada. 




Come gli homeless che nella ricchissima Las Vegas, la “capitale del divertimento” che sorge al centro del desertico Nevada, sono stati deportati in un parcheggio e disposti nelle aree di competenza: righe bianche tracciate con la vernice sull’asfalto, a formare delle gabbie (immaginarie ma non troppo), a due metri di distanza l’una dall’altra. Una scena degna dell’inquietante film Dogville di Lars Von Trier. Individui abbandonati a sé stessi, a morire di fame e di stenti, ma a qualche metro di distanza, per evitare di contagiarsi, certo. 




Produci, consuma, crepa. La nuova classe operaia al tempo della quarantena non va in paradiso. E non può nemmeno rimanere a casa. 




È una costante del cinema borghese. Dal melodramma di Douglas Sirk e Luchino Visconti, al cinema di contestazione di Jean-Luc Godard e Marco Bellocchio: stanno tutti chiusi a casa. E di nuovo nelle più feroci aggressioni alla morale imperante dei gialli di Alfred Hitchcock o nelle bombe molotov surrealiste di Luis Buñuel, nelle perversioni amorose a due o a tre di Bernardo Bertolucci e nelle nostalgie pseudo libertarie di Lawrence Kasdan: è tutto al chiuso, claustrofobico. È tutto in casa.

Nelle commedie di Woody Allen e in quelle di Nanni Moretti, che con sguardo arguto descrivono amabilmente vizi e virtù della classe sociale di cui fanno parte, cercando di decostruirla. Nelle ferocissime satire di Michael Haneke e Roman Polanski, che la loro classe sociale di appartenenza decidono di disintegrarla senza alcuna pietà, più che decostruirla. L’angoscia ineluttabile è data dall’impossibilità di muoversi del corpo in sé e del corpo prigioniero nel suo ambiente, che è chiuso, sigillato. In quarantena. 

Le due coppie di genitori borghesi che si incontrano un pomeriggio nel meraviglioso appartamento di New York, o per meglio dire nascono e muoiono in quella casa, come sottolineato dalla continua impossibilità degli ospiti di andarsene: mangiano sempre, bevono spesso, ogni tanto telefonano. 

Nella metafora del conflittualità eterna provocata dalle convenzioni sociali che è Carnage (2011) di Roman Polanski, la famiglia, il matrimonio, la genitorialità, l’accusa, la difesa, il ruolo della vittima e quello del carnefice, la colpa e la pena, sono messi continuamente in discussione tra una portata e l’altra.

Un’unica costante emerge nella rappresentazione plastica della violenza di classe: il mangiare.
In generale, in tutte queste clausure eterne su celluloide della borghesia, la classe che più può rivendicare il privilegio storico della quarantena, è sempre presente a livello più o meno inconscio: il cibo. 

Marco Ferreri, uno dei più grandi artisti del Novecento, lo esplicita alla grande, non solo nelle pellicole La grande abbuffata, La cagna (1973), La carne (1991) e Ciao maschio (1978), ma anche in un film ellittico e metafisico come Dillinger è morto (1969), in cui tutta la tragica non-azione del film non è altro che la metafora della preparazione di un pasto. Gli altri registi del mondo borghese vi dedicano comunque più di un riferimento. 

Perché il parassita non fa altro che nutrirsi. Come ha spoliato e saccheggiato il pianeta, devastandolo e aprendo la strada al virus e alla pandemia, alla ricerca di materie prime che potessero riempire il vuoto pneumatico dei suoi desideri insoddisfatti, così nella sua clausura a tempo indeterminato è costretto a nutrirsi in continuazione, sottraendo a chi non ha, spoliando e saccheggiando i più deboli, quelli costretti fuori. 

Nell’epoca della pandemia, i continui inviti a restare a casa avanzati attraverso i video postati sui social da persone più o meno famose, di certo ricche, comode e sicure nelle loro enormi case piene di cibo, mentre fuori avanza la morte avvolgendo chi a casa non può rimanere, sono le protesi contemporanee di questo cinema. 

Una classe sociale privilegiata che invita gli altri a imitarla, dopo aver depredato gli stessi e tolto loro ogni possibilità di accedere allo stesso livello di benessere. 

Appelli alla vita, che suonano come tremendi e velenosi inni di morte. Dal pulpito di un’unica, immensa e lunghissima quarantena, durata oltre un secolo, la borghesia italiana ogni volta che appare in un qualsiasi fotogramma chiusa nella sue quattro mura, a celebrare il “va tutto bene”, può ricordare una sola cosa: la romanticizzazione della quarantena è un privilegio di classe.


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