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(Tesi su Feuerbach* - Karl Marx)
I. Per una definizione meno vaga del concetto di “critica” attraverso Marx
Nel mondo anglosassone e non solo, la popolarità del termine “critica” è tale che sulla “critical theory” si possono trovare in libreria dizionari, glossari, antologie.1 Sfogliando le pagine di queste pubblicazioni, tuttavia, talvolta si resta un po’ disorientati vedendo accostati autori assai lontani tra di loro, al punto che è difficile scovare un tratto comune, se non in un generico atteggiamento anti-mainstream. Che cosa sia mainstream resta del resto non chiaramente espresso. Ovviamente, non si intende qui liquidare il contributo di autori assai importanti; si tratta piuttosto di prendere atto che questo galassia pare riconducibile a una qualche unità solo per via negativa, un criterio di distinzione/identificazioni troppo generico e, da sempre, potenzialmente foriero di accostamenti pericolosi.2
Un tentativo di ricostruzione della storia del termine andrebbe ovviamente molto al di là dei limiti di questo contributo, in questa prospettiva però si può forse fare qualche considerazione di carattere generale a partire dall’autore che meglio conosco, vale a dire Karl Marx. È noto, infatti, che molte delle sue opere contengono la parola “critica” addirittura nel titolo3 e che l’ambiente della “critica critica”, come sarcasticamente Marx la definisce nel sottotitolo della Sacra famiglia, rappresentò il contesto culturale nel quale avvenne la sua formazione e dal quale prese successivamente le distanze.
La tesi da indagare, che qui si espone solo come spunto di ricerca da approfondire, è che il termine venga utilizzato in una maniera analoga a quella che si configura nell’ambito della metodologia storico-critica dell’esegesi biblica tedesca degli anni trenta e quaranta dell’ottocento grazie a interpreti come Strauss, Bruno Bauer, ecc. Esso ha quindi solo mediatamente a che fare con la critica kantiana e sembra piuttosto riguardare il processo di riconduzione dei fenomeni storici alle cause storico-politico-culturali che li hanno determinati; si tratta insomma di ricostruire e conoscere il contesto per cui essi si determinano in una certa maniera, contesto che sempre più si configurerà come “economico”.4
Questo processo della conoscenza, illuministico in senso lato, è comprensione, chiarimento e quindi superamento del non conosciuto dentro la sfera del conosciuto. Nel contesto post-hegeliano in cui questa critica si sviluppa, tale processo viene facilmente riconfigurato come modalità di attuazione dell’autocoscienza che, nell’alterità, riconosce se stessa e, ancor di più, il processo per cui essa si scinde in sé e nel proprio altro per poi individuare in questa modalità nient’altro che la dinamica di autoattuazione dell’autocoscienza stessa. Il limite di questa “critica critica” consiste nell’accontentarsi di questa riconciliazione nel pensiero e di non comprendere la natura reale dell’alterità, che può essere superata solo dalla soppressione reale dei processi che la generano; in questo senso, l’alienazione non è altro che la versione filosofica di ciò che spiega assai più efficacemente l’economia politica inglese, ovvero la filosofia tedesca post-hegeliana non è che la versione speculativa la cui chiave reale è l’economia politica classica. In sostanza sono i – per adesso non meglio definiti – processi reali a determinare le ipostatizzazioni ideologiche, intellettuali, culturali, istituzionali e non viceversa; senza una “critica” reale che trasformi questi ultimi, gli altri continueranno a sussistere.
II. Critica ed esposizione scientifica. Le ipostasi della circolazione semplice
Smascherare la parvenza – e le giustificazioni di esse da parte delle teorie mainstream – è sicuramente un elemento cruciale dell’atteggiamento critico. Tuttavia, sarebbe erroneo per Marx ritenere che, spiegando l’origine storica e causale dei fenomeni, si sia giunti al termine del processo critico e che ciò basti a far comprendere e bloccare i meccanismi per cui certe ideologie si producono e si affermano. In questo senso la posizione del Marx maturo è molto chiara; la comprensione ad es. del denaro come rapporto sociale di per sé non scalfisce minimamente l’effettualità funzionale del denaro ed il suo feticismo: esso continua a funzionare come cosa che ha valore di per sé anche dopo che si è dimostrato come questa sua qualità sia tutt’altro che naturale, ma frutto di uno specifico rapporto di produzione storicamente determinato. Lo stesso vale per l’astratta personalità o, in termini più generali, per l’antropologia filosofica: mostrare che l’individuo in generale è una forma storicamente determinata generata dalla dinamica dello scambio e universalizzata – grazie al modo di produzione capitalistico – dall’estensione della merce a forma universale del prodotto non basta a eliminare la parvenza della sua sostanzialità presociale. Quindi non solo è necessaria la spiegazione che la chiave del denaro è la merce, si tratta anche di spiegare come i meccanismi obiettivi producano determinate parvenze: non basta mostrare che esse sono tali, bisogna dare ragione della loro pervasività sociale, ovvero di come si creino ideologie vere e proprie.
Quest’ultimo caso in particolare è paradossale e determinante per quanto concerne l’individuazione dei soggetti della critica e dei caratteri fondamentali dell’ideologia borghese: la parvenza della sostanzialità dell’individuo-persona, prodotto dalla generalizzazione della circolazione delle merci, è così forte, che la stessa teoria del feticismo è stata letta in chiave essenzialistica, come alienazione… dell’essere umano in generale. Vale a dire che la teoria che mostra come la “personalità” sia il riflesso soggettuale della cosa “denaro” – il corrispettivo “personale” del “feticismo della merce” – viene disgiunta dal nesso di modo che si considera la persona addirittura l’essenza che viene alienata dal denaro prima, dal capitale poi. Proprio la teoria che spiega come l’individuo astratto sia un prodotto storico tipicamente borghese viene utilizzata per sostenere la “alienazione” capitalistica di questo preteso “essere umano” in generale che si vorrebbe transstorico. Talvolta si pretende addirittura “critico” il discorso che svelerebbe l’apparenza invertita rispetto a siffatta “essenza”.
Quest’ultimo aspetto è veramente rilevante nella prospettiva dell’elaborazione di un discorso critico, perché prendere la mosse dalla sostanzialità dell’individuo rispetto al quale si misura il suo rapporto con il “potere”, con il “capitalismo”, con lo “Stato” con le “astrazioni” e via dicendo, da subito colloca il presunto discorso critico nell’orizzonte di senso borghese, vale a dire in quello che ipostatizza l’individuo presociale ad attore ut sic, per poi misurare la costituzione della socialità come sua azione successiva. Si rinuncia in linea di principio a pensare la co-definizione dell’individuo come momento della dinamica processuale complessiva; esso, da necessario ed insostituibile luogo dell’azione, diviene sì luogo dell’azione, ma anche sostanza autofondativa del processo di mediazione.5
Anche molti di coloro che hanno inteso interpretare “criticamente” il mondo della circolazione semplice si sono fermati alla sfera della circolazione e hanno affrontato il passaggio alla trattazione del capitale mantenendo la prospettiva delle forme di soggettualità da essa create, quindi non cogliendo veramente, al di là delle dichiarazioni, che esse sono di “superficie”, come lo è la circolazione semplice.6 Quest’ultima si nega nella misura in cui si pone completamente e passa nel capitale. Il necessario passaggio al rapporto di capitale instaura nuove figure di soggettualità, le classi, che sono il fondamento funzionale e dinamico dell’intero rapporto, vale a dire sostanziali, e che spiegano la circolazione, coi suoi feticci materiali ed ideologici, per quello che è: parvenza fenomenica. Non è, e non può essere quindi, la persona – trasfigurata nell’astratto umano – il termine di paragone dello sfruttamento capitalistico, ma la classe. Anzi, la persona funge da mascheramento universalistico dell’effettivo rapporto di classe.7
3. Soggetti della critica. Classi o persona? Un capitolo da scrivere
La domanda implicita quindi in quanto detto finora è: chi esercita la critica? e su che cosa la esercita? La risposta implica pensare un tutto in cui tanto chi esercita la critica quanto l’oggetto su cui essa è esercitata si definiscano nel rapporto stesso ed abbiano forme di movimento processuali sostanziali, vale a dire che determinano le caratteristiche dei soggetti e le loro possibilità conoscitive.
Se la determinazione del soggetto e dell’oggetto fa parte in realtà dello stesso processo che si va ad investigare, la questione in gioco è pensare una processualità che ponga soggetti essi stessi co-determinati dal processo che studiano. Quindi, la critica non può più essere un qualcosa che si fa preliminarmente prima di investigare, a partire da un dato soggetto e un dato oggetto per poi vedere come il primo spieghi il secondo. Questa è l’illusione scientista. Lo sviluppo stesso dell’articolazione teorica del reale è a sua volta, contemporaneamente, la sua critica. Non a caso Marx alla fine decise di mettere Critica dell’economia politica solo come sottotitolo della sua opera, adesso intitolata Il capitale. Non viceversa. L’esposizione della teoria del reale diviene un aspetto della sua stessa autocomprensione critica.8
Marx “supera” dunque il concetto di critica discutendo i limiti dell’illuminismo. La critica di Marx non è quella di Bauer o quella dello “illuminismo”, ma una sua ridefinizione nel pensiero concettuale-speculativo di matrice hegeliana, che certo non la fa scomparire, ma la ricontestualizza. Per questa diventa sottotitolo e non più titolo. Critica per Marx è certo riconduzione delle ideologie alla loro base materiale, ma non solo: è esposizione dialettica della teoria che, di fatto, mostra la genesi obiettiva delle false teorie. Mostrare questa genesi è esposizione dialettica, non la “mera” critica filologica o delle fonti, o delle cause materiali contingenti storicamente date. Questo è solo un punto di partenza, giusto, necessario, ma limitato. L’illusione dell’illuminismo è credere che, mostrando questa genesi o l’insussistenza di certe conclusioni, il discorso sia finito. Per Marx invece è solo iniziato: bisogna mostrare concettualmente, non solo di fatto, come quella parvenza necessaria si produca. Ciò fatto, resta la questione di fondo: solo mutando la struttura dei rapporti sociali, quel tipo di parvenza oggettiva cesserà di prodursi.
La comprensione della natura ipostatica della personalità, fondamento dell’antropologia filosofica, è un primo importante risultato critico. Tuttavia, si deve stare attenti a non scambiare la prospetticità della teoria della conoscenza legata alla funzionalità di classe,9 cui si è fatto cenno sopra, con una mera reintroduzione della teoria della forza, che fa il paio con l’assunto della relatività assoluta della verità. Il rischio è cadere nell’idea che il criterio di verità o non esista affatto o sia il suo stesso farsi – verum et factum convertuntur –, ovvero che l’unico modo per determinarla sia la capacità di autorealizzazione di un principio incarnato, immanente alla prassi di attori determinati.10 La pratica teorica di Marx è la dimostrazione di quanto egli fosse lontano da un approccio di questo tipo e di come avesse un concetto fortemente argomentativo di sapere e scienza: migliaia di pagine di dimostrazioni e ragionamenti, l’idea di un tutto sistematico di fin troppo chiara radice hegeliana; per sua stessa dichiarazione: un metodo dialettico. Insomma: dato il contesto e la configurazione prospettica, Marx ha un’idea solida di sapere, dimostrativa.11
Accettando questa impostazione, si tratta adesso di configurare 1) una adeguata nozione di classe – il soggetto pratico e conoscitivo che opera la critica – e 2) un contesto più determinato, a un livello di astrazione più basso rispetto alla teoria generale del capitale, nel quale essa si esercita. Si tratta ovviamente di un compito che non è possibile svolgere in queste pagine.12
Note
1 Cfr. The Routledge Companion to Critical Theory, Ed. by S. Malpas and P. Wake, London and New York, Routledge, 2006; R. Keucheyan, Hemisphere gauche. Une cartographie des nouvelles pensées critiques, Paris, La Decouverte, 2010. Recentemente in italiano: G. Cesarale, A sinistra. Il pensiero critico dopo il 1989, Roma-Bari, Laterza, 2019.
2 Un approccio alla critica così indeterminato pare a me legittimato, di mediazione in mediazione in maniera sempre più colta, da posizioni come quella di M. Foucault e la sua critica del “potere-sapere”: emblematicamente cfr. M. Foucault, Qu’est-Ce Que La Critique? Conférence donnée à la Société française de Philosophie le 27 mai 1978, pubblicato in francese sul «Bulletin de la société française de philosophie», LXXXIV, 1990, 84, 2.
3 A titolo di esempio: Per la critica della Filosofia del diritto di Hegel, La sacra famiglia ovvero Critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci, Per la critica dell’economia politica, utilizzato poi anche come celebre sottotitolo del Capitale.
4 Si badi bene che Marx utilizza il termine in un senso tutto specifico, ben lontano da ciò che si intende oggi per economia: si tratta della teoria della società moderna nel suo complesso. Su questo punto sono ancora fondamentali le critiche di Antonio Labriola all’interpretazione dei “fattori”. Cfr. A. Labriola, Saggi sul materialismo storico, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 23, 53, 60, 103-105.
5 Qui ancora insuperato il contributo di A. Mazzone, Questioni di teoria dell’ideologia, Messina, La libra, 1981.
6 È un problema filosofico cruciale dal quale non sono alieni la Scuola di Francoforte, Colletti, e molti altri.
7 Non si fraintenda questa critica dell’antropologia filosofica con un attacco politico alla categoria di “persona” o a una presa di posizione contro i sacrosanti diritti personali. Qui si tratta di pensare la costituzione filosofica delle categorie e la loro forma di movimento nella teoria marxiana del Capitale; non distruggere o cancellare il concetto di persona, ma spiegare che cosa è.
8 Su questo punto si vede l’efficace ricostruzione di T. Redolfi Riva, A partire dal sottotitolo del Capitale: Critica e metodo della critica dell’economia politica, in Marx inattuale, a cura di R. Bellofiore e C.M. Fabiani, Roma, Edizioni Efesto, 2019.
9 Per il rapporto tra funzione e conflitto nel modo di produzione capitalistico, non si può che rimandare a un altro classico: G.M. Cazzaniga, Funzione e conflitto. Forme e classi nella teoria marxiana dello sviluppo, Napoli, Liguori, 1981.
10 Ci si riferisce abbastanza esplicitamente al marxismo di G. Gentile e alla deriva di una certa interpretazione della teoria della praxis ad essa debitrice.
11 Ho cercato di dimostrarlo nel dettaglio nel mio Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria del “capitale”, Napoli, La città del sole, 2001.
12 Tentativi preliminari che muovono in questa direzione sono quelli di A. Mazzone su «Proteo», tutti reperibili on-line, in particolare: Le classi nel mondo moderno. Rappresentazione e concetto (prima parte), Le classi nel mondo moderno. La complessità del conflitto (Seconda parte), Le classi nel mondo moderno (parte terza). Nuove frontiere della produzione e dello sfruttamento. Mi permetto di rimandare anche alla mia distinzione tra “forme” e “figure” come chiave per la comprensione della continuità e discontinuità della conflittualità di classe e nella determinazione dei soggetti storici (Un nuovo Marx. Filologia e teoria dopo la nuova edizione storico-critica, Roma, Carocci, 2008, parte terza) e a mie più recenti riflessioni sulla teoria della “violenza” (Violenza e strutture sociali nel capitalismo crepuscolare, in Nomi e forme della violenza politica. Dopo il novecento, Bologna, il Mulino (in corso di pubblicazione).
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