giovedì 9 aprile 2020

La Russia è un paese imperialista? - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it/ - Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. 
Leggi anche: Il mito dell’imperialismo russo: in difesa dell’analisi di Lenin*- Renfrey Clarke, Roger Annis


Nel complesso mondo contemporaneo è importante comprendere qual è la natura degli Stati che stanno in competizione tra loro anche per operare una ragionata scelta politica.


Molti si interrogano anche da sinistra sul carattere imperialistico dell’attuale Russia, governata da Vladimir Putin, ex agente del KGB ed ex militare, ormai al potere dal 2000, per cui abbiamo deciso di mettere insieme una serie di dati raccolti da alcuni studi per rispondere a questa domanda. Naturalmente i fattori che hanno determinato il trapasso da una forma di capitalismo di Stato, con il riconoscimento di un’ampia serie di diritti e di conquiste ai lavoratori sovietici, a un capitalismo definito semi-periferico sono molteplici e di carattere esterno ed interno e tra questi ultimi bisogna annoverare il ruolo avuto dalla grande burocrazia.

Nel processo di disgregazione dell’URSS, iniziato negli anni ’80 e portato a termine dalle politiche di Gorbaciov, una parte importante è stata giocata anche dal capitalismo internazionale, il quale, per accaparrarsi le immense risorse sovietiche, ha sostenuto l’emergere di quello che si è definito capitalismo semi-periferico in Russia e nei paesi del CSI; capitalismo caratterizzato da ampi livelli di criminalità imprenditoriale, dalla fuga dei capitali, dalle privatizzazioni, dal controllo informale delle entrate, il cui costo è stato un sensibile calo demografico [1].

Per far accettare agli ex sovietici il passaggio al capitalismo un programma televisivo faceva questa propaganda: il socialismo era rappresentato da una torta che veniva divisa in piccoli pezzi distribuiti tra tutti i cittadini; anche il capitalismo era rappresentato da una torta, ma i pezzi erano assai più grandi e sempre divisi tra tutti. Ma ben presto si rivelò la triste realtà: i coupon rappresentanti i pezzi di proprietà sociale privatizzati, distribuiti tra i cittadini non valevano nulla, tuttalpiù si poteva con uno di essi avere in cambio una bottiglia di vodka. Nel frattempo chi aveva gestito e governato le grandi proprietà era stato in grado di fare incetta di questi beni, divenendone l’unico proprietario e sottraendoli al popolo sovietico.

Tale radicale trasformazione comportò la caduta senza precedenti della produzione, del livello di vita, la criminalizzazione della società, il collasso del sistema educativo e di quello sanitario, la riduzione della Russia a uno Stato semi-dipendente, l’implementazione del sottosviluppo – nozione proposta da A. Gunder Frank -, la disoccupazione, il declino del potenziale industriale, in un sistema economico in cui il 50% dei profitti della vendita delle materie prime vanno ai privati, stranieri compresi [2]. 

Come è noto, alcuni avevano previsto che, senza il trionfo della Rivoluzione a livello mondiale, la Russia sarebbe molto probabilmente tornata al capitalismo, anche perché il processo di decolonizzazione, cui la Rivoluzione di Ottobre aveva dato forte impulso, fu facilmente fatto abortire con forme di dominio neocoloniale tuttora vigenti. 

Una prima domanda che dobbiamo farci è: quali sono le classi che stanno dietro questo processo? Secondo il sociologo britannico David Lane, responsabili del cambiamento debbono essere considerate la classe amministratrice e la classe consumatrice, tale per i privilegi di cui godeva, interessata all’espansione del mercato. A queste dobbiamo aggiungere gli imprenditori del mercato nero, che gli organismi centrali non erano in grado di controllare, la classe politica globale e gli organismi internazionali (FMI) che hanno favorito il ristabilimento della proprietà privata, mediante le liberalizzazioni e la stabilizzazione macroeconomica.

Naturalmente le grandi corporazioni guardavano con interesse a quello che stava succedendo nei paesi ex socialisti, perché desideravano fortemente che questi aprissero i loro mercati, per riversare su di loro i prodotti invenduti per la crisi del capitalismo, che si stava sviluppando a partire dagli anni ’70 del Novecento. Dietro i funzionari russi, che dettero segretamente avvio a questo cambio, vi erano economisti e funzionari statunitensi, sostenuti dalla collaborazione con l’università di Harvard. Lo Stato cedette le sue proprietà a un valore miserrimo che era circa il 5 % del loro valore reale.

Come è avvenuto nella Repubblica Democratica Tedesca, in Russia è stata attuata una vera e propria espropriazione della popolazione da parte di ex burocrati e criminali con la complicità di sedicenti esperti ed economisti statunitensi, i quali predicavano la liberalizzazione dei prezzi, che genera l’inflazione, la svalutazione dei salari e dei risparmi. Nello stesso tempo fu imposta la stabilizzazione finanziaria, da cui sono scaturiti i tagli alla spesa sociale con tutte le conseguenze che abbiamo già indicato che hanno portato il numero dei poveri a quasi il 50% della popolazione (negli ultimi anni del regime sovietico era dell’1,5).

Questo radicale cambiamento, che per Lane non ha condotto alla costituzione di un capitalismo di tipo anglo-statunitense, perché ingessato dai residui di statalismo, si è svolto in un clima di scandalosa corruzione, che ha coinvolto sia gli apparati politici che il mondo imprenditoriale. In questa situazione, in cui ogni operazione economica può mettere a repentaglio la vita, i nuovi capitalisti hanno bisogno della protezione dell’apparato statale e sono costretti a creare strumenti di controllo e di sicurezza assai costosi per difendersi e per impedire le rivolte finora solo locali dei lavoratori.

Il capitalismo russo si regge al 90% su società fittizie, registrate in paradisi fiscali, che evadono le tasse e trasferiscono i loro capitali all’estero. Tale emorragia è rilevante, se è vero che tra il 1994 e il 2013 alla Russia sono stati sottratti 580 miliardi di dollari. Putin avrebbe rafforzato il dominio pubblico sull’economia, ma è difficile stabilire quanto sia in mano dello Stato e quanto dei privati, anche per l’esistenza delle imprese miste.

In questo complesso quadro sono ovviamente aumentate le ineguaglianze, fenomeno che avuto ripercussioni sulle dimensioni del mercato interno, e che è stato accompagnato dalla caduta degli investimenti. Il criterio che guida il comportamento dei capitalisti russi (ci sono 70 miliardari) è la politica di estrazione immediata della rendita e il cosiddetto cortoplazismo (ossia una visione non lungimirante del ciclo economico). Gli obiettivi di questa politica si realizzano soprattutto nel settore delle esportazioni delle materie prime (gas, petrolio, metalli ecc.), verso cui dunque vengono spostati i capitali (il 59% delle esportazioni è rappresentato da gas e petrolio).

Nel 2013 il ciclo recessivo sembra concludersi, ma il 40% delle imprese non intraprende una politica di investimenti, non favorendo quindi la modernizzazione delle infrastrutture, che ne migliorerebbe la produttività. Si creano monopoli, sulla base anche dei rami industriali messi insieme dalla pianificazione sovietica, nei quali capitale industriale e bancario si fondono, stabilendo le loro sedi alle Bahamas, Cipro e Isole Vergini.

Come si è anticipato, la Russia rappresenta un tipico esempio di capitalismo periferico con una sensibile caduta del settore manifatturiero a vantaggio di quello estrattivo più remunerativo nell’immediato, ma con un potenziale di modernizzazione molto basso. I capitalisti russi fanno parte della Lumpenborghesia, che gestisce un capitale comprador (intermediario e non produttivo) tendente ad emigrare verso dove viene maggiormente e più celermente valorizzato. Come si è già detto, in questo drammatico quadro, reso più vivace da una serie di importanti proteste locali, si sono registrati un forte calo demografico (250.000 persone in meno all’anno), un abbassamento del tenore di vita, che comporta una bassa aspettativa di vita (63 anni).

Riprendendo i temi trattati in un importante testo, esamineremo ora l’eventuale carattere imperialistico della Russia tenendo in conto gli aspetti già individuati da Lenin nel suo saggio classico. Lo scritto menziona gli aspetti del capitalismo russo già qui trattati: capitalismo semi-periferico, industrializzazione non avanzata, basso tenore di vita, e si sofferma sulle funzioni economiche meno redditizie da esso svolte nella divisione internazionale del lavoro.

Se facciamo un parallelo tra i vari criteri che caratterizzano il capitalismo avanzato e quindi imperialista, scopriamo che nel 2018 il PIL russo pro capite è inferiore a quello degli Stati Uniti, Israele, Malta etc. Nella Federazione russa il reddito pro capite disponibile è inferiore alla media OCSE e si attesta a 33.604 annui, con un tasso di disoccupazione del 6,6. Nel 2014 la produttività era meno della metà di quella europea, e il 35% di quella statunitense.

Dato che Putin si è mosso per rafforzare lo Stato, in una certa misura il controllo sull’economia si è esteso; si prenda l’esempio di Gazprom, società produttrice di gas al 40% di proprietà dello Stato e proprietaria di una rete televisiva, che controlla il 70% della produzione di gas russo, cui corrisponde al 18% delle risorse mondiali. Tale rafforzamento si manifesta anche nel fatto che gli imprenditori-oligarchi si trovano ad essere legati sempre più strettamente ai burocrati da cui dipendono per la loro sicurezza e per i loro investimenti. In molti casi sia imprenditori che burocrati godono della doppia cittadinanza, che la Nuova Costituzione proposta da Putin proibisce ai dipendenti pubblici, evidentemente per evitare più dirette ingerenze esterne.

Abbiamo già detto che si sono costituiti dei monopoli, come del resto in altri paesi in via di sviluppo quali l’Iran e l’Arabia Saudita, che possiedono significative imprese petrolifere; tra questi la già citata Gazprom, che starebbe in una lista comprendente le 2.000 società più importanti a livello mondiale, si collocherebbe al 27mo posto, precipitata in basso per la svalutazione del rublo; mentre Rosneft, società petrolifera di proprietà statale e presieduta dall'ex presidente tedesco Gerard Schöder, starebbe al 59mo posto. La lista vedrebbe ai primi posti la Toyota e la Apple.

A parere degli autori del saggio qui utilizzato, Renfrey Clarcke e Roger Annis, nonostante le loro grandi dimensioni, questi monopoli russi non sarebbero così consistenti come quelli dei paesi imperialisti; inoltre, in questi ultimi i monopoli non sono fondati generalmente su industrie di carattere estrattivo e votate all’esportazione, come nei casi russi su citati. Nel settore bancario la Russia registra uno scarso sviluppo delle attività finanziarie egemonizzate da due banche, in mano dello Stato con partecipazioni private, derivate da precedenti organizzazioni sovietiche, la Sberbank e il VTB Group. In una classifica risalente al 2015 la prima occupava il 50mo posto, riservando il 100mo alla seconda.

Persistente il declino del settore manifatturiero, altri aspetti che caratterizzano le relazioni economico-commerciali con il resto del mondo sono la limitata esportazione dei servizi (l’11,8% delle esportazioni) e dei beni ad alta tecnologia; in questo ultimo campo il paese di Putin è inferiore all’India, che ha una massa di prodotti esportati doppia rispetto a quella della Russia. In definitiva, sembrerebbe potersi ricavare dagli elementi indicati che la Russia non ha ancora raggiunto la fase suprema dello sviluppo capitalistico.

Da questa considerazione consegue che la Russia, benché nutra aspirazioni in questo senso, non è ancora un paese imperialista, è un petrostato, che importa ad alti prezzi macchinari e attrezzature necessarie al suo sviluppo economico. Come stiamo vedendo in questi giorni, dopo la decisione dell’Arabia Saudita di aumentare la produzione petrolifera, i prezzi di mercato gas e petrolio così pilotati si abbassano e le grandi potenze comprano a prezzi irrisori queste risorse, mettendo in crisi i paesi che fondano la loro economia sulla rendita estrattivista. In queste condizioni, si viene a realizzare un insieme di relazioni di scambio ineguale, che favorisce i paesi capitalisti avanzati per l’esportazione di prodotti ad alto valore aggiunto.

Abbiamo già fatto riferimento alla fuga dei capitali, che vengono trasferiti in paradisi fiscali e dove è anche facile il riciclaggio come Cipro e le Isole Vergini. Quanto alle multinazionali non finanziarie, legate alla Russia, nessuna di esse figura tra le 100 classificate per le maggiori attività estere. Come scrivono Clarcke e Annis: “Nelle loro esportazioni, i paesi imperialisti mostrano tipicamente un’inclinazione alla vendita di merci sofisticate e ad alto valore; di servizi tecnici ad alto coefficiente di conoscenza ed anche di servizi finanziari. Anche qui, la Russia porta i segni della periferia”. Quest’ultimo carattere si manifesta anche nella presenza di un’esigua classe media; la maggioranza dei salariati ha un reddito che oscilla tra i 300 e gli 800 dollari al mese, con i quali tuttalpiù si sopravvive.

Quanto agli investimenti esteri, facciamo un esempio. La Rostec, un conglomerato statale di prodotti tecnologici e per la difesa, intende investire in due paesi africani circa 7 miliardi di dollari per infrastrutture; tuttavia, tale cifra è irrisoria se teniamo conto che, per esempio, il Canada ha attivato in America Latina investimenti per decine di miliardi dollari. In Ucraina, paese ex appendice dell’ex URSS, la Russia investe addirittura meno della Germania e dell’Olanda.

Se globalizzazione vuol dire controllo delle rotte marittime, attraverso cui passa la maggior parte delle merci, la Russia è molto indietro su questo piano, perché esse stanno quasi completamente nelle mani degli USA; solo negli ultimi anni con un’abile politica Putin è riuscito a farsi spazio in Medio Oriente, conquistandosi un accesso al Mediterraneo. Anche la Cina ha grandi problemi in questo campo e si trova a competere con gli USA per controllo del Mare cinese meridionale.

Sin dall’epoca sovietica, il settore militare, come dimostrato dalle ultime armi e veicoli militari presentati da Putin, costituisce una parte a sé dell’industria del paese per gli avanzamenti e per le innovazioni, che lo caratterizzano, ma che purtroppo non ricadono sugli altri settori produttivi. Questa potenza è spiegata con il fatto che la Russia, come già l’ex-URSS, deve fronteggiare nemici sul tutto il confine occidentale, dalla Finlandia alla Turchia; situazione aggravata dall’espansione non conclusa della NATO, che continua ad essere l’organizzazione militare più forte e più aggressiva al mondo. In questo nuovo contesto, creatosi in seguito alla perdita degli Stati-cuscinetto riuniti nell’antico Patto di Varsavia, la Russia è legittimata a fare investimenti importanti nella spesa militare e ad intervenire in quei paesi che non intendono sottomettersi al dominio imperialista come Siria, Venezuela, Iran. Questi investimenti sono finanziati con la vendita di armamenti, persino a membri della NATO, come la Turchia. Per il commercio in questo settore è seconda agli Stati Uniti, mentre se compariamo i due paesi per il numero di basi militari all’estero, la Russia risulta estremamente debole, essendo stanziata solo in alcuni paesi della CSI e in Siria.

Infine, il fatto che la Russia abbia partecipato a guerre (si pensi all'Afghanistan) non fa di essa un paese imperialista, perché anche altri paesi periferici – come il Pakistan, l’Iraq ecc., - lo hanno fatto.

Riassumendo, quindi, possiamo concludere, citando le parole dei due studiosi marxisti, che: “La Russia non ospita un capitalismo avanzato, o un’ampia e prospera classe media. I suoi monopoli tendono ad essere gracili accanto a quelli di vari paesi chiaramente parte della semi-periferia, per non parlare delle società di dimensioni mostruose del centro imperialista. La produzione industriale russa ha perso molta della sua passata diversificazione, e il suo livello tecnico complessivo è decisamente arretrato, mentre nel contesto di un modello che ricorda le aree meno sviluppate della semi-periferia, il settore estrattivo rappresenta una notevole percentuale della produzione. Il commercio estero della Russia ha forti caratteri di dipendenza, ed il paese esporta prevalentemente materie prime di base per le quali i prezzi sono spesso depressi. Intrattenendo ben pochi scambi con le aree povere della periferia, essa non beneficia significativamente dallo scambio commerciale ineguale. In Russia, inoltre, non vi è un complessivo surplus di capitali, e sebbene il paese esporti capitali, ciò avviene per ragioni distorte e malgrado una quasi catastrofica carenza di investimenti in infrastrutture e impianti produttivi”.

Le conseguenze politiche che ricaviamo da questo quadro sono queste: la politica antimperialistica è di Putin tatticamente, ma assai diverso è il nostro giudizio sul piano strategico.


Note:

1. v. Cómo Rusia volvió al capitalismo. El desarrollo del subdesarrollo en sociedades postsoviéticas. https://nuso.org/media/articles/downloads/4057_1.pdf).

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