La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
Da: https://www.pane-rose.it(7 Febbraio 2002) - (Uscito su "La rivista de Il manifesto" del 25 gennaio 2002)
Rossana
Rossanda(Pola,
23 aprile 1924 – Roma, 20 settembre 2020)è
stata
una
giornalista, scrittrice e traduttrice italiana, dirigente del PCI
negli anni cinquanta e sessanta e cofondatrice de il manifesto.
Ha ragione Bertinotti quando osserva che non si misura un partito sulla lettera di Marx. Ma Rifondazione dichiara una svolta, e la ricava anche dall'esaurimento di «molte categorie marxiste». Vale la pena di riflettervi; non per amore dell'ortodossia ma per intendere le priorità che ne derivano.
A me le Tesi appaiono anzitutto la vera reazione al voto del 13 maggio, quando Bertinotti fece sussultare mezza Italia dicendosi soddisfatto dei risultati, che pure consegnavano il paese a Berlusconi. Quel sollievo rivelava quanto Rc si fosse sentita in pericolo, dopo che la corsa al centro dei Ds aveva impedito un'alleanza elettorale decente. Ma il 'siamo vivi' non cancellava il fatto che Rc non era riuscita ad attrarre neanche due o tre punti dei molti che i Democratici di sinistra sono venuti perdendo. Quali che ne siano le responsabilità - umori ed errori sia di Rifondazione sia dei Ds - non c'è stata neanche una modesta tendenza del voto a rafforzare Rc, cosa che avrebbe forse modificato i termini del congresso Ds. Le Tesi di novembre ne derivano che una sinistra proveniente dalla tradizione comunista - nella cui continuità, rifondata quanto si vuole, quel partito si era presentato ed era recepito - era esaurita.
E proprio mentre fuori di essa si alzava in varie parti del mondo un vasto movimento contro gli effetti devastanti della globalizzazione.
Poco dopo il 13 maggio esso aveva dato a Genova una dimostrazione della sua ampiezza, e a fine estate la marcia della pace di Perugia aveva una dimensione senza pari in Europa. Esisteva dunque una sensibilità militante che non si formava più sotto la bandiera rossa, ma alla chiamata dei no-global e dei pacifisti. Insomma era fra i no- global che la politica riprendeva respiro. Non si doveva concludere che una fase storica era davvero chiusa e sentirsi interpellati da quei movimenti non come aggiunta ma come una cesura con i parametri e gli orizzonti del movimento operaio comunista? E cambiare rotta? Questa è la scelta delle Tesi.
Il documento preliminare dava ai no-global una valenza epocale: «è possibile che nel mondo si stiano determinando le condizioni per un nuovo inizio del processo rivoluzionario» sino «al superamento della società capitalistica». Nelle Tesi il giudizio è stato moderato. Ma si riconferma la natura rivoluzionaria di quel formarsi di diverse culture militanti su obiettivi alti, non più immediati e sulla porta di casa, bensì a dimensione mondiale; e capaci di darsi continuità, consolidare saperi, autogestirsi, andare in piazza, suscitare una grande eco mediatica, custodendo ciascuno un'autonomia (Attac, Commercio equo e solidale, Lilliput, Nigrizia, Confédération Paysanne, Sem Terra, una eco della radicalità degli anni '70 nei Social Forum, altri), e muoversi su obiettivi comuni. E infine, nelle riunioni di Porto Alegre, non solo sfidare il 'pensiero unico' ma tentare un altro mondo possibile.
Rifondazione li aveva sempre appoggiati. Ma ora le Tesi ne deducono che la coscienza rivoluzionaria non fa più centro sul 'lavoro', ma nasce da molteplici soggettività, delle quali quella operaia è una; e così supera la dicotomia fatale del movimento operaio comunista, fra la navigazione entro i limiti del sistema politico ed economico, e il perpetuo rinvio a un domani socialista. Rc ne deriva una riflessione su di sé come partito, che deve assumere i movimenti quale riferimento senza proporsi di diventarne la classica avanguardia, e a questo fine deve rinnovarsi, aprirsi, mutare metodo di decisione.
Questa ridefinizione del soggetto, anzi dei soggetti di rivoluzione, che non fa più asse sul lavoro - cioè sulla lotta al capitale come modo di produzione e ordinamento sociale - si distacca da Marx? Sì.
Come possiamo valutare adeguatamente gli esperti e le informazioni sulla pandemia? Purtroppo interessi politici e finanziari interferiscono nella divulgazione scientifica.
Recentemente
il Bulletin
of Atomic Scientists ha
pubblicato un lungo ed interessante articolo di Walter Shirer (2020)
sulle modalità impiegate anche da rinomate riviste scientifiche e da
importanti scienziati per divulgare informazioni su questioni oggi
per noi cruciali. Un esempio: i modelli epidemiologici sono in grado
di comunicarci qual è il nostro grado di esposizione al Covid-19?
Quali sono i reali progressi fatti per produrre un vaccino efficace?
L’articolo
esamina in maniera dettagliata molti aspetti della divulgazione
scientifica, tuttavia, in questa sede ci limiteremo a riportare
quelli che ci sembrano più importanti e maggiormente comprensibili
da parte di un pubblico non specializzato in tali questioni.
Negli
ultimi mesi istituzioni e paesi diversi stanno lavorando intensamente
alla scoperta ed alla produzione di un vaccino che salvaguardi la
popolazione mondiale dal pericolo incombente rappresentato dalla
pandemia. I media danno ampie informazioni su queste ricerche per
soddisfare la comprensibile sete di notizie; per esempio, The
New York Times e
il Washington
Post danno
conto minuto per minuto dell’evolversi della situazione.
Ovviamente
questi temi interessano il pubblico e vari esperti di diverso livello
si sono dimostrati ansiosi di comunicare la loro opinione nei media e
nei social. Questi comportamenti hanno generato conseguenze negative
su cui ci soffermeremo più avanti.
Da: https://www.lacittafutura.it - Con questa a Domenico Moro, iniziamo una serie di interviste rivolte
a quadri di lavoratori comunisti ed economisti. Domenico Moro è
ricercatore presso l'Istat ed è stato consulente della Commissione
Difesa della Camera dei deputati. È autore di diversi volumi di
carattere economico, politico e militare. Abbina al lavoro
scientifico la militanza politica. (Ascanio
Bernardeschi per https://www.lacittafutura.it)
La pandemia sta modificando gli equilibri e le strategia e livello internazionale. In Europa sarà un pretesto per ulteriori tagli ai salari e ai diritti sociali. Il Mes e il Recovery Fund sono inadeguati e l’uscita dall’Unine Europea è una condizione necessaria per la realizzazione del socialismo.
Domanda. La
pandemia da Covid-19 ha senz’altro fatto da detonatore della crisi
economica e l’ha inasprita. Secondo noi, però, la pandemia è
intervenuta in un momento già critico per l’economia mondiale per
cui non può essere considerata l’unica responsabile dei problemi
economici che stiamo vivendo. Per te qual è la natura di questa
crisi?
Risposta.Al
momento dello scoppio della pandemia, l’economia mondiale e quelle
dei principali Paesi, con poche eccezioni, erano
già nella fase fase discendente del ciclo economico,
essendo la crescita del Pil in rallentamento nel 2018 e ancor di più
nel 2019. Secondo i dati dell’Unctad, l’economia mondiale è
passata da una crescita del 3,31% nel 2017 a una crescita del 2,52%
nel 2019. La crescita della Ue è scesa dal 2,58 all’1,46%, in
particolare la Germania è passata dal 2,47% allo 0,56% e l’Italia
dall’1,72% allo 0,30%. Persino la Cina era in rallentamento,
essendo passata dal 6,76% al 6,10%. Di fatto alcuni Paesi, come la
Germania e l’Italia, erano già in recessione.
Inoltre,
bisogna considerare che la
Pandemia si è inserita in un quadro mondiale già segnato
negativamente dallo scontro commerciale tra Usa, Cina e Ue, che ha
visto l’innalzamento di numerose barriere protezioniste. In
questo senso, la pandemia accentua la tendenza a un certo
rallentamento della globalizzazione e dello scambio internazionale di
merci. Secondo Eurostat, tra gennaio e giugno 2020, rispetto allo
stesso periodo del 2019, le esportazioni dell'Ue verso il resto del
mondo sono diminuite del 12,4% e le importazioni sono calate del
12,6%, entrambe contrazioni senza precedenti. Di fatto, quando la
crisi pandemica è scoppiata, il mondo capitalista, soprattutto la
triade composta da Usa, Ue e Giappone, non si era ancora del tutto
ripreso dalla crisi del 2008-2009.
Giovanna
Vertova,
Università di Bergamo, Dipartimento di Scienze Aziendali, Economiche
e Metodi Quantitativi. - Riccardo
Bellofiore,
Università di Bergamo, Professore ordinario di Economia politica. -
Nelle
pagine che seguono proveremo a impostare un discorso – sicuramente
parziale – sull’intervento dello Stato in economia e la natura
del welfare state. Discuteremo, in particolare, le proposte di
introduzione di un reddito di esistenza e di riduzione di orario di
lavoro, mettendole a confronto con una prospettiva incentrata invece
sulla socializzazione dell’investimento e su un piano del lavoro,
in un’ottica orientata ad una piena occupazione degna di questo
nome. Nel nostro ragionamento, che muoverà sullo sfondo della
dinamica capitalistica dal «fordismo» al neoliberismo e alla crisi
attuale, ci muoveremo integrando la questione di classe con quella
di genere.
Definiamo
come welfare quelle forme di intervento statale sulle economie di
mercato che mirano a ridurre l’insicurezza nella soddisfazione dei
bisogni fondamentali mediante l’erogazione di trasferimenti
monetari, e/o di politiche regolative, e/o della fornitura di beni e
servizi, e/o della creazione di infrastrutture. Tra le insicurezze
cui porre rimedio vi è la disoccupazione – e dunque nel welfare
rientra l’erogazione di un reddito indipendentemente dal lavoro;
come anche le stesse politiche keynesiane di gestione della domanda,
se finalizzate al pieno impiego. Altre forme di assicurazione
sociale coprono malattie o infortuni, aiutano nella vecchiaia o
nella maternità. Se passiamo dal lato della domanda di welfare a
quello dell’offerta, o meglio della copertura dei suoi costi,
troviamo (con maggiore o minor peso nelle diverse esperienze) i
contributi sociali, l’imposizione fiscale, la fissazione di prezzi
dei servizi, o ancora servizi in natura.
Il
welfare va ovviamente ricompreso nel sistema di riproduzione sociale
della forza lavoro, essenziale per il sistema (capitalistico) di
produzione di beni e servizi nella forma di merci. Il sistema di
riproduzione sociale non si esaurisce nel sistema di welfare
pubblico, che ne costituisce solo un sottoinsieme. Un secondo
sottoinsieme è il sistema di welfare familiare, basato sul lavoro
volontario e non pagato dei componenti della famiglia (ma anche sul
lavoro pagato delle immigrate). Per riprodurre la forza lavoro non
basta acquistare merci sul mercato o ottenerle tramite il settore
pubblico, è necessaria pure una ingente quantità di lavoro non
pagato per rendere queste merci usufruibili. Inoltre, è necessario
che qualcuno/a si prenda cura dei bambini e degli anziani. Tutto
questo lavoro non pagato comprende sia il lavoro domestico che il
lavoro di cura.
Numerosi stratagemmi sono volti a disgregare e contrapporre gli sfruttati fra di loro, favorendo la guerra fra poveri che distrae dall’unica guerra realmente liberatoria per tutti: la guerra agli sfruttatori.
Come
ho argomentato
altrove,
lo sviluppo strutturale del modo
di produzione capitalistico nella sua fase “crepuscolare” porta
alla crisi
della vigenza del concetto di “persona”,
vale a dire dell’universale
uguaglianza e libertà degli esseri umani.
A onor del vero, il processo di universalizzazione nello stesso
contesto borghese della persona non è mai stato poi così lineare.
Lasciando stare le colonie,
dove la barbarie
schiavistica non
è mai cessata, sacche
di schiavitù formalmente legittime sono esistite a lungo in
seno ai più liberali dei paesi anche fino a tempi relativamente
recenti.
L’esempio
più facile sono i super liberi Stati
Uniti:
essi nascono con la schiavitù degli afroamericani addirittura nella
Costituzione. Non viene menzionata esplicitamente, ma compare
indirettamente attraverso la clausola dei 3/5. La questione era come
contare gli schiavi che nel sud erano una parte cospicua della
popolazione: come “esseri umani” per avere più rappresentanti o
come cosa per pagare meno tasse (che erano basate sul numero di
persone). La “soluzione” fu contarli per 3/5: uno schiavo, senza
che la parola fosse menzionata, valeva 3/5 di un bianco (articolo 1,
sez. 2, comma 3). La parola Schiavitù compare esplicitamente solo
nel XIII emendamento approvato tra il 1864 e 1865 dove si dice che,
finalmente, è bandita. È del resto noto come la tratta
degli schiavi fosse
gestita largamente dalla liberalissima Inghilterra.
Non bisogna tuttavia stupirsi; sempre
altrove ho
ricordato come tutto ciò non sia in contraddizione con la filosofia
del padre
fondatore del liberalismo, John Locke,
che addirittura la contempla nella Stato di natura accanto a libertà,
uguaglianza e proprietà.
Il 24 agosto u.s. Il secolo XIX ha pubblicato una lunga intervista a Carlo Bonomi, da poco a capo di Confindustria. Le sue risposte e le sue posizioni, già da tempo conosciute, vanno nel senso di dare frustate alla classe politica per fare emergere ancora di più le capacità taumaturgiche della classe imprenditoriale nazionale.
Come se la stessa non avesse proprio nulla di farsi perdonare - collusione con le mafie, comportamenti ottocenteschi verso i lavoratori, ad essere gentili, supponenza ed approssimazione, parassitismo verso lo stato mucca, per citarne solo alcuni difetti atavici, poco modernismo. Certo non di tutti ma di molti imprenditori si può dire questo ed altro.
Aggiungiamo il sospetto che i lavoratori siano scansafatiche e che lo stato, le tasse da pagare in primis, siano un particolare irrilevante, da non osservare. Il mondo imprenditoriale italiano è sempre stato caratterizzato da difetti profondi e disumani. Basterebbe per provare questo tanta letteratura e non certo rivoluzionaria, Giovanni Verga ad esempio.
Ma almeno su un punto il prode Bonomi ha ragione. La classe politica italiana è pusillanime. Non è sempre stato così, ora lo è nella grande parte di essa. Quindi buon gioco nel definire fallimentare i suoi comportamenti attuali. Bonomi ricorda che anche ad agosto loro, gli imprenditori, si sono messi al lavoro mentre la classe politica…
Da: https://www.facebook.com/notes - INTRODUZIONE a «Tornare al lavoro. Lavoro di cittadinanza e piena occupazione», a cura di Jacopo Foggi, Castelvecchi, Roma, 2019, pp. 17-27
Il libro sui piani di lavoro garantito curato in modo esemplare da Jacopo Foggi per lo CSEPI è un volume importante, tanto per la qualità e la completezza di quello che contiene e che dice, quanto per quello che resta sullo sfondo e rimane ancora da articolare con più precisione e ricchezza, e magari da mettere meglio a fuoco. In queste poche righe di introduzione mi propongo di presentare al lettore, senza alcuna possibile pretesa di completezza, alcune considerazioni evidentemente soggettive, essendo io stesso parte attiva di questo dibattito in corso.
Il problema della disoccupazione in Italia è un problema che affonda le radici nel passato. Anche limitandoci al secondo dopoguerra, non solo esso non è stato mai risolto, ma alla sua risoluzione non hanno affatto contribuito né la apertura al commercio internazionale, né il miracolo economico, né gli abortiti tentativi di programmazione: semmai, l’emigrazione. La svolta degli anni ’80 prima peggiorò le cose, poi provvide una falsa soluzione nella sottoccupazione dovuta alla caduta della produttività e alla precarizzazione. Si può dubitare che sia mai davvero esistita da noi una fase keynesiana (molti guardano con nostalgia malriposta ai cosiddetti trent’anni gloriosi), e il keynesismo criminale stigmatizzato da de Cecco ne fu un povero sostituto. Il che lascia dubitare che sia possibile una soluzione keynesiana oggi, fondata sulla sola espansione della domanda effettiva, che rovesci l’austerità che ci accompagna da decenni. Si può dire che in varia forma la disoccupazione si sia tramandata tanto nello sviluppo quanto nella crisi, come anche che la crisi italiana sia di lunga durata, e risalga in realtà alle occasioni perse di metà anni ’60. È una crisi che ha aspetti strutturali, non solo congiunturali: e la stessa cosa si può dire della problematica della disoccupazione. La crisi recente, successiva alla nuova “grande crisi” esplosa nel 2007-2008 e aggravata dalle dinamiche interne all’area europea, va relativizzata come parte di questo quadro complessivo.
Il cuore del libro è costituito, di fatto, da una proposta di importazione chiavi in mano, ovviamente adattata al nostro paese, di una idea di origine anglosassone, l’insieme di programmi per un Job Guarantee, una volta denominata come proposta dello Stato come “occupatore di ultima istanza”, un’idea sostenuta con forza dalla corrente della cosiddetta Modern Money Theory. I “piani di lavoro garantito” vengono contrapposti con ragione, e qualche tentativo di mediazione, all’idea alternativa di un “reddito di esistenza”: è chiaro che mentre questa seconda politica di fatto accetta la precarizzazione e la disoccupazione permanente come un destino, cui mettere una pezza con sussidi prevalentemente monetari, i piani di lavoro garantito scommettono sulla compatibilità della piena occupazione permanente con la configurazione sociale capitalistica. I proponenti dell’Employer of Last Resort hanno scritto altrove che il punto è «ripensare il capitalismo»: i proponenti del basic income ritengono invece che il superamento del capitalismo si gioca essenzialmente su un piano distributivo.
Su PeaceLink è stato appena pubblicato questo editoriale in cui si mette in evidenza come Snowden abbia scritto una nuova pagina nella storia della nonviolenza, violando la legge per poter tutelare i cittadini; oggi una corte americana gli dà ragione. Sette anno dopo. Ma Snowden vive ancora nascosto.
La storia di Snowden fa pensare a quella dei Pentagon Papers (le "Carte del Pentagono") ossia le settemila pagine top-secret del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d'America sul Vietnam in cui venivano documentate le bugie dei presidenti americani sulla guerra. Vennero pubblicati sul New York Times nel 1971 e poi sul Washington Post. Fu un atto illegale, erano segreti di stato, segreti militari. Ma quell'atto illegale era compiuto nel nome di una legalità più ampia e superiore, quella della costituzione. UNa legalità che riguardava gli interessi dei cittadini e non dei soli governi. E così è la storia di Snowden. Snowden, esperto informatico, era entrato nel santuario dello spionaggio digitale e aveva scoperto che era stato realizzato un accordo fra i colossi di Internet e il governo americano, dando vita a un sistema di sorveglianza di massa invasivo come mai era avvenuto.
Questa vicenda è illuminante non solo per la storia di Internet.
E' una vicenda che riguarda la storia della nonviolenza.
E che riguarda noi tutti, come cittadini che aspirano alla libertà attraverso la verità.
4 settembre 2020
Nel 2013 Edward Snowden denunciò al mondo intero che la National Security Agency americana spiava milioni di telefoni e computer, svolgendo un controllo globale sulle comunicazioni.
Da: Festivalfilosofia - Roberto Esposito è un filosofo e professore universitario italiano, docente di filosofia teoretica presso la Scuola Normale Superiore.
Siamo tornati al punto di partenza. Cioè ai tormenti di Piero Gobetti e Antonio Gramsci all’inizio del secolo scorso. E, ancora prima, a quelli di Giacomo Leopardi del 1824 in Discorso sopra lo Stato presente dei costumi degl’italiani (Feltrinelli, 1991). Se non si compie infatti un’analisi chirurgica sul “caso italiano”, paragonabile a quella contenuta in La rivoluzione liberale (Gobetti) e nei Quaderni del carcere (Gramsci), la bussola della sinistra resterà a lungo senza riferimenti per andare a nord o a sud. Non convince infatti la lettura dell’impasse attuale della sinistra che fa ruotare l’analisi prevalentemente sugli errori “soggettivi”: siano quelli prima del governo Prodi, poi del Pd o dei vari contraenti di patti di unità e di governo. Non perché questi errori non ci siano stati. Ma perché soprattutto un esito così fragile dell’attuale configurazione della sinistra non può essere spiegato con le categorie del harakiri e del “tradimento”. Anche i gruppi dirigenti della sinistra e le loro politiche sono il frutto di un humus, per così dire, ambientale.
Se in via preliminare le cose stanno così, lo sguardo deve essere capace di andare oltre la congiuntura politica del giorno per giorno e il governo Conte (insperato un anno fa) misurandosi con la società che ha provocato tale esito politico. Del resto tutti i nostri problemi erano già stati squadernati dai deludenti risultati di varie elezioni che solo una certa pigrizia intellettuale aveva contribuito a sottovalutare. Aver sottovalutato, per esempio, il primato della riforma della politica come questione che riguardava innanzitutto la sinistra è stato – come dimostra l’emergere del fenomeno dei grillini degli anni scorsi – l’errore più grande. Da qui quel venir meno dello spartiacque tra destra e sinistra che non poteva che misurarsi con idee differenti di società, libertà, comportamenti e valori. La sinistra moderata (Pd) è diventata “centro” e quella radicale (gli spezzoni di Liberi e uguali) ha tentato di unirsi solo in condizioni di emergenza.
Pensiamo che sia condivisibile la spiegazione sulla crisi da sovrapproduzione che è intrinseca al capitalismo, e Sini lo spiega bene con chiarezza.
Sul capitale diventato finanziario se ha ragione Sini è andare oltre Marx. Lo sfruttamento avverrebbe solo da parte del capitalista finanziario e non industriale. Il primo si approprierebbe del plusvalore in ultima istanza. Ma, noi pensiamo, non si può isolare un fenomeno del sistema capitalistico dalla totalità del sistema stesso. Marx parla di interesse (o rendita) e di profitto come di entità diverse ma tutte riconducibili alla produzione di plusvalore. E' quest'ultimo il vero prodotto del capitale (dice Marx). E oggi come oggi c'è un'estrazione di plusvalore dal lavoro vivo quanto mai abbondante. Si deve pensare non solo all'occidente, ma ai milioni di lavoratori cinesi, indocinesi, africani, sudamericani ecc. che producono valore effettivo il quale viene risucchiato e accumulato attraverso le multinazionali e le istituzioni finanziarie internazionali (FMI ecc.). E rimanendo qui da noi, quanto plusvalore viene estorto agli immigrati che coltivano le campagne? (Che poi, attraverso il meccanismo finanziario, questo plusvalore si realizzi come interesse e non solo come profitto è vero). Secondo Sini non esiste più il proletariato come classe e indica come errore d'ingenuità di Marx l'aver considerato il proletariato come classe generale in grado di superare, una volta per sempre la divisione in classi. Ma tutti gli economisti marxisti sono d'accordo sul fatto che non ci sono stati mai tanti salariati come oggi, con rapporti di lavoro di vario tipo (precari, schiavistici). Il proletariato esiste ancora oggettivamente, ma ben poco soggettivamente.
Sini fa un rapido accenno all' "accumulazione originaria" individuandone una delle fonti nel commercio e nello sfruttamento degli schiavi. Il che è giusto, ma, va precisato, l'accumulazione originaria ha origine con la spoliazione dei popoli colonizzati (sterminio dei nativi in America), che dovettero essere sostituiti con gli africani. E al momento in cui da questo fenomeno storico dovrebbe passare a considerare le dinamiche imperialistiche contemporanee, dice che "è un altro discorso". Non è così. Senza l'imperialismo il capitale finanziario forse nemmeno esisterebbe, Lenin l'aveva ben chiaro.
Verso la fine del dibattito Sini tocca una problematica centrale, la scelta tra rivoluzione e riformismo. Riconosce alla prima la centralità che meriterebbe ma con l'onestà che lo qualifica, non se la sente di farsi carico del costo di sangue e vite umane che questa potrebbe voler dire. E' questo un problema enorme che ha segnato il mondo occidentale e le scelte riformistiche e spesso inconsistenti della sinistra dal dopoguerra ad oggi. Quel poco o tanto che si era ottenuto è stato, ed è ancora, spazzato via brutalmente. Vogliamo solo osservare che mentre la violenza rivoluzionaria è di breve durata e non è detto che dia luogo a un bagno di sangue (durante l'Ottobre ci furono assai meno vittime che nella successiva guerra civile scatenata e sostenuta dalle potenze imperialiste) la società di mercato in condizioni capitalistiche richiede invece una mattanza costante e sistematica di esistenze umane: guerre, bassa vita media nelle nazioni povere, avvelenamento dell'ambiente, violenza poliziesca e una perenne insicurezza sulla prospettiva di sopravvivenza materiale di sé e della propria famiglia, sulla assistenza medica adeguata, ecc. E' stato calcolato che solo la politica imperialistica degli Usa ha provocato dopo la II guerra mondiale circa 30 milioni di morti (dalla guerra di Corea in poi), senza calcolare feriti, mutilati, impoveriti etc. Infine: quanto ci cosa in lacrime e sangue il permanere del sistema attuale?
Il problema sul tappeto non è come garantire la "democrazia" - la sua è una visione della democrazia già criticata dai primi del novecento (per non citare Marx) - ma come evitare che il capitale, nelle sue varie forme, ci mangi vivi, noi e la Terra. Forse la "democrazia" - questo tipo di democrazia - non è affatto lo strumento più adatto a questo scopo. (il collettivo)