domenica 30 agosto 2020

Non è solo per errori soggettivi se la sinistra non ritrova la strada - Aldo Garzia

Da: http://www.strisciarossa.it - Aldo Garzia è un giornalista e scrittore italiano.
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Siamo tornati al punto di partenza. Cioè ai tormenti di Piero Gobetti e Antonio Gramsci all’inizio del secolo scorso. E, ancora prima, a quelli di Giacomo Leopardi del 1824 in Discorso sopra lo Stato presente dei costumi degl’italiani (Feltrinelli, 1991). Se non si compie infatti un’analisi chirurgica sul “caso italiano”, paragonabile a quella contenuta in La rivoluzione liberale (Gobetti) e nei Quaderni del carcere (Gramsci), la bussola della sinistra resterà a lungo senza riferimenti per andare a nord o a sud. Non convince infatti la lettura dell’impasse attuale della sinistra che fa ruotare l’analisi prevalentemente sugli errori “soggettivi”: siano quelli prima del governo Prodi, poi del Pd o dei vari contraenti di patti di unità e di governo. Non perché questi errori non ci siano stati. Ma perché soprattutto un esito così fragile dell’attuale configurazione della sinistra non può essere spiegato con le categorie del harakiri e del “tradimento”. Anche i gruppi dirigenti della sinistra e le loro politiche sono il frutto di un humus, per così dire, ambientale.
Se in via preliminare le cose stanno così, lo sguardo deve essere capace di andare oltre la congiuntura politica del giorno per giorno e il governo Conte (insperato un anno fa) misurandosi con la società che ha provocato tale esito politico. Del resto tutti i nostri problemi erano già stati squadernati dai deludenti risultati di varie elezioni che solo una certa pigrizia intellettuale aveva contribuito a sottovalutare. Aver sottovalutato, per esempio, il primato della riforma della politica come questione che riguardava innanzitutto la sinistra è stato – come dimostra l’emergere del fenomeno dei grillini degli anni scorsi – l’errore più grande. Da qui quel venir meno dello spartiacque tra destra e sinistra che non poteva che misurarsi con idee differenti di società, libertà, comportamenti e valori. La sinistra moderata (Pd) è diventata “centro” e quella radicale (gli spezzoni di Liberi e uguali) ha tentato di unirsi solo in condizioni di emergenza.

Quell’assenza di società

Torniamo indietro, dunque. L’analisi di Leopardi è lucida, impietosa, come si addice a chi ripone fiducia nel secolo dei Lumi e riflette su cosa genera il vincolo sociale. Per lui, in Italia non ci sono élites e non c’è una tradizione da “società stretta” che produce virtù e comportamenti socialmente accettati, oltre che coesi. Quindi, in Italia c’è poca “società”: il che finisce per produrre inevitabilmente “cattiva società”. Il suo Discorso è scritto in piena Restaurazione seguita alla Rivoluzione francese e prima dell’avvento dell’unità risorgimentale italiana (sarà pubblicato per la prima volta nel 1906). Il tema che il poeta di Recanati sceglie per la sua riflessione è quello dell’arretratezza italiana: individualismo, potere nelle mani di possidenti culturalmente miopi, scarsa circolazione delle idee che dominano nel resto d’Europa.
Leopardi è il primo a indicare il principale virus italiano: il mancato sviluppo di una struttura economica da capitalismo nascente. Sull’autore della Ginestra, Gramsci dà nelle sue Lettere dal carcere un giudizio preciso: “Nel Leopardi si trova in forma estremamente drammatica la crisi di transizione verso l’uomo moderno”. E a lungo la sinistra italiana si interrogherà – a iniziare da un saggio filosofico di Cesare Luporini del 1947 – sulla lezione anche politica di Leopardi. 

Sul piano del metodo, dopo quella di Leopardi, viene ancora buona la lezione di Piero Gobetti che ha iniziato a leggere i mutamenti italiani della sua epoca – il fascismo nascente e poi al potere – come una vera e propria “autobiografia di una nazione”, insegnamenti poi raccolti da Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti nella loro originale lettura del fascismo italiano (“regime reazionario di massa” e non solo svolta autoritaria ispirata dalle malefatte del capitalismo-imperialismo).
Scrive Gobetti a proposito del Risorgimento: “Il problema italiano non è di autorità, ma di autonomia: l’assenza di una vita libera fu attraverso i secoli l’ostacolo fondamentale per la creazione di una classe dirigente, per il formarsi di un’attività economica moderna e di una classe tecnica progredita”. Il Risorgimento “senza eroi”, con il suo esito monarchico, era stato calato dall’alto. La sfida, all’inizio degli anni Venti del secolo scorso, era per il giovane torinese quella di riempire di valori condivisi le istituzioni liberali create dallo Stato unitario.

La democrazia dei partiti di massa

Gobetti vide perciò nella nascita dei futuri partiti di massa italiani – Partito popolare, Partito socialista e Partito comunista – la possibilità di fondare per la prima volta una democrazia di massa. Nel 1924, scrive un libro fondamentale, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, articolato in quattro capitoli: l’eredità del Risorgimento, la lotta politica in Italia, la critica liberale, il fascismo (questa suddivisione ispira successivamente i Quaderni del carcere di Gramsci, dove trovano posto tra l’altro la questione meridionale, la questione vaticana, l’analisi del ruolo degli intellettuali e una analisi originale del pensiero politico di Machiavelli). Per Gobetti, la lotta politica non può che essere lotta sociale ispirata da una idea laica dello Stato e delle istituzioni.
Sulle modalità di elezione del Parlamento, Gobetti è un convinto assertore del proporzionale. Il collegio uninominale – scrive – aveva “corrotto il rappresentante in tribuno”. Sulle tasse, ha una opinione precisa: “Il contribuente italiano paga bestemmiando lo Stato. Non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana. L’imposta gli è imposta. Una rivoluzione di contribuenti in Italia in queste condizioni non è possibile per la semplice ragione che non esistono contribuenti”. Era perciò necessaria, nella sua analisi, una rivoluzione industriale e di forme capitalistiche di produzione che però in Italia ci sarebbe stata solo in parte.

Gobetti e Gramsci

Gobetti si occupava pure di scuola, altro male italiano incurabile: bisognava, secondo lui, superare l’analfabetismo dominante nella sua epoca. “Sono un esercito di oltre due milioni di persone. Hanno soprattutto un’età compresa tra i 46 e 65 anni, vivono prevalentemente al sud. E non sanno leggere né scrivere. O meglio non sono in grado, in base ai parametri dell’Ocse, di interpretare o compilare documenti elementari. La loro definizione ufficiale è analfabeti funzionali”, scrive ancora nel 2000 il Centro europeo dell’educazione a proposito dell’Italia.

Per Gobetti, infine, su Benito Mussolini e sul fascismo si convoglia il tacito consenso della popolazione italiana per ottenere lo sradicamento di ogni lotta politica dallo Stato-nazione italiano ancora in formazione. Per questo, invoca un neo-liberalismo dal momento che il fascismo lo interpreta come il risultato di chi non ha saputo governare l’Italia nei primi quarant’anni di unità nazionale. Fascismo, dunque, come “autobiografia della nazione”, cioè come patologia trasformatasi in fisiologia della società italiana. Il Risorgimento progressista di Carlo Cattaneo è sconfitto, aggiungerà, e la società italiana – “statica e stagnante” – ha perso il suo appuntamento storico con la rivoluzione liberale e con quella capitalistica. Gobetti individua come unico varco lasciato aperto alla speranza della ragione quello dell’irrompere delle masse proletarie nello spazio pubblico della società italiana.
Il secondo dopoguerra, con la “Repubblica dei partiti” e la Costituzione democratica, ha dato ragione a Gobetti. L’Italia uscita dalla guerra e dal fascismo ha trovato finalmente un assetto democratico, dove i partiti di massa svolgevano la funzione storica dell’alfabetizzazione politica diffusa. Per la prima volta nella storia italiana, grandi masse partecipavano al circuito della democrazia. Certo, si trattava di una democrazia dimezzata dalla conventio ad excludendum (l’impossibilità per il Pci di accedere al governo centrale) e dal contesto internazionale del bipolarismo e delle “sfere d’influenza” che guardavano a Washington e Mosca ma per il caso italiano era in quel passaggio d’epoca che prendeva forma il “partito nuovo” voluto da Togliatti che avrebbe segnato con tutte le sue peculiarità (e i suoi limiti) la storia della sinistra di questo nostro Paese.

Le radici del Pci

Il Pci non era un partito di “quadri” che attendeva in modo messianico la rottura rivoluzionaria, ma un soggetto politico che affondando radici nella società del lavoro e nella storia italiana si poneva l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita delle masse usando tutti gli strumenti della democrazia rappresentativa. C’era così nei fatti una società istituzionale – quella a guida democristiana – e c’era una sorta di contro-società che faceva riferimento al Pci e alle sue organizzazioni di massa (sindacato, associazionismo, cooperative, movimenti) in grado di esercitare una egemonia sui ceti medi e intellettuali almeno fino al 1968, quando quel circolo virtuoso subisce una prima frattura e pone ai comunisti il tema del proprio rinnovamento che il partito finisce per eludere e rinviare.
Tutto questo avveniva mentre restava aperto il dibattito sulla specificità del capitalismo italiano che ha costituito una delle spine nell’orientamento del Pci. Ancora nel 1962 – nel famoso convegno dell’Istituto Gramsci su “Tendenze del capitalismo italiano” – il gruppo dirigente comunista si divideva tra una lettura sull’arretratezza dell’organizzazione economica italiana (e della sua borghesia) e il suo eventuale passaggio in fieri verso una società capitalisticamente matura. In realtà, in Italia – per le specifiche condizioni della ricostruzione economica – non esisteva una forma capitalistica in cui il mercato convivesse con un regime di libera concorrenza nel settore dei servizi e dove l’economia privata fosse predominante rispetto all’intervento pubblico e statale. Lo stesso neocapitalismo italiano avrebbe avuto tratti assai specifici negli anni del boom economico. Lo avremmo riscoperto negli anni recenti delle privatizzazioni e delle direttive europee sui servizi e i consumi (se non si fosse trattato dell’Italia, il testardo impegno dell’ex ministro Pierluigi Bersani su questo terreno sarebbe apparso anacronistico in qualsiasi altro paese europeo). L’economia italiana – tra Tangentopoli, inserimento nell’euro e primi segnali della globalizzazione – sarebbe implosa non meno del sistema politico nel corso degli anni Novanta.

L’intuizione di Pasolini

È stato Pier Paolo Pasolini – come prima Leopardi, Gobetti e Gramsci – ad affondare nuovamente il bisturi con la sua descrizione peculiare della società italiana di inizio anni Settanta (Scritti corsari). L’analisi pasoliniana più politica è racchiusa tuttavia in quella poesia invettiva politica dal titolo Cos’è questo golpe? Io so (Corriere della Sera, 14 novembre 1974) . L’Italia è per lui quella delle stragi impunite, di un sistema politico impunito e di una modernità che diventando omologante può semplicemente dissolvere le peculiarità sociali precedenti.
Non c’è modo migliore di quello di Pasolini per ricordare cosa è stata l’Italia per una lunga fase del dopoguerra. “Un Paese nel Paese” è la più fertile e poetica definizione di cosa abbia rappresentato – nel bene e nel male – il Pci nella storia nazionale. Se è inutile avere soverchie nostalgie per quella lunga e irripetibile stagione, bisogna però sottolineare come la scomparsa di quel “Paese nel Paese” (con tutte le sue ombre che sono già chiare allo stesso Pasolini) come grumo di passioni democratiche abbia contribuito prima al declino e poi alla definitiva eclissi del “caso italiano” come anomalia positiva rispetto ad altri paesi europei.
Fino alla fine degli anni Settanta eravamo invece un positivo “caso italiano” da guardare con ammirazione e perfino stupore: il paese più politicizzato e sindacalizzato di Europa, che si concedeva il lusso del più forte e radicato partito comunista di Occidente, dove anche il ‘68 aveva avuto una durata e una qualità senza riscontri neanche nella Francia del “maggio”. L’intuizione politica di Bettino Craxi – su cui ha costruito le sue effimere fortune – è stata quella di scoprire negli anni Ottanta che quel “caso” finiva per essere al tempo stesso un valore e un limite della situazione italiana: il Pci non poteva governare al centro del sistema politico, pur facendolo in periferia (Comuni e Regioni). Ecco spiegata la “centralità” socialista come rendita di posizione in un sistema istituzionale bloccato che non sapeva rispondere alle nuove richieste di modernizzazione e innovazione che venivano dalla realtà sociale del paese (la Dc, inoltre, non poteva governare da sola o alleandosi con la destra di estrazione fascista).

La stagione di tangentopoli

Nel 1992 – sotto i colpi di Tangentopoli – cadeva anche la rendita di posizione politica che aveva la specifica forma di governo e di potere nel craxismo (quel Caf che teneva uniti Craxi-Andreotti-Forlani). L’Italia veniva inoltre colpita – proprio nel corso di Tangentopoli – nelle sue debolezze strutturali dai processi di violenta globalizzazione, fino al punto che oggi tutta la nostra industria pubblica è in ginocchio insieme al settore dei servizi (Alitalia, ferrovie, trasporti, scuola, università, sanità, eccetera). Ed è caduta anche la discriminante democratica nei confronti degli eredi del Movimento sociale. 

Alla “balena bianca” democristiana si è poi sostituito un populismo che ha di colpo cancellato la storia e il radicamento dei partiti di massa. Perfino il ‘68 e gli anni successivi delle conquiste operaie e dei referendum su divorzio e aborto possono essere riletti sui tempi lunghi della storia nazionale come significative parentesi di modernizzazione piuttosto che come fasi di trasformazioni strutturali. In questo caso, si può usare con cognizione di causa la categoria gramsciana di “rivoluzione passiva”.
Il paese della sinistra così originale di Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Pietro Ingrao, Giorgio Amendola, Bruno Trentin ma anche del gruppo del Manifesto, di Lelio Basso, Rodolfo Morandi, Vittorio Foa, Riccardo Lombardi, Renato Panzieri ha finito – nella sua formazione maggioritaria, il Pd – per diventare negli ultimi dieci anni la parodia del Partito democratico degli Stati Uniti. L’Italia e l’Europa però sono altra cosa.
Per ripartire, bisogna dunque avere almeno il senso tragico di cosa è accaduto e accade sotto i nostri occhi. Un esempio della nostra attuale afasia è che non esistono le parole giuste per descrivere a chi non ha vissuto o vive in Italia cosa è diventata l’Italia. È un ottimo esercizio provare a farlo a qualche amico straniero o a noi stessi. Lo sforzo lessicale di raccontare in modo comprensibile questo nostro Paese è già un obiettivo politico. O forse “civile”, come avrebbe potuto scrivere Pasolini. Comunque necessario, come ci hanno insegnato Leopardi, Gobetti e Gramsci. 

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