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Il fallimento dell’America - Cornell West
Stiamo vivendo la prima crisi economica dell’Antropocene - Adam Tooze
CARLO SINI SUL 3° DE "Il CAPITALE" di Marx: https://www.youtube.com/watch?v=AVWhAv3X9bc
Vedi anche: 'Progresso. Progetti di una società migliore tra illuminismo e marxismo' - Alberto Burgio
Dalla rivoluzione francese in poi il pensiero moderato ha criticato la modernità in quanto distruttrice dei valori sui quali si fondava la società umana (compresa la gerarchia politica ed economica e le forme tradizionali del potere). Avevano ragione, avevano torto? Dipende. La cosa certa è che nelle società eredi delle rivoluzioni borghesi, vale a dire in quelle industrialmente e tecnologicamente sviluppate, vivere è diventato per tutti sempre più difficile, duro e insensato. È colpa del "capitalismo"? Chi sostiene di sì, come gli autori citati nell'articolo, non può cavarsela pensando a un capitalismo razionalizzato, ma deve mettere in discussione vari problemi fra i quali la cosiddetta morte di dio di cui parlava Nietzsche.
Una società socialista risolverebbe il problema del senso della vita? Non lo sappiamo. Può darsi che, anche solo istintivamente, larghe masse, abbandonate dall'ideologia rivoluzionaria e dalla religione, soprattutto nelle nazioni a più diffuso e intenso dominio della forma capitalistica, possano sentire quel vuoto che una certa alta borghesia (ma non tutta la borghesia) conosce da tempo e a cui reagisce col cinismo, col lusso o, a sua volta, con le droghe.
Già in Montaigne e Pascal questa dimensione spirituale di angoscia e smarrimento si è resa presente alla coscienza filosofica.
Il punto di vista autenticamente critico sulla società capitalistica è quello di classe, vale a dire comunista. Un' intellettuale borghese può essere in grado di scorgere le contraddizioni e i limiti storici del capitale, ma non riesce a pensarne il superamento. Può al massimo ipotizzare delle correzioni o delle riforme sul piano della redistribuzione della ricchezza (del plusvalore). Non gli verrà mai in mente la socializzazione dei mezzi di produzione e l'economia pianificata. (il collettivo)
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16/08/2020 di Antonio Pelligra
Arrivano dagli Usa, storica avanguardia delle tendenze che poi invaderanno gran parte del mondo economicamente avanzato, segni nefasti: uno dei più tragici è legato alla diffusione delle “morti per disperazione”. Una vera e propria epidemia che ha visto, solo negli Stati Uniti, nel 2017, morire 158.000 persone di suicidio, overdose o malattie correlate all'abuso di alcool
La
ricerca di un senso profondo per la nostra vita, le relazioni, il
lavoro, rappresenta il bisogno più fondamentale che ogni essere
umano cerca consciamente o inconsciamente di soddisfare. Riuscire a
costruire una narrazione logica e coerente della propria vicenda
esistenziale, sentirsi utili agli altri, capaci di fare la
differenza, consapevoli di operare in vista di un fine che riteniamo
giusto e degno di valore; sono questi gli elementi che ci aiutano ad
attribuire significato alle nostre azioni. Ne stiamo parlando ormai
da varie settimane, qui su “Mind the Economy”, anche in ambito
economico. Poi, naturalmente, c'è il contesto, l'ambiente nel quale
ci muoviamo, il microcosmo e il macrocosmo che abitiamo e che è
determinante nel facilitare o ostacolare questo processo di
costruzione del senso.
Arrivano
dagli Usa, storica avanguardia delle tendenze che poi invaderanno
gran parte del mondo economicamente avanzato, segni nefasti relativi
all'evoluzione di questo ambiente. Uno dei più tragici è legato
alla diffusione delle “morti per disperazione” (deaths of
despair). Una vera e propria epidemia che ha visto, solo negli Stati
Uniti, nel 2017, morire 158.000 persone di suicidio, overdose o
malattie correlate all'abuso di alcool. È come se ogni giorno di
quell'anno tre Boeing 737 MAX si fossero schiantati, causando la
morte di tutti i passeggeri. Una tragedia di dimensioni enormi che ha
la sua radice in “una società che non riesce più a offrire ai
suoi membri un ambiente nel quale essi possano vivere una vita dotata
di senso”. Così si esprime il premio Nobel per l'economia Angus
Deaton che, con Anne Case, ha appena pubblicato un corposo studio sul
tema (“Deaths of Despair and the Future of Capitalism”, Princeton
University Press, 2020). Questa ‘”epidemia” è selettiva,
colpisce infatti in maniera prevalente americani bianchi della classe
media o operaia e con un livello basso di istruzione. È a queste
persone che, progressivamente ma inesorabilmente, la vita appare
sempre meno degna di essere vissuta. Questo è il primo dato anomalo.
Nel
suo classico studio sul suicidio, il sociologo Émile Durkheim aveva,
infatti, ipotizzato che il fenomeno riguardasse principalmente le
classi istruite e ricche. Oggi assistiamo invece a un fenomeno
differente: una diffusione crescente del dolore cronico – sia
fisico che psicologico – tra coloro che vengono lasciati indietro,
che non riescono a stare al passo di un modello di vita che viene
narrato come l'unico degno di essere perseguito, ma che
inevitabilmente gli è precluso a causa delle condizioni economiche,
educative e di salute, che negli anni sono andate peggiorando. Come i
“deboli - che nella ‘fiumana del progresso' di cui parla Verga
nella prefazione a ‘I Malavoglia' - restano per via, i fiacchi che
si lasciano sorpassare dall'onda per finire più presto, i vinti che
levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale
dei sopravvegnenti”. Coloro che restano per via, gli scarti, i
sofferenti di una sofferenza che trova origine sempre più spesso
nella “lenta disintegrazione della vita sociale ed economica”
della classe operaia americana che, da questa sofferenza, viene
spinta sempre più frequentemente verso la dipendenza e il suicidio.
Il
fattore economico è certamente presente e importante, ma non è
l'unico. Case e Deaton sono, infatti, convinti che “la sofferenza
non deriva solo da ciò che capita al lavoro, ma dalla perdita di
status e di senso associati a certi lavori, e dalla perdita della
struttura sociale che era connessa ad un lavoro ben pagato in una
città sindacalizzata”. Il dolore sociale, per esempio quello
derivante dal senso di esclusione o di inutilità, e il dolore fisico
attivano nel nostro cervello molte aree comuni rendendo il primo non
meno tangibile e debilitante del secondo e, infatti, gli stessi
antidolorifici che curano il dolore fisico sono efficaci anche per
quello sociale.
Ci
sono fattori protettivi contro questo dolore sociale, come, per
esempio, l'avere un lavoro cui attribuiamo un significato e
un'utilità sociale, buone relazioni familiari con il partner e i
figli, l'appartenenza a una comunità che possa aiutare e rispondere
anche a bisogni di natura spirituale. Tutti elementi che sono, in
questi ultimi anni, diventati relativamente scarsi per i più colpiti
dalle “morti per disperazione”. E allora la prospettiva del gesto
estremo si fa più concreta o altrimenti ci si getta nell'abuso di
alcool o di droghe, soprattutto quando queste diventano legali, sono
fortemente pubblicizzate e, inoltre, capaci di originare enormi
profitti per chi le produce e le vende. Ecco il cortocircuito che
rende questa epidemia di disperazione e le morti ad essa connesse un
frutto maturo dell'”economia della manipolazione e dell'inganno”,
per usare la nota espressione di altri due Nobel per l'economia,
George Akerlof e Robert Shiller.
“Il
capitalismo – e questo non lo si dirà mai abbastanza – continua
a produrre gli ‘scarti' che poi vorrebbe curare […] Una grave
forma di povertà di una civiltà è non riuscire a vedere più i
suoi poveri, che prima vengono scartati e poi nascosti […] Le
società dell'azzardo finanziano campagne per curare i giocatori
patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi
finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro
bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è
l'ipocrisia!”. Così si esprimeva Papa Francesco rivolgendosi a
mille imprenditori durante l'udienza del 3 febbraio del 2017,
mettendo a nudo il cortocircuito di un certo capitalismo predatorio,
fatto di imprese che producono moltissima ricchezza per pochi,
distruggendo, al contempo, vero valore per molti.
Occorre
cambiare rotta, se ne sono accorti in tanti, ma non ancora abbastanza
da fare una massa critica capace di agire per cambiare. Occorre
salvare il capitalismo dai capitalisti, per parafrasare il titolo del
bel libro del 2003 di Raghuram Rajan e Luigi Zingales. La diagnosi di
Case e Deaton sull'origine del cortocircuito e la diffusione
dell'epidemia è categorica: “l'industria [della salute] è un
cancro al cuore dell'economia, diffusamente metastatizzato, che ha
prodotto la riduzione dei salari, la distruzione di buoni posti di
lavoro, che ha reso sempre più difficile per gli stati e il governo
federale potersi permettere ciò di cui i cittadini hanno bisogno. La
finalità pubblica e il benessere dei cittadini sono stati
subordinati al guadagno privato dei già ricchi”. Questo processo,
naturalmente, origina dall'industria, ma coinvolge la politica
acquiescente con i grandi interessi economici, così come le agenzie
di regolamentazione e in molti casi anche la professione medica - si
parla, non a caso, sempre più spesso di morti “iatrogene”,
causate cioè dalle terapie prescritte dai medici curanti.
Robin
Hood è sparito dalla scena ed ora la redistribuzione del reddito è
gestita dallo sceriffo di Nottingham e il suo strumento principe è
la “rendita di posizione”, l'esatto contrario di ciò su cui
dovrebbero fondarsi i mercati, liberi e ben funzionanti. Si sa che
aliquote fiscali molto alte non farebbero aumentare
significativamente il gettito fiscale dato l'esiguo numero di chi
dichiara un reddito elevato. Allo stesso tempo, invece, vediamo che
la sottrazione anche di piccole quote di ricchezza dai poveri ai
ricchi funziona benissimo, proprio grazie all'elevato numero di
coloro che hanno un reddito basso. “Questo è quello che sta
avvenendo oggi e dovremmo fermarlo” sostengono sempre Case e
Deaton.
In
questo senso il caso dell'industria farmaceutica è davvero
paradigmatico. Nel 2015, un terzo di tutti gli adulti, negli Usa, ha
ottenuto una prescrizione di medicinali a base di oppioidi. Stiamo
parlando di 98 milioni di persone. Non tutti questi, fortunatamente,
sono morti di overdose, ma nel 2000 si sono registrate
quattordicimila vittime e si sa che, per ogni morte di questo tipo,
ci sono almeno cento altre persone che sono in serio pericolo a causa
dell'abuso regolare. Dal 2000 al 2017 sono morte per overdose, negli
Usa, più persone di quante ne siano morte complessivamente nella
Prima e nella Seconda Guerra Mondiale.
Questi
e molti altri dati mettono in evidenza la natura profonda di questo
fenomeno. Se, da una parte, esso è legato alla accresciuta domanda
di una cura per la perdita di senso e di connessione sociale,
dall'altra, a completare l'opera, vediamo una offerta invadente e
spregiudicata di questi sostituti, alcool e, soprattutto, medicinali
a base di oppioidi.
In
questa epidemia di morti per disperazione l'agente patogeno non è un
virus, ma, almeno negli Usa, sono state accertate le responsabilità
delle imprese farmaceutiche, e del loro marketing diretto e
aggressivo, di quei politici che hanno spuntato le armi
dell'anti-droga impedendole di perseguire le pratiche legate alla
sovra-prescrizione dei farmaci, la stessa Dea, che ha consentito
l'importazione della materia prima dalle piantagioni della Tasmania
e, infine, la Fda, l'agenzia di controllo sui farmaci, che ha spesso
approvato l'uso di certi principi attivi senza considerarne le
conseguenze sociali oltre che quelle mediche.
Sugli
elementi centrali di questa vicenda Case e Deaton sono molto chiari:
“Questa è una storia basata sull' offerta, nella quale si sono
generati immensi profitti rendendo dipendenti e uccidendo delle
persone, il tutto con la protezione del potere politico”. Per
convincersi di quanto questa tragica vicenda sia legata alla crescita
spropositata dell'offerta di medicinali che hanno invaso negli ultimi
anni tutti gli Stati Uniti, dovrebbe bastare questo semplice dato: in
due anni, la Tug Valley Pharmacy di Kermit, un paesino di 358 anime
nel West Virginia, ha ricevuto nove milioni di pillole di
antidolorifici a base di oppioidi. Eppure la diffusione del dolore
cronico, in questi anni, non si è certo arrestata, nonostante il
massiccio uso di antidolorifici, così come non si è certo arrestata
la crescita dei profitti delle case farmaceutiche produttrici.
Il
caso delle morti per disperazione è una vicenda tragica che ha
coinvolto e che continua a coinvolgere milioni di persone in tutti
gli Stati Uniti e, quindi, merita attenzione di per sé stessa; ma la
vicenda è, forse, ancora più importante perché è un esempio
lampante di quel cortocircuito che parte del capitalismo
contemporaneo sta mettendo in atto concentrandosi esclusivamente e
ossessivamente sul profitto a qualunque costo, anche al costo di
innumerevoli vite umane.
Un
cortocircuito che diventa ancora più evidente se si pensa alla
commercializzazione di farmaci capaci di “curare”, attraverso
protocolli di “medication-assisted treatment”, più o meno
efficaci, quelle stesse dipendenze che altri farmaci, prodotti dalle
stesse case farmaceutiche, hanno contribuito a creare. “E' come se
– chiosano Case e Deaton - chi, dopo aver avvelenato le riserve
d'acqua e aver fatto ammalare e ucciso decine di migliaia di persone,
ora chiedesse un enorme riscatto per la diffusione dell'antidoto”.
Può essere morale? Può essere legale?
La
domanda di fondo, allora, diventa questa: com'è successo che
l'economia americana, nel suo ethos ancora prima che nei fatti, sia
passata dal voler servire l'interesse di ogni cittadino e consumatore
ad assumere come unico obiettivo rilevante gli interessi delle
imprese, dei manager e degli azionisti. È questo processo che ha
eroso alle fondamenta la classe operaia, che ora minaccia la classe
media e che ha portato alla diffusione di lavori pagati peggio di
quanto non lo fossero anche solo pochi anni fa, più insicuri e
socialmente inutili e che, come epifenomeno, ha finito per alimentare
l'epidemia di disperazione e tutte le morti ad essa associate. Sempre
Case e Deaton concludono: “La storia degli oppioidi si inserisce
bene in questo quadro più generale ed è solo più evidente di
altre, perché è raro che le corporations possono beneficiare in
maniera cosi diretta dalla morte”.
“E
il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare
i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il
suo culmine” diceva Papa Francesco il 3 febbraio del 2017.
La
storia delle morti per disperazione mostra, ancora una volta, quanto
vicini siamo ormai a quel culmine.
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