Da: https://www.lacittafutura.it/ - Alessandra
Ciattini (Collettivo
di formazione marxista Stefano Garroni) insegna Antropologia
culturale alla Sapienza di Roma.
Vedi
anche: Il
videomessaggio di Urbano Cairo. Nonostante il Coronavirus, grandi
opportunità per il business
(https://www.youtube.com/watch?v=xo87Jevb4tI) Per governare le aziende nell’era digitale ci vuole un capo-carismatico e impegnato che motivi i lavoratori ad andare oltre il profitto.
Il
16 luglio scorso sul Sole
24 Ore,
quotidiano della Confindustria,
che si è distinta in questa fase per le pressioni sul governo per il
proseguimento dell’attività produttiva anche non “essenziale”,
è uscito un interessante inserto “guida Impresa
Smart”,
dedicato a come le aziende cambieranno in seguito alla massiccia
introduzione del digitale. La guida è stata realizzata grazie alla
collaborazione della School
of Management del
Politecnico di Milano (tutti gli anglicismi sono originali) e si pone
come obiettivo quello di comprendere e di dirigere le opportunità
offerte da queste rilevanti trasformazioni tecnologiche,
pur ovviamente restando immutato l’obiettivo finale: il profitto,
anzi magari facilitandone l’ottenimento e aumentandone l’entità.
A
mio parere la pubblicazione rivela un significativo
cambio di paradigma, ovviamente ulteriormente antidemocratico, nella
gestione delle aziende,
che cercherò brevemente di illustrare, segnalando come questa virata
sia sostenuta ideologicamente dal mondo accademico organico alla
Confindustria.
Il
problema fondamentale, indicato nell’articolo “Impegno e scopo le
parole chiave per la leadership” di Antonio Dini, pubblicato
nell’inserto, è quello del cambiamento delle persone, ossia di
introiettare una sorta di nuova
morale del lavoro,
con il rischio che se questo processo fallisce le grandi
trasformazioni tecnologiche risulteranno inefficaci.
Credo
che proprio queste due parole “impegno e scopo” meritino una
qualche riflessione, soprattutto dopo che per decenni si sono
aspramente criticati i cosiddetti “intellettuali engagés”
(impegnati), accusati di essere sottoposti a verità imposte
dall’alto, estranei a un sano pragmatismo di matrice statunitense,
che individui i mezzi adeguati a risolvere i problemi, senza
interrogarsi sulla natura e sulla legittimità di della loro
impostazione e senza prospettare progetti a lungo termine. Che in
molti casi questa accusa si sia dimostrata del tutto inconsistente è
evidenziato dalla vicenda politica e umana di Jean-Paul
Sartre,
icona dell’intellettuale impegnato ma indipendente, che nel 1964
giunse a rifiutare il premio Nobel per la letteratura, dopo aver
rifiutato l’onorificenza della Legion d’onore e una cattedra al
prestigioso Collège de France. Dietro la vicenda di Sartre sta la celebre disputa, che ha innervato gran parte del dibattito culturale del Novecento, tra “intellettuali puri”, dediti solo alla ricerca della verità (quale?), e “intellettuali rivoluzionari”, in lotta per rovesciare il potere vigente e quindi politicamente “schierati”.
Questa
disputa, i cui antecedenti riguardano la relazione tra politica e
cultura già toccata da Platone, prende le mosse dalla riflessione di
Max Weber, sostenitore della avalutatività della scienza, e dalla
distinzione fatta nel 1916 da Vilfredo Pareto tra “scienziati” e
“apostoli”, distinzione sostanzialmente condivisa da Benedetto
Croce.
Naturalmente
tra gli apostoli viene spesso annoverato anche Karl Marx, la cui
riflessione è stata sempre tacciata di messianismo e di utopismo da
parte di coloro che si sono mossi in un’ottica blandamente
riformistica e di corto respiro.
Ora,
come mostra in maniera irrefutabile la storia del capitalismo e dei
suoi apologeti, che lo descrivono come il migliore dei mondi
possibili per la sua capacità di garantire la “piena libertà” e
“l’effettiva realizzazione dell’individuo”, la
classe dirigente ha sempre dato la sua preferenza agli “intellettuali
puri” e soprattutto avalutativi e pragmatisti;
e ciò per evitare il duplice rischio che, da un lato, si disvelasse
il fine della produzione capitalistica, dall’altro, se ne
mettessero in luce i gravi svantaggi per i produttori-lavoratori,
evidenziando allo stesso tempo la contraddittorietà tra gli
obiettivi dichiarati e quelli effettivamente ottenuti. Insomma,
l’intellettuale deve ricercare la soluzione dei problemi immediati,
indicando misure parziali e per questo insoddisfacenti, ma mai
interrogarsi sulla loro natura storico-sociale e quindi sulla loro
origine, in uno scenario
in cui il sistema non viene mai messo in questione, dato che tutt’al
più può essere migliorato, edulcorato, depurato delle sue asprezze.
Dinanzi
ai gravissimi problemi con cui oggi ci scontriamo e che sono stati
partoriti dallo stesso sistema basato sull’industrialismo
capitalistico, solo inaspriti dalla pandemia in atto, la classe
dirigente internazionale, largamente sfiduciata dalle masse popolari
e da esse separata da un incolmabile fossato, si gioca una nuova
carta. Dichiara di voler abbandonare il modello tradizionale
dell’azienda gerarchica, che recluta i lavoratori alternando l’uso
del “bastone e della carota”, e invita i suoi esponenti ad
esercitare “una leadership differente, di tipo carismatico e meno
burocratico-razionale”, fondata – come si è già detto
sull’engagement e
sul purpose (impegno
e scopo).
Detto
in soldoni ciò vuol dire – nelle parole dell’autore
dell’articolo – che occorre essere più motivati, indicando ai
dipendenti uno
scopo, che “esprime un valore superiore a quello del semplice
profitto (che certamente rimane, ma non è più l’obiettivo)”.
Di scopi Antonini ne indica due: il primo è ovviamente condiviso da
tutti e consiste nel salvare l’ambiente, solo che per realizzare
questo lodevole obiettivo bisognerebbe, per esempio, cambiare
radicalmente il sistema produttivo agroalimentare, e abbandonare le
politiche di espoliazione imperialistica del Sud globale, dove
continua a crescere una popolazione sempre più misera, non
adeguatamente sostentata per l’uso irrazionale delle risorse.
Ovviamente se si portassero avanti sul serio questi cambiamenti si
sgretolerebbe il sistema economico-sociale nel suo complesso, e non
credo che il Sole
24 Ore intenda
mettersi su questa strada.
Il
secondo scopo proposto per questo cambiamento culturale è, invece,
rappresentato proprio dall’impiego irrazionale delle risorse, cui
prima si faceva riferimento; infatti, esso è così definito “vendere
prodotti appartenenti al mito”,
forse si voleva dire cult.
Tali prodotti sono anche definiti “semplicemente molto belli” e
si incarnano, per esempio, negli oggetti messi sul mercato da Tesla,
azienda innovatrice produttrice di veicoli elettrici, Ferrari, Apple,
e non sono certo accessibili a tutti. Insomma, proponendo scopi più
alti (?) del gretto profitto, si pensa che i lavoratori li
condivideranno e daranno anche l’anima per
la loro realizzazione, sotto la guida di un capo carismatico che è
stato capace di motivarli e per il quale saranno disposti a lavorare
“con
entusiasmo a ciclo continuo”.
Vorrei
aggiungere un’altra considerazione su questo secondo scopo, il
quale senza nessun pudico tentativo di occultamento incita ancora una
volta gli individui al consumismo, magari un consumismo di alta
qualità, cui solo pochi possono dedicarsi, imprigionandoli nel trito
mito che fa dell’oggetto il simbolo del proprio status sociale.
Consumismo, costituito in larga parte dall’accesso a oggetti del
tutto inutili e superflui, su cui oggi si basa circa l’80% della
produzione industriale e la tanto bramata crescita, che l’attuale
crisi ha fortemente incrinato.
Lo
scivolamento verso la figura del capo-carismatico, basata sulle
capacità personali dell’eletto,
che può avere anche un ruolo fortemente negativo (si pensi a
Mussolini e a Hitler), è
assai pericoloso, perché implica il riconoscimento sottinteso –
seguendo la terminologia weberiana – della
crisi dell’autorità legale-razionale,
che attribuisce un certo ruolo sulla base di procedure riconosciute
come legittime. L’acuirsi
delle ineguaglianze mette fortemente in questione il diritto alla
leadership, alla proprietà, e rende assai difficile giustificarne la
legittimità in un contesto come quello attuale in cui
prevaricazione, corruzione, violazione degli stessi fondamenti della
convivenza umana sono purtroppo dominanti. D’altra
parte, se non è più possibile ricorrere a questa forma di
legittimazione, non rimane altro che fornire una base del tutto
irrazionale alla propria preminenza, individuata in quel
certo non so che (carisma)
di cui alcuni sarebbero dotati rispetto agli altri. Tuttavia, a
differenza di quello che ci vogliono far credere, soprattutto
nell’epoca delle comunicazioni di massa, il carisma non è un dono
fortuito, ma un’immagine sociale costruita mettendo insieme vari
aspetti della personalità, magari indulgendo anche su i lati più
intimi, che umanizzano e rendono più accettabile il personaggio
celebrato.
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