Da: https://www.invictapalestina.org - English version - Traduzione: Simonetta Lambetini (Invictapalestina.org) - Louise Adler è un’ex pubblicista australiana ed ex membro del consiglio di amministrazione di numerose organizzazioni artistiche. Fa anche parte del comitato consultivo del Jewish Council of Australia.
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21 settembre 2024 - Immagine di copertina: Louise Adler
Negli ultimi anni mi è stato chiesto di commentare l’“impasse” del Medio Oriente, anche se non sono un esperta di politica estera. Sono solo una dei tanti umanisti che piangono questa tragica storia e inveiscono contro l’incapacità della comunità internazionale di esercitare la grande influenza che ha per portare pace e giustizia ai civili innocenti in quest’area del mondo.
Molti ebrei sostenitori della pace hanno affermato che è proprio a causa della nostra lunga storia di oppressione e discriminazione che dobbiamo stare dalla parte del popolo palestinese e sostenere il suo diritto all’autodeterminazione. Io sono arrivata al punto di pensarla diversamente. Non è a causa della mia storia che mi sono dichiarata alleata della lotta del popolo palestinese, ma perché, in quanto esseri umani, l’ingiustizia e la disuguaglianza richiedono che tutti noi ce ne preoccupiamo.
Sì, la mia storia familiare ha plasmato le mie idee politiche. Se mia madre e i miei nonni, in fuga da Berlino nel 1938, non fossero stati accolti qui, si sarebbero uniti ai 6 milioni di persone uccise nell’Olocausto. Quindi, sì, mi sta molto a cuore che i richiedenti asilo siano accolti dal nostro abbraccio di benvenuto.
Il padre di mio padre fu meno fortunato. Fu deportato a Beaune-la-Rolande nel primo rastrellamento di ebrei immigrati a Parigi nel 1941 e poi inviato a Birkenau, dove fu assassinato. Mio padre, all’età di 14 anni, si unì alla sezione ebraica della resistenza comunista a Parigi. Questo gruppo di partigiani, giovani uomini e donne comuni provvisti solo di coraggio e impegno, decise che era fondamentale esortare gli ebrei francesi a non presentarsi alla stazione di polizia locale, incoraggiarli a nascondersi e fornire razioni e posti per dormire ai bambini rimasti improvvisamente orfani.
Mio padre, con la benedizione di sua madre, prese posizione. In questi momenti, tutti abbiamo delle scelte, il che non significa condannare coloro che si sono concentrati sulla sopravvivenza, hanno cercato un modo per fuggire in Palestina o si sono consolati con la protezione di Dio. Ma è per riconoscere che c’era eroismo nella vita quotidiana, nonostante i grandi rischi. L’esortazione di mio padre a “non distogliere lo sguardo” è stata la lezione di tutta la sua vita, dopo tutto ciò di cui è stato testimone e che ha perso durante la Seconda Guerra Mondiale, e poi dopo il bombardamento di Hiroshima, la guerra del Vietnam e tutti gli orrori successivi. E così, a distanza di tanti anni, la domanda rimane: Chi testimonierà se non lo facciamo noi?
Le lezioni dei primi anni di vita dei miei genitori hanno inevitabilmente plasmato la mia comprensione del mondo. Per continuare in chiave strettamente personale: la mia adolescenza è trascorsa in un movimento giovanile sionista socialista. Sospetto che i miei genitori, che non erano sionisti, apprezzassero semplicemente due ore di pace e tranquillità in una domenica pomeriggio senza figli. L’intenzione del movimento era che, alla fine della scuola, avremmo trascorso un anno in un kibbutz. I miei genitori, completamente concentrati sull’istruzione, non avevano intenzione di concedermi un anno a raccogliere arance o a spennare tacchini. Così, fu deciso che avrei trascorso il Natale in Israele e sarei tornata in Australia per l’università. Arrivai alla fine del 1972. Immaginavo di atterrare in un’utopia socialista. Invece, la realtà del progetto sionista si è manifestata in modo esplicito all’aeroporto: Ebrei europei timbravano il mio passaporto, ebrei mediorientali presidiavano i caroselli dei bagagli, mentre i palestinesi spazzavano i pavimenti e pulivano i bagni. Addio al sogno socialista.
È stato l’inizio della mia formazione sul razzismo radicato alla base della creazione dello Stato di Israele. Come ha sottolineato Saree Makdisi nel suo recente libro, Tolerance is a Wasteland: Palestine and the Culture of Denial, Israele è stato a lungo salutato come l’unica democrazia del Medio Oriente, il che smentisce la contraddizione fondamentale: uno Stato ebraico è per definizione escludente e quindi antidemocratico per tutti coloro che non sono ebrei.
La mia formazione sarebbe proseguita come stagista di Edward Said alla fine degli anni Settanta, quando veniva vilipeso come “professore del terrore”. In una conversazione, parlò della condizione dei palestinesi come vittime delle vittime della storia. Mi sentivo a disagio quando parlava di “ebrei” piuttosto che di israeliani o sionisti. Suggerii che la sua terminologia non lasciava spazio agli ebrei progressisti come me che non erano sionisti. Passammo ad altri argomenti, ma in seguito mi resi conto che la mia ingenua richiesta di sfumature era irrilevante per la sua lotta. Non era compito di Edward Said riconoscere questo piccolo gruppo di ebrei dissenzienti.
Perché i palestinesi (o chiunque altro) dovrebbero rispettare una distinzione tra ebraismo e sionismo, quando lo Stato israeliano è fondato – e la sua continua esistenza giustificata proprio da questa confusione? Quando la Stella di Davide è apposta sulle uniformi dei soldati dell’IDF che umiliano, torturano e uccidono i palestinesi? Quando, come australiana ebrea, posso stabilirmi in un kibbutz nel sud di Israele che un tempo ospitava la famiglia di un palestinese – ora confinato a Gaza a pochi chilometri di distanza, che deve sfondare un recinto di filo spinato per “tornare” – semplicemente perché io sono un’ebrea e lui un palestinese?
La mia formazione è proseguita quando Mohammed el-Kurd, giovane poeta e attivista tanto vilipeso, scrisse un saggio sul legame tra ebrei e Israele. Sosteneva che: “Ecco la mia posizione. C’è un ebreo che vive – con la forza – in metà della mia casa a Gerusalemme, e lo fa per “decreto divino”. Molti altri risiedono – con la forza – in case palestinesi, mentre i loro proprietari si trovano nei campi profughi. Non è colpa mia se sono ebrei. Non ho alcun interesse a memorizzare o a scusarmi per tropi secolari creati dagli europei, o a dare alla semantica più peso di quanto meriti, soprattutto quando milioni di noi affrontano un’oppressione reale e tangibile, vivendo dietro muri di cemento, o sotto assedio, o in esilio, e convivendo con dolori troppo ampi da riassumere. Sono stanco dell’impulso di prendere preventivamente le distanze da qualcosa di cui non sono colpevole e sono particolarmente stanco dell’assunto che io sia intrinsecamente intollerante. Sono stanco della pretesa di far credere che, se esistesse un tale risentimento, la sua esistenza sarebbe inspiegabile e priva di radici. Soprattutto, sono stanco della falsa equivalenza tra violenza semantica e violenza sistemica”.
La mia formazione è continuata, come è giusto che sia. Ci sono stati incontri molto spiacevoli con familiari, amici e nemici. Non sto condividendo queste storie per suscitare compassione, ma piuttosto per rivelare quanto profondamente frammentata e travagliata sia diventata la questione di Israele e della guerra a Gaza. Sono stata ripetutamente rimproverata per aver menzionato l’Olocausto e non aver fatto riferimento al 7 ottobre in un’intervista con Laura Tingle al programma 7.30 della ABC.
Ho scoperto che è impossibile chiedere, per quanto timidamente, se qualcuno ritiene che le immagini di Gaza sui nostri schermi televisivi ricordino le immagini brutali e ormai iconiche del secolo scorso, le foto degli ebrei radunati nel ghetto di Varsavia. Si tratta di infrangere un tabù. È vietato paragonare la condotta dell’IDF nel portare avanti l’occupazione alla segregazione, all’esproprio e alla persecuzione degli ebrei da parte del regime nazista durante la Seconda Guerra Mondiale.
A quanto pare, però, non sono l’unica persona a vedere dei parallelismi. Masha Gessen, al recente Festival of Dangerous Ideas, ha fatto lo stesso ragionamento. Gessen ha respinto l’idea che Gaza sia una prigione a cielo aperto e ha delineato in modo molto preciso i parametri topografici di un ghetto, sia esso a Varsavia o a Gaza. La critica, giornalista e scrittrice del Cremlino era stata in precedenza vilipesa e inizialmente le era stato negato un importante premio per aver sostenuto proprio questa tesi. Sembra che l’Olocausto sia un momento inviolabile e sacro della storia, per sempre al di là di ogni confronto. Il che, per me, significa che non potremo mai imparare le lezioni vitali che dovremmo trarre da quella catastrofe.
Mi è stato detto che sto dissacrando la memoria di una famiglia che è stata uccisa nella Seconda Guerra Mondiale. Come se a molti ebrei della mia generazione in Australia fosse rimasto qualcuno in termini di famiglia allargata. Mi è stato chiesto come mi sono sentita il 7 ottobre, come se la mia empatia o indifferenza nei confronti degli israeliani uccisi quel giorno fosse un segno della mia lealtà, o mancanza di lealtà, nei confronti di Israele e, oltre a questo, una testimonianza della mia ebraicità. Se c’è bisogno di dirlo, ho guardato con orrore i servizi di quel giorno e dei giorni successivi. Sono rimasta disgustata dai filmati e frustrata dai reportage, per lo più disinformati e antistorici, che sono seguiti.
Sono stata chiamata “kapo” (o collaborazionista), “ebrea di facciata”, e ho ricevuto messaggi osceni: i miei genitori si rivolterebbero nella tomba; sono una “negatrice dell’ebraismo; la vergogna che indossi è un crocifisso appropriato”; “vergognati di te e di tutto ciò che rappresenti”, e “ci sono persone nella comunità che vogliono farti del male”. Sono stata rimproverata nei Pioneer Women’s Memorial Gardens di Adelaide da cittadini “disgustati”. Mi hanno guardato male mentre compravo la frutta. Ho ascoltato un immigrato ebreo ucraino che mi diceva: “Loro”, i palestinesi, “non sono come noi”.
In questo piccolo angolo di mondo ci sono 120.000 ebrei. Ho imparato che non è lecito chiedersi quale sia il nostro rapporto con il moderno Stato di Israele. Qual è la nostra risposta all’occupazione della Palestina e alla condizione dei palestinesi?
E la mia risposta è chiedere perché l’empatia, il riconoscimento della nostra comune umanità, è un tale rischio?
Una giovane e brillante avvocatessa mi racconta di essere stata esclusa dal gruppo WhatsApp della sua famiglia per aver parlato dell’occupazione. Un’accademica trentenne ha partecipato alle marce a favore della Palestina. Per tutta la vita ha partecipato alle cene di famiglia del venerdì sera, ma ora si rifiuta di farlo perché discutere della guerra è diventato impossibile. Sua madre teme che la famiglia si divida per questo motivo.
Questi sono problemi del First World. Le nostre esperienze individuali o personali sono solo questo. Sarebbe osceno equiparare il dolore generato dalle fratture che lacerano le famiglie ebraiche nella diaspora alla sofferenza delle famiglie palestinesi letteralmente dilaniate dai bulldozer e dalle bombe israeliane. Ma sarebbe altrettanto ingenuo immaginare che le due cose non siano collegate. Quindi la domanda rimane: cosa c’è in quel luogo che suscita tanta passione e calore quando siamo così lontani dalla regione? Che cos’è questo attaccamento emotivo che la maggior parte degli ebrei dichiara di provare per Israele? Perché l’esistenza di Israele, l’idea di un rifugio sicuro, è così radicata nei loro cuori e nelle loro menti? Come fa una sorta di amnesia collettiva a impadronirsi di persone che conoscono nelle loro ossa la persecuzione? Perché deve essere una sorta di tacita dimenticanza condivisa che permette agli zelanti sostenitori di Israele nella diaspora di distogliere lo sguardo dalla realtà dell’occupazione.
Per dirla in modo ovvio, secoli di persecuzioni hanno lasciato il segno. L’Olocausto ha confermato un terrore psichico collettivo: la paura profondamente radicata di non poter mai essere al sicuro. Tuttavia, la creazione di uno Stato ebraico non è nata come risposta all’Olocausto; è stato un progetto nazionalista del XIX secolo, i cui sostenitori hanno messo da parte il fatto che uno Stato ebraico avrebbe comportato la negazione di una popolazione indigena. Pensate alla “terra nullius” esportata in Medio Oriente. L’Olocausto è stato scritto nella storia come una motivazione post-fatto per la creazione dello Stato di Israele. La riscrittura di quella storia è ora perseguita senza sosta per affermare che la cura per l’antisemitismo risiede nello Stato di Israele.
Ma 75 anni dopo, una successione di guerre, innumerevoli morti, sfollati e sradicati, l’oppressione sempre maggiore della vita dei palestinesi, anni di governo reazionario e il costo morale, civile e politico della negazione dei diritti di un altro popolo a cosa hanno portato esattamente?
Spetta a noi, collettivamente, richiamare le lezioni della storia quando contempliamo la realtà che le successive guerre in Medio Oriente hanno prodotto solo una terribile perdita di vite innocenti, che si tratti di giovani in un rave in Israele o di 16.000 bambini morti a Gaza, secondo i funzionari palestinesi. La nostra profonda pietà per i bambini non dovrebbe forse fermare le nostre mani, impedendoci di prendere le armi di distruzione? Non dobbiamo recuperare la bilancia della giustizia per misurare la disumanità dell’uomo verso l’uomo, e non dovremmo indulgere nell’oscenità dei paragoni per dichiarare che queste vittime sono più importanti di quelle vittime.
La tragica lezione che Israele non ha imparato ancora una volta il 7 ottobre è che la pace non può basarsi sulla sottomissione di un popolo. La violenza ritorna immancabilmente. Anzi, ogni tentativo di coprirla – sia con le politiche sempre più fasciste del governo israeliano, sia con le condizioni sempre più restrittive dell’occupazione, sia con l’isteria della lobby sionista della diaspora in risposta alla più tenue espressione di solidarietà con i palestinesi – non fa che rivelare la terribile e inevitabile persistenza della violenza.
La lezione del 7 ottobre è che non si può normalizzare e vivere in pace nel contesto di una profonda e continua ingiustizia. La pace e la giustizia arriveranno nella regione solo quando i palestinesi saranno riconosciuti come un popolo con il diritto all’autodeterminazione, alla sovranità e a un proprio Stato.
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