giovedì 17 luglio 2014

Aspetti della "società civile" hegeliana - Francesco Valentini

DOMANDA:

Lei afferma che l'<<alienazione>> della società civile descritta da Hegel - nella Filosofia del diritto ma anche nel VI capitolo della Fenomenologia - è solo apparentemente vinta dalla corporazione e dallo Stato; ossia, il passaggio dalla logica economico-civile della società moderna a quella dello Stato politico, non risolve appieno l'estraneazione che pure Hegel aveva indicato come il carattere specifico del mondo smithiano della ricchezza, dell'utile e dell'economia politica. D'altra parte, Lei dice, Hegel si mostra consapevole non solo di questa 'mancanza' interna al passaggio (non del tutto tesaurizzatore), ma ne mostra anche il connaturato aspetto negativo, e cioè a dire, la formazione della plebe in sede civile rimane un problema aperto e un fattore di irrazionalità nella costruzione politica hegeliana, ovverosia nello Stato moderno descritto da Hegel. Alla luce di quanto si è detto, sembrerebbe che la soluzione qui avanzata da Hegel sia piuttosto una constatazione disincantata del persistere, nell'eticità civile e politica, di una contraddizione irrisolta: il 'nervo scoperto' (scoperto appunto da Hegel) della società civile, e cioè la produzione di una massa d'uomini esclusa sostanzialmente dalla possibilità economico-politica di riprodursi, è ciò che, in ultima istanza, contraddistingue la modernità di questa società e di questo Stato.

Ma è questa, o ci siamo sbagliati, la lettura che Lei dà di questo passaggio hegeliano ?
RISPOSTA:

Certamente. Questa è la lettura che ho creduto di dover fare della filosofia politica di Hegel. Il suo Stato - e bisogna dire che ancora una volta Hegel è nostro contemporaneo - porta con sé due problemi irrisolti, il problema della guerra e il problema della plebe. I testi sono chiarissimi. Verso la fine della Filosofia del diritto del 1821, al § 333, Hegel dice che gli stati sono "nello stato di natura gli uni di fronte agli altri", stato di natura dunque e non di diritto. La loro sorte dipende dalla loro volontà particolare, e l'eventuale conflitto non può essere risolto se non con la guerra. E notiamo che Hegel definisce la guerra una "condizione di non giuridicità, di violenza e accidentalità". Aggiungiamo ancora che Hegel critica la concezione kantiana della pace perpetua, perché sostiene che una lega di stati, come quella prevista da Kant, sarebbe pur sempre un intreccio di volontà statali particolari, e dunque sarebbe affetta da accidentalità. Manca una "volontà universale costituita a potere", che quindi stia al di sopra delle volontà dei singoli stati. In sostanza manca uno stato mondiale. Ed è la violenza in ultima analisi a decidere. La violenza troviamo anche all'interno e, diremmo, contro la costruzione razionale dello stato moderno, e la troviamo nella formazione della plebe. La plebe, frutto del movimento dell'economia, compare nella "società civile", ma riaffiora nella trattazione dello stato, quasi a confermare che la razionalità dello stato non riesce ad averne ragione. Nell'annotazione al § 301, sempre della Filosofia del diritto del 1821, leggiamo che "appartiene all'opinione della plebe, al punto di vista della negatività in generale", presupporre nel governo una cattiva volontà. La plebe è infatti un fattore di sovversione che potrebbe, se dovesse svilupparsi, mettere in pericolo l'unità dello stato, generando una sorta di anarchia, cioè di lotta tra le varie componenti sociali. Bisogna perciò evitare il formarsi della plebe. E Hegel allude a degli interventi che evitino il degradarsi delle vite individuali, favorendo l'accesso al lavoro, cioè favorendo il realizzarsi dell'etica della società civile, fondata appunto sul lavoro individuale come fonte della propria sussistenza. Oggi diremmo diritto al lavoro e dovere di esercitare questo diritto. Ma è ciò possibile? La trattazione di Hegel non lascia dubbi. È interessante notare che Hegel, dopo aver detto che i vari interessi devono essere regolati e governati, aggiunge che la garanzia della partecipazione dei singoli alla ricchezza generale è sottoposta a varie accidentalità (ancora quella accidentalità, che abbiamo incontrato nei rapporti tra stati. In questo caso condizioni di salute, di attitudini, di proprietà dei singoli). Ma scrive anche : "senza dire che questa garanzia deve restare incompiuta". Questo "deve" è in tedesco muss, come dire "non può non": vuol designare una sorta di necessità quasi naturale, di quella seconda natura che è il meccanismo economico. Il qual meccanismo economico dà luogo alla formazione della plebe, cioè di una massa di uomini che decadono al di sotto di quello che oggi diremmo il minimo vitale, con gravi conseguenze anche di ordine morale. Inoltre la formazione della plebe "al tempo stesso porta con sé, in cambio, la più grande facilità di concentrare in poche mani ricchezze sproporzionate". Hegel non precisa altro, ma è probabile che pensi alla "utilità" dei bassi salari. Ora, evitare la formazione della plebe non è possibile. Non è possibile mediante interventi umanitari, privati o pubblici, perché, a parte la loro inevitabile accidentalità, essi sarebbero contrari all'etica della società civile che implica che ciascuno provveda a sé col suo lavoro. E non è possibile col ricorso a nuove occasioni di lavoro, perché in tal modo la produzione aumenterebbe, ma non aumenterebbe con questo il consumo, e quindi si avrebbero difficoltà insormontabili per la produzione successiva. E infine Hegel si riferisce, in particolare pensando all'Inghilterra, al colonialismo, cioè alla creazione di una nuova società civile in altra regione. Ma è evidente che ciò sposterebbe e non risolverebbe il problema. Appare dunque chiaro, come Hegel dice, che la società civile, per quanto ricca, non è ricca abbastanza e genera povertà accanto a ricchezza. E bisogna notare che in tutto questo Hegel è fedele a Smith, che chiaramente lo ispira: Smith infatti parla della ricchezza individuale come fattore di benessere generale, ma parla anche del fatto che per ogni uomo ricco occorre che vi siano almeno cinquecento poveri e che l'abbondanza di pochi presuppone l'indigenza di molti. È dunque il meccanismo economico che genera l'ineguaglianza come in un processo naturale. Ma Hegel non manca di sottolineare la differenza. Mentre nei confronti della natura, egli dice, non si possono invocare diritti, nella società l'indigenza prende forma di un'ingiustizia patita da questa o quella classe sociale. Onde questo problema agita e tormenta le società moderne. Potremmo aggiungere: comprese le nostre società. Se leggiamo, per esempio, quanto ha recentemente scritto Amartya Sen, Nobel dell'economia del '98, a proposito della mondializzazione, troviamo che nell'essenziale non dice molto più di quanto Hegel diceva dell'economia del suo tempo.

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