“La Comune dovette
riconoscere sin dal principio che la classe operaia, una volta giunta al
potere, non può continuare a governare la vecchia macchina dello Stato, che la
classe operaia, per non perdere di nuovo il potere appena conquistato, da una
parte deve eliminare tutta la vecchia macchina repressiva già sfruttata contro
di essa, e dall’altra deve assicurarsi contro i propri deputati e impiegati,
dichiarandoli senza nessuna eccezione e in ogni momento revocabili. [...]
Questa distruzi one
del potere dello Stato esistente e la sostituzione ad esso di un nuovo potere,
veramente democratico, è esaurientemente descritta nel terzo capitolo della
Guerra civile. Era però necessario ritornar qui brevemente sopra alcuni tratti
di essa, perché precisamente in Germania la superstizione dello Stato si è
trasportata dalla filosofia nella coscienza generale della borghesia e perfino
di molti operai. Secondo la concezione filosofica, lo Stato è la “realizzazione
dell’Idea”, ovvero il regno di Dio in terra tradotto in linguaggio filosofico,
il campo nel quale la verità e la giustizia eterna si realizza o si deve
realizzare. Di qui una superstiziosa idolatria dello Stato e di tutto ciò che
ha relazione con lo Stato, idolatria che si fa strada tanto più facilmente in
quanto si è assuefatti fin da bambini a immaginare che gli affari e gli
interessi comuni a tutta la società non possano venir curati altrimenti che
come sono stati curati fino ad ora, cioè per mezzo dello Stato e dei suoi bene
istallati funzionari. E si crede d’aver già fatto un passo estremamente audace,
quando ci si è liberati alla fede nella monarchia ereditaria e si giura nella
repubblica democratica. In realtà però lo Stato non è che una macchina per
l’oppressione di una classe da parte di un’altra, e ciò nella repubblica
democratica non meno che nella monarchia; e nel migliore dei casi un male che
viene lasciato in eredità al proletariato riuscito vittorioso nella lotta per
il predominio di classe e i cui lati peggiori non potrà fare a meno, subito, di
eliminare nella misura del possibile, come fece la Comune, finché una nuova
generazione, cresciuta in condizioni sociali nuove, libere, non sia in grado di
scrollarsi dalle spalle tutto il vecchiume dello Stato.
Il filisteo
socialdemocratico recentemente si è sentito preso da un salutare terrore
sentendo l’espressione: dittatura del proletariato. Ebbene, signori, volete
sapere come è questa dittatura? Guardate la Comune di Parigi. Questa era la
dittatura del proletariato.“
(Engels - introduzione de “La guerra civile in Francia”)
Ostile allo statalismo, la borghesia fu - un tempo -
in lotta contro il mercantilismo economico e l’assolutismo politico. Il
liberalismo era allora realmente distruttivo, implicava di fatto il
sovvertimento del potere statale e la rottura di antichi vincoli. Tutto il
sistema dei rapporti gerarchici dello Stato - faticosamente costruito - ed i
legami corporativi cittadini con la loro complicata sovrastruttura di privilegi
e monopoli, vennero spazzati via. La vittoria del liberalismo provocò un
immediato e considerevole indebolimento dell’autorità dello Stato. La vita
economica avrebbe dovuto essere - almeno in teoria - definitivamente sottratta
al controllo dello Stato, che doveva limitarsi a garantire la sicurezza e
l’uguaglianza borghesi.
Il
liberalismo diveniva così la negazione pura e semplice dello Stato del primo
periodo mercantilistico del capitalismo, il quale, in principio, voleva
regolare tutto, ed era anche in netto contrasto con tutti i sistemi
socialistici, i quali, non in senso distruttivo, ma costruttivo, vogliono porre
al posto dell'anarchia e della libertà della concorrenza un sistema
consapevolmente regolato, creando una società che organizzi la propria vita
economica e quindi anche se stessa. È perciò appena naturale che i princìpi
liberali si siano realizzati più precocemente in Inghilterra, dove erano
sostenuti da una borghesia tutta per il libero scambio, una borghesia che,
anche durante i periodi di più acuto contrasto con il proletariato, si lasciò
spingere ben raramente a chiedere l'intervento dello Stato e, comunque, lo fece
solo per brevi periodi. Anche in Inghilterra, però, la realizzazione del
liberalismo urtò non solo contro la resistenza della vecchia aristocrazia che
appoggiava una politica protezionistica ed era, quindi, recisamente contraria
ai princìpi liberali, ma anche, in parte, contro quella del capitale
commerciale, e del capitale bancario che aspiravano ad investimenti all'estero
e pretendevano soprattutto il mantenimento dell'egemonia sui mari, pretesa,
questa, che veniva avanzata e con estrema energia anche dagli ambienti
interessati alle colonie. Sul continente la concezione liberale dello Stato
riuscì ad imporsi solo parzialmente e con grandi compromessi. Abbiamo qui un
tipico esempio di contraddizione tra ideologia e realtà: mentre infatti i
continentali, in ogni campo della vita politica e spirituale, con acume e
rigida consequenzialità, riuscirono a trarre tutte le possibili conseguenze
teoriche dai princìpi liberali a cui i Francesi avevano impresso la classica
configurazione (giacché lo sviluppo più tardo li aveva forniti di strumenti di
indagine scientifica più perfezionati di quelli inglesi) elaborando perciò
sulla base della filosofia razionalistica una formulazione del liberalismo ben
più vasta ed esauriente di quella inglese, che rimase chiusa entro l'ambito
ristretto della scienza economica, sul piano pratico invece le realizzazioni
politiche furono sul continente molto meno radicali di quelle inglesi.
Del
resto, non è neppure pensabile che proprio la borghesia continentale - che
aveva bisogno dello Stato come della più potente leva della propria ascesa, e
che non intendeva, quindi, eliminare lo Stato ma trasformarlo da ostacolo a
veicolo del proprio sviluppo - fosse in grado di procedere all'esautoramento
del potere statale richiesto dal liberalismo. Ciò di cui la borghesia
continentale aveva soprattutto bisogno era la eliminazione delle più piccole
formazioni statali, la sostituzione del piccolo Stato impotente con lo
strapotente Stato unitario. L'esigenza della creazione dello Stato nazionale
spingeva la borghesia su posizioni favorevoli alla conservazione dello Stato.
Nel continente, poi, non era in gioco solo il dominio sul mare, ma anche il
dominio sulla terraferma. L'esercito moderno ha, peraltro, un'importanza ben
maggiore della flotta, nel determinare i rapporti tra la società civile e il
potere dello Stato.
Quest'ultimo,
una volta caduto in mane a coloro che possono disporre dell'esercito, - e ciò
avviene inevitabilmente ove esista un forte esercito di terra - assume una
completa autonomia. Il servizio militare obbligatorio, che ha armato le masse,
doveva d'altronde convincere ben presto la borghesia della necessità di imporre
all'esercito (che altrimenti sarebbe potuto divenire una minaccia al suo
potere) un'organizzazione rigidamente gerarchica creando una casta di ufficiali
capace di funzionare da docile strumento in mano allo Stato. Mentre da un lato
quindi in paesi come la Germania, l'Austria e l'Italia, il liberalismo non riusciva
a realizzare le proprie premesse teoriche riguardanti lo Stato, esso vedeva
dall'altro bloccarsi il proprio sviluppo in tal senso persino in Francia,
giacché la borghesia francese, per ragioni di politica commerciale, non poteva
rinunciare allo Stato. Ciò anche perché era inevitabile che la vittoria della
rivoluzione finisse col complicarsi in una guerra su due fronti: e infatti, da
un lato le conquiste rivoluzionarie dovevano essere difese contro il
feudalesimo del continente, mentre, dall'altro, la creazione di un nuovo Stato
capitalistico moderno minacciava l'antica posizione egemonica dell'Inghilterra
sul mercato mondiale. La Francia dovette così ingaggiare simultaneamente una
lotta contro il continente ed una contro l'Inghilterra, per l'egemonia sul
mercato mondiale. La sconfitta della Francia rafforzò in Inghilterra la
posizione della proprietà fondiaria, del capitale commerciale, bancario e
coloniale, e con ciò il potere statale, a scapito del capitale industriale,
ritardando così l'inizio della definitiva egemonia del capitale industriale
inglese, e la vittoria del libero scambio. La vittoria inglese, inoltre, spinse
il capitale industriale europeo su posizioni favorevoli al protezionismo,
frustrando completamente gli sforzi dei sostenitori del libero scambio, e
creando, al tempo stesso, quelle condizioni che erano destinate a favorire, sul
continente, il più rapido sviluppo del capitale finanziario. L'adeguazione
dell'ideologia e della concezione dello Stato borghese alle esigenze del
capitale finanziario trovò perciò in Europa ostacoli tutt'altro che
inamovibili. Il fatto poi, che l'unificazione della Germania fosse avvenuta in
senso controrivoluzionario, non poté non rafforzare straordinariamente, nella
coscienza del popolo tedesco il rispetto per lo Stato, mentre in Francia la
disfatta militare fece sì che tutte le energie si concentrassero sul problema
della ricostituzione del potere statale. Le esigenze del capitale finanziario
favorirono in tal modo la nascita e la diffusione di elementi ideologici che il
capitale finanziario poté poi facilmente utilizzare per elaborare una nuova
ideologia adeguata ai propri interessi. Quest'ultima è però in netto contrasto
con quella del liberalismo. Il capitale finanziario non chiede libertà, ma
dominio: non tiene in alcun conto l’autonomia del singolo capitalista, anzi ne
pretende l'assoggettamento; aborrisce l'anarchia della concorrenza
e promuove l'organizzazione solo per poter condurre la concorrenza in ambiti
sempre più vasti. Per riuscire in ciò, per poter conservare ed aumentare il
proprio prepotere, esso ha però bisogno dello Stato il quale, con la sua
politica doganale, deve garantirgli il mercato interno e facilitargli la
conquista di quelli esteri. Il capitale finanziario ha bisogno di uno Stato
politicamente forte che, nei suoi atti di politica commerciale, non sia
costretto ad usare alcun riguardo agli opposti interessi di altri Stati.
È
quindi necessario uno Stato forte, capace di far valere i suoi interessi
finanziari all'estero e di servirsi della propria potenza per estorcere agli
Stati meno potenti vantaggiosi trattati di fornitura e favorevoli transazioni
commerciali; uno Stato che possa spingersi in ogni parte del globo per fare del
mondo intero zona di investimento del proprio capitale finanziario; uno Stato,
infine, sufficientemente forte per condurre una politica espansionistica e per
potersi incorporare nuove colonie. Mentre il liberalismo era contrario ad una
politica di forza dello Stato e voleva garantirsi il controllo sugli strumenti
del potere dell’aristocrazia e della burocrazia, cercando di sottrarre a queste
ultime gli organi dello Stato, ora la politica di forza diviene una precisa ed
incondizionata richiesta del capitalismo finanziario; ciò avviene comunque
anche senza tener conto del fatto che le esigenze dell’esercito e della flotta
assicurano proprio ai più forti settori capitalistici uno smercio imponente con
utili per lo più monopolistici.
L’aspirazione
ad una politica espansionistica rivoluziona però anche tutta la
“Weltanschauung” della borghesia, che allontana definitivamente gli ideali
pacifisti ed umanitari. I vecchi liberoscambisti credevano nel libero scambio
non solo come la politica economica più giusta, ma anche come il presupposto
della nascita di un’era di pace. Il capitale finanziario ha perduto da tempo
questa speranza. Esso non si illude più che gli interessi capitalistici possano
venire armonizzati, ma sa che la lotta concorrenziale si trasformerà sempre più
in una lotta per la potenza politica. L'ideale della libertà di scambio
dilegua; al posto dell'umanitarismo subentra l’esaltazione della grandezza e
della potenza dello Stato. Lo Stato moderno è sorto come realizzazione dello
sforzo unitario della nazione. Il pensiero nazionale che ha toccato i suoi
limiti naturali nel costituirsi della nazione a fondamento dello Stato (giacché
in questo modo esso ha riconosciuto a tutte le nazioni il diritto di creare
proprie formazioni statali facendo coincidere i confini dello Stato con i
confini naturali della nazione) viene ora soppiantato dall'ideale
dell'esaltazione della propria nazione al di sopra delle altre. [Si veda: Otto
BAUER. "Marx-Studien” II, par. 30, pp. 491 e sgg. Der
Imperialismus un das Nationalitätsprinzip (L'imperialismo e il
principio di nazionalità)]
La
massima aspirazione è ora quella di assicurare alla propria nazione il dominio
sul mondo, un'aspirazione non meno illimitata di quella del capitale al
profitto, da cui anzi scaturisce. Il capitale parte alla conquista del mondo e
ad ogni nuova conquista esso non fa che toccare nuovi confini che sarà spinto a
valicare. Questa espansione incessante è ora una inderogabile necessità
economica, perché rimanere indietro significa caduta del profitto del capitale
finanziario, diminuzione della sua capacità concorrenziale e, come ultimo
effetto, subordinazione del territorio economico rimasto più piccolo rispetto a
quello divenuto più esteso. Questa aspirazione espansionistica causata da
esigenze economiche, viene giustificata ideologicamente mediante uno
strabiliante capovolgimento dell’idealità nazionale, la quale ora non riconosce
più ad ogni nazione il diritto all'autodeterminazione e all'indipendenza
politica e non esprime più il dogma democratico dell'uguaglianza sul piano
internazionale di tutto ciò che è umano. Al contrario, le aspirazioni
economiche del monopolio si rispecchiano nella posizione di privilegio che esso
pretende per la propria nazione. I privilegi appaiono più di ogni altra cosa
come frutto di predestinazione. Poiché l'assoggettamento di nazioni straniere
avviene con la violenza e, quindi, in un modo molto naturalistico, sembra che
la nazione dominante debba questa sua egemonia alle sue specifiche
caratteristiche naturali, e cioè alle sue qualità razziali. L'ideologia della
razza, quindi, non è altro che il tentativo di fondare scientificamente, con un
camuffamento biologico, la volontà di potenza del capitale finanziario che
intende in tal modo presentare i suoi movimenti come ineluttabili e
condizionati da leggi naturali. Al posto dell'ideale egualitario democratico
subentra ora un ideale egemonico oligarchico. Laddove sul terreno della
politica estera, questo ideale ha come oggetto, nell'apparenza, l'intera
nazione, su quello della politica interna esso diviene accettazione ed
accentuazione del punto di vista padronale che tenta di subordinare al proprio
quello della classe operaia.
La
forza crescente dei lavoratori stimola al contempo il capitale a rafforzare
ulteriormente il potere statale per garantirsi contro le richieste dei
proletari. L'ideologia dell'imperialismo sorge quindi come superamento della
vecchia ideologia liberale. Essa si fa beffe dell'ingenuità di quest'ultima. È
pura illusione credere ad un'armonia di interessi nel mondo della lotta
capitalistica, dove a decidere è solo la superiorità delle armi; illusione
attendere il regno della pace perenne e predicare un diritto dei popoli, quando
è solo la potenza a decidere della loro sorte; follia voler trasportare al di
là dei confini dello Stato il sistema dei rapporti giuridici che regolano la
vita al suo interno. Stupida e irresponsabile seccatrice davvero, questa
infatuazione umanitaria che viene a disturbare gli affari e che, dopo aver
fatto dei lavoratori un problema, ha scoperto, all'interno dello Stato, le
riforme sociali e nelle colonie vuole eliminare la schiavitù contrattuale,
unica possibilità di un razionale sfruttamento! Quello di una giustizia
immutabile è un bel regno, ma con l'etica non si costruiscono certo ferrovie.
Come fare a conquistare il mondo, se si vuole prima aspettare che la
concorrenza si converta ai nuovi ideali?
L'imperialismo
dissolve tutte queste illusioni solo per sostituire all'ormai sbiadito ideale
della borghesia una nuova, grande illusione. Freddo e positivo finché si tratta
di considerare il reale conflitto di interessi dei gruppi capitalistici e di
concepire tutta la politica come affare privato di monopoli che reciprocamente
si combattono, ma che possono anche unificarsi, esso diviene però
improvvisamente passionale ed estatico quando si mette a parlare del proprio
ideale. L'imperialista non vuole nulla per sé: non è però un illusionista o un
sognatore per risolvere in uno scialbo concetto di umanità la variopinta realtà
di un inestricabile groviglio di razze nei più vari gradi e con le più diverse
possibilità di sviluppo. Egli osserva il guazzabuglio dei popoli con occhio
duro e acuto e al di sopra di tutti fissa la propria nazione. La nazione è
reale: essa si invera nello Stato che diviene sempre più potente e più grande:
per farla assurgere ai più alti fasti nessuno sforzo è troppo gravoso.
L'abbandono dell'interesse particolaristico per un più alto interesse comune
che ogni ideologia sociale deve includere per essere vitale è con ciò
consumato; lo Stato, un tempo estraneo al popolo, e la nazione stessa, formano
ora una salda unità di cui l'idea nazionale posta al servizio della politica è
la forza propulsiva. I contrasti tra le classi sono svaniti e superati a favore
di un ideale della collettività. Al posto della lotta delle classi, pericolosa
e senza via d'uscita per i padroni, subentra l'azione comune della nazione
tutta, tesa alla conquista della grandezza nazionale.
Tale
ideale, che sembra costituire un nuovo legame capace di tenere insieme la
dilacerata società borghese, è destinato a riscuotere consensi entusiastici,
perché nel frattempo il processo di disgregazione della società borghese è
andato ulteriormente aggravandosi. (Rudolf Hilferding - Il capitale finanziario)
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