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mercoledì 30 ottobre 2019

Giovanni Arrighi, “Adam Smith a Pechino” - Alessandro Visalli

Da: https://tempofertile.blogspot.com/
AlessandroVisalli è architetto e dottore di ricerca in pianificazione urbanistica; si occupa di ambiente ed energie rinnovabili. https://www.facebook.com/alessandro.visalli. 
Leggi anche: Samir Amin: “La crisi” - Alessandro Visalli  
                        Gli USA e il Pacifico - Dario Fabbri



 Questo testo chiude il percorso e la trilogia di studi sui “sistemi-mondo”, a pochi mesi dalla morte dell’autore, e ne è sia un seguito sia una rielaborazione. Il tema chiave è il tentativo, compiuto dall’amministrazione Bush, di reagire alla minaccia di declino che si era presentata sin dalla crisi sistemica degli anni settanta con una forte proiezione imperiale in grado di aprire un nuovo “secolo americano”, essenzialmente tramite il controllo diretto, manu militari, delle regioni chiave per le economie industrializzate. Come si dice sinteticamente, “guerre per il petrolio”, ma in realtà “guerre per il mondo”. 

 Il primo tema è dunque il lancio, prima, ed il fallimento, poi, di questo progetto di “dominio senza egemonia”. 

 Il secondo è l’affermazione, o meglio il ritorno, della Cina in posizione centrale nel mondo.

 Questo tema, la rinascita economica dell’oriente asiatico, è l’effetto di una serie ininterrotta di “miracoli” economici: il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapore, la Malaysia, la Thailandia, infine la Cina.

Ma l’oriente asiatico, in ombra nella prima parte del secolo scorso (anche se il Giappone già fa eccezione), non era sempre stato considerato una parte sottosviluppata del mondo. In effetti ancora Adam Smith, nel settecento, ne aveva un’immagine altamente positiva. In particolare della Cina come del centro sviluppato del mondo e del luogo di maggiore ricchezza, se pur connotato da una forte stabilità. Questa immagine degrada molto rapidamente durante l’ottocento, e alla fine della seconda guerra mondiale la Cina era arrivata ad essere ormai una delle nazioni più povere del mondo.
Una situazione che inizia a cambiare di nuovo quando negli anni sessanta in Vietnam gli Stati Uniti alla fine sono sconfitti e devono scendere a patti; è da allora che accelera e prende sempre più forza quello che alcuni hanno chiamato “l’arcipelago capitalista” nell’oriente asiatico.

Il libro di Arrighi, come lo stesso titolo mostra, utilizza una lettura non convenzionale del capolavoro di Adam Smith “La ricchezza delle nazioni” per interpretare il particolare tipo di mercato impiantato con enorme successo in Cina come “non capitalista” e continuo alla lunga tradizione del paese. Smith, del resto, sperava che potesse impiantarsi una società di mercato globale basata su una maggiore equità e rispetto per le diverse aree mondiali di civiltà; una società non fondata sulla forma a suo dire “innaturale” di sviluppo che il mercantilismo della sua epoca stava impiantando. Secondo il modo di leggere il filosofo morale (la sua prima specializzazione) scozzese che propone Arrighi questi non è stato affatto un teorico dello sviluppo capitalistico, o il suo difensore. Smith intendeva i mercati come strumento di controllo e di governo dell’avidità e ciò riveste importanza per comprendere le economie di mercato non capitaliste, come quella cinese prima che venissero incorporate in posizione subalterna nel sistema globalizzato di stati guidato dall’Europa.

Ma cosa è “un’economia di mercato socialista”, che si vorrebbe creare in Cina, e cosa, invece, la “economia di mercato elitaria” (secondo la denuncia di Liu Guoguang nel 2006) che si rischia di creare? Tra il “socialismo con elementi cinesi” dei discorsi ufficiali e la realtà di capitalismo selvaggio che si registra spesso c’è, per Arrighi, un vasto lavoro da fare, nelle lotte del popolo cinese e nella sistemazione delle idee. Questo secondo compito, ambizioso, è quello che si dà.


Adam Smith e la nuova era asiatica

Il libro prende le parti dunque di una sorta di “marxismo neosmithiano” che lavora entro la frattura, ben ricordata nelle prime pagine, tra il marxismo de “Il Capitale”, concentrato sullo sviluppo delle forze produttive nei centri più avanzati e che assegna ai relativi lavoratori il compito di guida in quanto testimoni della maggiore contraddizione, e quello delle periferie del mondo, concentrato sulla questione del potere e della lotta nazionale di liberazione.

Come scrive Arrighi: “Non ci sono dubbi sulla distanza che separa la teoria del sistema capitalistico di Marx dal marxismo di Castro, Amilcar Cabral, Ho Chi Min, o Mao Zedong, una distanza che si poteva superare solo con un atto di fede nell’unità storica del movimento marxista” (p.32). Un tema fondamentale, recentemente ripreso con grande energia da Domenico Losurdo.

Questa frattura, continua, Arrighi:

fra marxisti essenzialmente interessati all’emancipazione del Terzo Mondo dall’eredità dell’imperialismo neocoloniale e marxisti che si preoccupavano principalmente dell’emancipazione della classe operaia. Il problema era che se Il Capitale avesse rappresentato effettivamente un’adeguata chiave di lettura del conflitto di classe, i presupposti di Marx a proposito dello sviluppo capitalistico su scala mondiale non sarebbero sembrati reggere a un’analisi empirica. I presupposti di Marx richiamano molto più la tesi del ‘mondo piatto’ che Thomas Friedman è andato diffondendo negli ultimi anni.” (p.33)

domenica 19 giugno 2022

Preparativi di un nuovo mondo: circa la “trasformazione strutturale” dell’economia Russa - Alessandro Visalli

 Da: https://tempofertile.blogspot.com - AlessandroVisalli è architetto e dottore di ricerca in pianificazione urbanistica; si occupa di ambiente ed energie rinnovabili.

Leggi anche: Giovanni Arrighi, “Adam Smith a Pechino” - Alessandro Visalli

Samir Amin: “La crisi” - Alessandro Visalli 

Giovanni Arrighi descrive la svolta degli anni ottanta che produsse il ridisciplinamento dei lavoratori occidentali (il cui reddito reale è da allora stagnante[1]) come ultimo effetto di una lunga catena di cause e conseguenze il cui punto focale è la decolonizzazione. La svolta i cui alfieri furono Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margareth Thatcher in Gran Bretagna è quindi letta nel contesto della lotta egemonica tra Est ed Ovest. La crisi dei profitti e della competitività delle merci occidentali, attivata dal cambiamento delle ragioni di scambio, in particolare di alcuni prodotti chiave (in primis energetici), determinò allora uno squilibrio fondamentale della bilancia dei pagamenti e fiscale. Squilibrio che fu aggravato dalle politiche di compensazione che si accumularono per tutti gli anni sessanta e settanta giungendo, alla fine, ad un punto di rottura. Politiche rivolte a salvare il grande capitale e cercare di conservare, allo stesso tempo, la pace sociale. Allora, con la svalutazione del dollaro (e della sterlina) del 1969-73 e con il distacco del 1971 dalla parità con l’oro derivarono un gioco di reciproco scaricabarile tra alleati. Un gioco a chi alla fine si sarebbe trovato a pagare la crisi. Toccò a noi

Per evitare la distruzione di capitali, questi si rifugiarono nel loro “quartier generale”, ovvero nei mercati finanziari, cercando di moltiplicarsi senza passare per la produzione. Ma, come scrive Arrighi in “Adam Smith a Pechino”, in questo modo alla fine “gli Stati Uniti passarono dal ruolo di principale sorgente mondiale di liquidità e di investimenti diretti all’estero che avevano coperto durante gli anni Cinquanta e Sessanta, a quello di principale nazione debitrice e di pozzo di liquidità che non hanno più abbandonato dagli anni Ottanta”[2]. Ottennero così i risultati di fine millennio: la sconfitta dell’Urss e il disciplinamento del Sud del mondo. I margini della produzione furono ricreati distruggendo ed incorporando in modo subalterno l’industria del blocco sovietico, che competeva sui mercati del Sud; quindi attraverso la recessione e l’allargamento delle catene produttive ad occupare lo spazio che si era aperto; infine questi eventi liquidarono lo Stato Assistenziale e ricostituirono l’esercito di riserva industriale; le crisi finanziarie e di debito ripetute per tutti gli anni ottanta e novanta crearono lo spazio per imporre l’apertura dei mercati al capitale speculativo ed industriale[3]. Alcuni hanno chiamato tale modello, che scava costantemente sotto le proprie fondamenta, “Grande Moderazione[4].

venerdì 13 gennaio 2023

Il capitalismo come forma religiosa - Alessandro Visalli

Da: https://www.facebook.com/alessandro.visalli.9https://tempofertile.blogspot.com - Alessandro Visalli è architetto e dottore di ricerca in pianificazione urbanistica; si occupa di ambiente ed energie rinnovabili. 

Quello che segue è uno dei paragrafi del libro "Classe e Rivoluzione", in preparazione per i tipi di Meltemi ed in uscita presumibilmente in primavera-estate.

Fa parte di un breve prologo sui "Capitalismi" che muove dalla lezione di Walter Benjamin per approfondire la forma di vita e di teologia economica implicita ma operante nel capitalismo. Seguirà un capitolo sulle 'rivoluzioni' e quindi un terzo, a completare la Parte Prima, sui 'mutamenti', nei quali, ripassando per il tema delle forme religiose dei capitalismi nel corso del tempo e per le forme idolatriche del mercato come salvezza, si arriva a descrivere il 'compromesso' dei trenta gloriosi, la sua 'revoca' nei successivi quaranta anni, e la 'revoca della revoca' (ovvero il ritorno della storia), in corso di dispiegamento.

La Parte Seconda e Terza (rispettivamente 'concetti' ed 'azioni') si occuperanno di trarre le conclusioni e di segnalare un percorso nella rete concettuale della tradizione marxista (e non solo) per dismettere gli abiti del lutto, propri della 'revoca', e riattivare i potenziali della situazione, evitandone alcuni rischi. Tra questi quello di correre avanti, immaginarsi a cavallo di un'onda mentre se ne viene portati, evitare il sentiero stretto di un lavoro lungo, determinato e paziente, volto alla creazione di nuove soggettività nell'azione di comunità politiche capaci di esprimere una nuova visione del mondo. Tuttavia non da questo estranee e fuggenti, come monaci benedettini. Serve un lavoro sistematico di interpretazione e rottura, azione concreta sui territori, immersione nelle controversie del proprio tempo, fatica del dialogo con i diversi e con i vicini, sforzo della memoria.

Se si naviga nella nebbia bisogna portare a prua una lampada, se si vogliono evitare gli scogli che affiorano ovunque. Avere idea per quale trasformazione sociale si lavora e perché. 

Il Capitalismo come forma religiosa.

sabato 3 agosto 2024

L’ecosocialismo di Karl Marx di Kohei Saito - Francesco Saverio Oliverio

Da: https://www.leparoleelecose.it - Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti - Francesco Saverio OliverioUniversità della Calabria, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali. 

Leggi anche: IL MARX DI DAVID HARVEY - Giorgio Cesarale

Un dialogo sull’imperialismo: David Harvey e Utsa e Prabhat Patnaik. - Alessandro Visalli 

Il neoliberismo è un progetto politico*- B. S. Risager intervista David Harvey 

https://traduzionimarxiste.wordpress.com/2019/07/08/intervista-a-utsa-patnaik-storia-agraria-e-imperialismo 

La migrazione come rivolta contro il capitale*- Prabhat Patnaik





L’ecosocialismo di Karl Marx di Kohei Saito è comparso in lingua italiana per i tipi di Castelvecchi nell’ottobre 2023 [1]. La pubblicazione in lingua inglese risale al 2017, l’editore fu la Monthly Review Press [2]. Saito è filosofo del pensiero economico, professore all’Università di Tokyo; il suo nome è giunto al grande pubblico grazie al boom di vendite del successivo Capital in the Antropocene (Ed. Shueisha, 2020) vincitore dell’Asia Book Award del 2021 nella categoria dei libri con un gran numero di lettori che colgono con acutezza i cambiamenti della società moderna. 


L’autore – sin dalle pagine introduttive – si immerge nel dibattito che ha attraversato le opere di Marx, in particolare in merito all’ecologismo. Il rivoluzionario di Treviri è stato criticato – ricorda Saito – a partire dagli anni Settanta anche dall’emergente movimento ambientalista per il suo “prometeismo” ovvero per il suo elogio al progresso delle forze produttive e anche in campo sociologico non sono mancate voci autorevoli – come quella di Anthony Giddens – che hanno condiviso lo stereotipo secondo il quale in Marx lo sviluppo tecnologico avrebbe permesso di manipolare la natura.

 

Proprio l’emergere delle preoccupazioni per le sorti dell’ecosistema – poste dal noto rapporto Limits to Growth nel 1972 nei termini di un prossimo raggiungimento dei limiti naturali se la linea di sviluppo fosse continuata inalterata in alcuni settori strategici come l’industrializzazione e la produzione alimentare [3] – e la nascita dei movimenti ambientalisti hanno posto alla tradizione di pensiero marxista delle sfide importanti, in primis quella di individuare gli elementi teorici con cui aggredire problemi nuovi. Si trattava di recuperare e costruire un’immaginazione socialista sull’ecosistema


Il pensiero socialista sull’ambiente si è sviluppato – argomenta Saito – in due fasi: una prima che desiste dal riscontrare un’ecologia in Marx o che, seppure ne riconosca l’esistenza, ne disconosce la rilevanza per l’oggi poiché formatasi in un contesto storico diverso. Sono riconducibili alla prima fase ecosocialista autori come André Gorz, Michael Löwy, James O’Connor o sostenitori più recenti come Joel Kovel. Questi autori hanno comunque lavorato – seppur in modi diversi – per sviluppare una proposta di transizione ecologica anche attraverso il metodo di Marx. Una seconda fase, con autori come John Bellamy Foster e Paul Burkett, che «analizzano le crisi ambientali come una contraddizione del capitalismo basata sulla “frattura metabolica”» (p. 10) con l’obiettivo di avvalorare la robustezza dell’ecologia di Marx. Foster, nel suo contributo al libro Marx Revival (Donzelli, 2019) curato da Marcello Musto, segnala anche una terza fase dell’ecosocialismo legata ai movimenti ambientalisti globali dei primi decenni del nostro secolo [4]. Ci sono poi i critici della teoria della frattura metabolica come Jason W. Moore che, dice Saito, lamentano che l’ecologia di Marx può tuttalpiù far emergere che il capitalismo sia deleterio per la natura.

domenica 8 novembre 2020

50 anni di relazioni (Italia-Cina) ed un futuro tutto da scrivere - Francesco Maringiò

Da: http://italian.cri.cn - https://www.marx21.it - Francesco Maringiò, Presidente dell’Associazione italo-cinese per la promozione della Nuova Via della Seta e curatore del libro "La Cina nella Nuova Era, Viaggio nel 19°Congresso del PCC", LA CITTA' SEL SOLE 

Ascolta anche: Alessandra Ciattini intervista Francesco Maringiò - USA vs Cina - La visita di Mike Pompeo in Asia (https://www.spreaker.com/user/11689128/051120-pompeo-in-asia-maringio-online-au?fbclid=IwAR3S2qsE_g9AHuLFXkkvWwlYyfngy76WX8tJKUjnwsHlCl2UEyYQ1lVjk2I)

Leggi anche: La Cina corre... 

- La Nuova Era cinese tra declino Usa e debolezze Ue - 

I rischi della guerra economica Usa-Cina - Vincenzo Comito

La nuova via della seta. Un progetto per molti obiettivi - Vladimiro Giacché

La Cina nel processo di globalizzazione*- Spartaco A. Puttini

Questioni relative allo sviluppo e alla persistenza nel socialismo con caratteristiche cinesi - Xi Jinping

Una teoria del miracolo cinese*- Cheng Enfu, Ding Xiaoqin**

La trappola di Tucidide - Andrea Muratore

"Cina 2013" - Samir Amin

L'Occidente arretrato e l'Oriente avanzato*- Emiliano Alessandroni

Giovanni Arrighi, “Adam Smith a Pechino” - Alessandro Visalli

Cos’è davvero la Cina? - Intervista a Domenico Losurdo

L’economia reale è sulla Via della seta - Pino Arlacchi

Vedi anche: - OLTRE LA GRANDE MURAGLIA. LA CINA E' DAVVERO UN PERICOLO? -

LA CINA SPIEGATA BENE - Michele Geraci

L’Italia e la Cina hanno avviato scambi culturali già dal II sec. a.C.: la prima legazione romana in Cina fu registrata nel 166 a.C., sessant'anni dopo le spedizioni del generale Ban Chao e l’invio di un emissario a Da Qin, esonimo con cui i cinesi indicavano l’impero romano. Questa affascinante storia si è poi arricchita di altre straordinarie gesta che sono diventate leggendarie non solo per la storia dei due paesi, ma per il confronto stesso tra Oriente ed Occidente.

È con questo importante bagaglio storico che quest’anno celebriamo il cinquantesimo delle relazioni bilaterali tra i due paesi. È una tappa importante, che merita non solo di essere approfondita tra gli esperti ma sperimentare una riflessione più vasta, come quella che sta promuovendo questa prestigiosa rivista a cui sono grato per l’invito rivoltomi a svolgere alcune riflessioni.

Possiamo individuare cinque diverse fasi nel rapporto diplomatico tra Italia e Cina: 1) dalla fondazione della RPC allo stabilimento delle relazioni nel 1970, 2) dall’apertura dell’Ambasciata italiana a Pechino ai primi anni ’90, 3) dalla fine della Prima Repubblica in Italia (1992) alla firma della partnership strategica (2004), 4) da questa al 18° Congresso del PCC ed infine 5) la fase attuale, ancora tutta da scrivere.

La prima fase (non ufficiale) delle relazioni ha posto le basi per la normalizzazione dei rapporti ed il riconoscimento della RPC e del suo governo. Sono stati anni importanti di contatti e relazioni che ci danno la percezione del lungo embargo diplomatico a cui è stato sottoposto il gruppo dirigente cinese. Alla Repubblica Popolare in quegli anni veniva negato anche il seggio alle Nazioni Unite (vi entrerà nel 1971). Il riconoscimento italiano ha favorito il percorso di riconoscimento di Pechino nella comunità internazionale.

Con l’apertura dell’Ambasciata d’Italia in Cina (1970) è iniziata per il Belpaese una fase pioneristica di conoscenza e comprensione della realtà cinese, così profondamente cambiata dall’epoca delle concessioni e della terribile esperienza coloniale. Sono stati anni intensi che hanno permesso di cogliere anche la portata delle trasformazioni che la Politica di Riforme ed Apertura aveva cominciato a produrre.

I primi anni ’90 sono stati invece un passaggio di fase molto delicato per l’Italia: lo sgretolamento dei partiti tradizionali ed i cambiamenti internazionali con la fine del mondo bipolare hanno innescato una lunga fase di transizione ed incertezza, con ripercussioni anche nelle relazioni tra i due paesi e relative occasioni mancate ed opportunità perse. La svolta si è avuta con la firma del Partenariato Strategico che ha costruito un meccanismo permanente di dialogo tra Italia e Cina. Questo avvenimento ha incentivato gli investimenti diretti esteri italiani nel paese asiatico (appena entrato nel WTO), migliorando la percezione in patria delle trasformazioni in corso e delle opportunità che si presentavano per la comunità internazionale: sono l’economia ed il commercio a suscitare principale interesse all’estero.

Questa percezione muta con il 18° Congresso del PCC e le riforme adottate: la Cina entra in una fase di “nuova normalità” modificando completamente le direttrici strategiche del suo sviluppo economico, diventa sempre più un attore globale grazie al contributo fornito alla cooperazione internazionale ed alla politica di sicurezza e, non da ultimo, si fa portatrice di una iniziativa globale che, sotto il nome di Belt and Road Initiative, è destinata ad avere un impatto sullo sviluppo di tutta l’area eurasiatica e del mondo intero. Da questo momento la classe dirigente italiana ha capito che non si poteva più restringere il campo della cooperazione bilaterale con la Cina ai soli dossier commerciali e che bisognasse dare vita ad una relazione omnicomprensiva, riguardante tutti gli aspetti centrali della diplomazia, dell’economia e della cultura. È per queste ragioni che i settori più accorti del paese hanno lavorato per giungere alla firma del Memorandum of Understanding del marzo del 2019, attestando l’Italia a primo paese del G7 ad entrare nel club delle nazioni aderenti alla BRI.

Tuttavia questa consapevolezza non è ancora pienamente matura in tutta la società italiana, complice l’assenza di interessi radicati e capaci di strutturare una strategia nazionale condivisa, assieme ad una percezione esatta di cosa sia oggi la Cina contemporanea. Per queste regioni si sente l’esigenza, oggi più di ieri, della nascita di un pensatoio strategico comune tra i due paesi, capace di costruire e sedimentare un insieme di visioni ed esigenze in grado di essere raccolte dalla classe imprenditoriale e politica ed essere trasformate in una proposta strategica di grande visione prospettica.

Mentre si staglia all’orizzonte il pericolo di una recrudescenza delle relazioni internazionali, si apre un nuovo spazio di manovra per paesi che vogliono ambire ad operare attivamente per scrivere un futuro di pace e cooperazione. E l’Italia può ambire ad operare un ruolo importante in questa direzione. Anche per questo abbiamo bisogno che nasca questa fucina di idee, capace di corroborare il lavoro diplomatico ed istituzionale tra due paesi che, per storia e cultura, sono destinati a scrivere pagine importanti di mutua cooperazione e sincera amicizia.

lunedì 21 dicembre 2020

Sulla dibattuta natura della società cinese - Alessandra Ciattini

   Da: https://www.lacittafutura.it Alessandra Ciattini (Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni) insegna Antropologia culturale alla Sapienza di Roma.

Leggi anche: "Cina 2013" - Samir Amin

- La Nuova Era cinese tra declino Usa e debolezze Ue -

La Cina corre...

La nuova via della seta. Un progetto per molti obiettivi - Vladimiro Giacché

La Cina nel processo di globalizzazione*- Spartaco A. Puttini

Una teoria del miracolo cinese*- Cheng Enfu, Ding Xiaoqin**

Giovanni Arrighi, “Adam Smith a Pechino” - Alessandro Visalli

Come usare il capitalismo nell'ottica del socialismo - Deng Xiaoping

Cos’è davvero la Cina? - Intervista a Domenico Losurdo

Il comunismo nella storia cinese: riflessioni su passato e futuro della Repubblica popolare cinese*- Maurice Meisner**

IL VIRUS DELL'OCCIDENTE: la falsa alternativa tra democrazia liberale e sovranismo populistico, ovvero socialsciovinismo. - Stefano G. Azzarà

Vedi anche: LA CINA SPIEGATA BENE - Michele Geraci 

- OLTRE LA GRANDE MURAGLIA. LA CINA E' DAVVERO UN PERICOLO? -

Ascolta anche: L'o-Stato nel capitalismo - con Gianfranco Pala https://www.spreaker.com/user/11689128/lo-stato-nel-capitalismo-con-gianfranco-

 Il sistema economico-sociale cinese è probabilmente una forma di socialismo “di” o “con” mercato, la cui evoluzione può avere esiti diversi.


Scopo di questo articolo non è quello di svelare la natura della società cinese che, come mettono in evidenza Rémy Herrera e Zhiming Long (La Cina è capitalista? “Marx XXI”, 2020), nonostante tante dispute accese tra “esperti”, costituisce a tutt’oggi un “enigma” (p. 32). Più modestamente tenterò di dare conto dei contenuti di questo interessante volumetto, che individua nel sistema economico-sociale cinese elementi socialisti sia pure contraddittori, facendo un rapido parallelo con quanto è sostenuto in un’opera ben più densa, Il socialismo con caratteri cinesi. Perché funziona? di Zhang Boying, curato in italiano da Andrea Catone.

Una prima cosa interessante da mettere in evidenza è che, contrariamente a quanto si sostiene con insistenza in Occidente, lo straordinario sviluppo della Cina, che ne fa il principale oppositore degli Stati Uniti, non è avvenuto quarant’anni fa con l’apertura ai mercati, ma poggia su una civiltà che ha cinquemila anni di storia; inoltre, il ritmo accelerato di crescita del Pil, che ha fatto del paese asiatico “la fabbrica del mondo”, è cominciato prima della morte di Mao (1976), ossia quando il paese presentava tratti più nettamente socialisti (2020: pp. 33-34). [1] Inoltre, esso non è stato prodotto solo dal basso costo della manodopera, come comunemente si sostiene, ma anche dal minore costo delle risorse produttive fornite al sistema economico dalle imprese statali. Pertanto, essi sono bassi perché sotto il controllo statale (p. 67), il quale ha nelle sue mani anche il sistema bancario. 

Occorre anche notare che tale avanzamento industriale ed economico è avvenuto in un contesto internazionale molto difficile, dovuto all’embargo imposto dagli Stati Uniti e dai loro alleati nel 1952, e dalla successiva rottura delle relazioni di collaborazione con l’Unione sovietica (1960), senza scordare l’ormai quasi dimenticata guerra di Corea. Solo nel 1971 viene attribuito alla Cina il ruolo di membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu prima ricoperto da Taiwan, Stato oggi riconosciuto solo da 17 paesi nel mondo. Dopo 15 anni di trattative, nel 2001 la Cina è stata ammessa all’Organizzazione mondiale del commercio, avendo accettato l’importazione di beni e servizi e l’avvio della transizione verso un’economia socialista di mercato.

Per comprendere il percorso intrapreso dall’ex impero celeste per assurgere al ruolo di superpotenza, non bisogna dimenticare il suo più grave problema rappresentato della questione agraria, la quale si pone in questi termini: essa deve nutrire quasi il 20% della popolazione mondiale con meno del 10% delle terre coltivabili disponibili nel nostro pianeta. Problema che è stato affrontato garantendo l’accesso alla terra per i contadini; garanzia che: “rimane, fino ad oggi, il contributo più prezioso dell’eredità rivoluzionaria” (p. 26).

Oggi la speranza di vita in Cina è di 74 anni, nel 2010 il tasso di alfabetizzazione ha raggiunto il 95%, negli ultimi trent’anni il Pil pro capite è quasi quadruplicato, la popolazione quasi raddoppiata, c’è stato un significativo sviluppo del sistema produttivo e delle infrastrutture, importanti avanzamenti si sono registrati anche nell’agricoltura. Le riforme intraprese a partire dal 1978 hanno ridisegnato il volto del paese asiatico al punto che “la natura del suo sistema non può più ormai esser definita in modo semplice, anche se ufficialmente il marxismo-leninismo [2] rimane l’ideologia di riferimento dello Stato” (pp. 28-29). 

I sostenitori del neoliberismo attribuiscono lo straordinario sviluppo della Cina grazie alla sua virata verso il capitalismo, anche se restano profondamente scandalizzati dal fatto che l’organizzazione politica e sociale del paese sta completamente nelle mani del Partito comunista, la cui egemonia non consentirebbe l’emergere della tanto amata democrazia liberale. Invece, i marxisti si trovano in grande disaccordo: chi vede nella Cina un nuovo faro socialista, chi considera il suo sistema “capitalismo di Stato”, chi critica le forti disuguaglianze che la crescita ha comportato.

mercoledì 6 gennaio 2021

Le realtà sul terreno: replica di David Harvey a John Smith

Da: https://traduzionimarxiste.wordpress.com - Link al post originale in inglese roape.net: http://roape.net/2018/02/05/realities-ground-david-harvey-replies-john-smith - 

David Harvey è Distinguished Professor di antropologia e geografia presso il Graduate Center della City University of New York.

Leggi anche: Il neoliberismo è un progetto politico*- B. S. Risager intervista David Harvey

Un dialogo sull’imperialismo: David Harvey e Utsa e Prabhat Patnaik. - Alessandro Visalli

GIOVANNI ARRIGHI prima de IL LUNGO XX SECOLO - Giordano Sivini

IL MARX DI DAVID HARVEY - Giorgio Cesarale


L'articolo oggetto di polemica tra John Smith e David Harvey: Le realtà imperialiste e i miti di David Harvey - John Smith

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John Smith si è perso nel deserto, prossimo a morire di sete. Il suo fidato GPS gli segnala la presenza d’acqua dieci miglia ad Est. Dato che ritiene si debba leggere “dal Sud al Nord globali” al posto di “dall’Oriente verso l’Occidente”, si incammina verso Sud per non essere più visto. Questa, ahimè, è la qualità dei rilievi che mi rivolge. 

L’Oriente di cui parlo quando osservo che la ricchezza si è spostata, in tempi recenti, da Occidente verso Oriente è costituito dalla Cina, oramai la seconda economia più grande al mondo (laddove si consideri l’Europa un’unica economia) seguita al terzo posto dal Giappone. Si aggiunga Corea del Sud, Taiwan e (con una certa licenza geografica) Singapore e ci si trova di fronte ad un potente blocco nel contesto dell’economia globale (talvolta identificato come modello di sviluppo capitalistico delle “oche volanti”), il quale rappresenta, al momento, circa un terzo del PIL globale (rispetto al Nord America, che conta ora solo per poco più di un quarto). Se guardiamo indietro a come era configurato il mondo, diciamo per esempio nel 1960, allora l’incedibile crescita dell’Asia orientale come centro di potere dell’accumulazione globale di capitale appare in tutta la sua evidenza. 

Cinesi e Giapponesi posseggono ormai enormi fette del sempre crescente debito USA. Vi è stata anche un’interessante sequenza, in cui ogni economia nazionale dell’Asia orientale si è attivata alla ricerca di un fix spaziale per le massicce quantità di capitale eccedente, accumulate all’interno dei rispettivi confini. Il Giappone ha iniziato a esportare capitale alla fine degli anni Sessanta, la Corea del Sud alla fine dei Settanta e Taiwan nei primi Ottanta. Non poco di tale investimento è andato verso il Nord America e l’Europa. 

Adesso è il turno della Cina. Un mappa degli investimenti esteri cinesi nel 2000 appariva vuota. Ora la loro ondata sta attraversando non solo la “Nuova via della seta”, lungo l’Asia centrale in direzione dell’Europa, ma anche l’Africa orientale, in particolare, e sino all’America Latina (più della metà degli investimenti esteri in Ecuador proviene dalla Cina). Quando la Cina ha invitato leader da tutto il mondo a partecipare, nel maggio del 2017, alla conferenza della Nuova via della seta, oltre quaranta fra loro sono venuti ad ascoltare il presidente Xi enunciare quello che molti hanno visto come l’esordio un nuovo ordine mondiale, nel quale la Cina dovrebbe essere una (se non la) potenza egemone. Questo significa che la Cina è la nuova potenza imperialista? 

Si possono individuare delle interessanti micro-caratteristiche in tale scenario. 

sabato 16 novembre 2019

GIOVANNI ARRIGHI prima de IL LUNGO XX SECOLO - Giordano Sivini

Da: http://www.palermo-grad.com - giordano sivini (Trieste 1936) è stato professore di sociologia politica presso la Facoltà di Economia dell'Università della Calabria.
Vedi anche: Giovanni Arrighi, “Adam Smith a Pechino” - Alessandro Visalli 

La forza strutturale della classe per superare lo stallo prodotto dal marxismo tradizionale 

Per Giovanni Arrighi ne Il lungo XX secolo [1l’evoluzione storica del capitalismo è caratterizzata dal progressivo ampliamento dell’area di accumulazione del capitale, dalle città-stato dell’Europa continentale al mondo quale è oggi, attraverso cicli sistemici, governati ciascuno da Stati che hanno avuto funzioni egemoniche, in fasi successive di espansione materiale e di espansione finanziaria. L’espansione materiale è il risultato di attività che mettono in movimento una crescente massa di merci, forza lavoro inclusa, producendo profitti. Quando i profitti calano a causa della crescente competizione tra i capitali, invece di essere reinvestiti fluiscono in forma liquida da tutto il sistema verso gli istituti finanziari alimentando l’espansione finanziaria. La capacità egemonica si indebolisce e gli altri Stati del sistema cercano di appropriarsene per orientarla verso nuovi orizzonti produttivi, finché emerge uno che, concentrando potenza economica e militare, diventa il perno di una nuova configurazione egemonica. 


Arrighi definisce i cicli in termini di D-M-D’, entro il quale D-M è la fase di espansione economica e M-D’ quella di espansione finanziaria, così che il capitalismo può essere configurato come dominio del valore su aree di accumulazione di crescente ampiezza. L’obiettivo è di capire come si concluda al momento della sua massima espansione. Su questo terreno l’attività scientifica di Arrighi si sviluppa dopo l’abbandono di una diversa prospettiva epistemologica, basata sul rapporto antagonistico tra capitale e lavoro. 

Nei primi anni ’70, direttamente coinvolto nelle lotte operaie, aveva prodotto il concetto di forza strutturale della classe, che è rimasto centrale nei suoi lavori fino alla fine degli anni ’80, quando, constatando l’incapacità del marxismo del movimento operaio di leggere le trasformazioni strutturali del capitalismo e percependo che l’omogeneità di classe si sta disgregando, viene a trovarsi in un cul de sac. Fino ad allora orientata a verificare le potenzialità di una trasformazione del mondo in senso socialista, la ricerca si sposta sulle possibilità di superamento del capitalismo attraverso l’analisi della sua evoluzione storica, “Una volta spostato il centro d’attenzione nella definizione di capitalismo verso un’alternanza di espansione materiale e finanziaria, diventa molto difficile mantenere il lavoro dentro il modello” [2].

Rileggere i lavori di Arrighi sulla lotta di classe e le prospettive socialiste contribuisce perciò ad evidenziare la diversità di prospettiva epistemologica e politica rispetto alla teoria dei cicli sistemici e ad interrogarsi sulle ragioni della svolta, dopo la quale – constata amaramente John Saul, che di Arrighi è stato compagno di lotte in Africa – “non viene più menzionato, neppure una sola volta, il ‘socialismo’ come un possibile antidoto alla stretta mortale del capitalismo occidentale sul Sud globale” [3].

domenica 25 ottobre 2020

IL MARX DI DAVID HARVEY - Giorgio Cesarale

Da: http://filosofiainmovimento.it - Giorgio Cesarale,  IL MARX DI DAVID HARVEY, Filosofia e capitalismo. Hegel, Marx e le teorie contemporanee, Cap. 6,  manifestolibri, Roma 2012, pp. 95-106 - Giorgio Cesarale è Professore Associato di Filosofia Politica presso il Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali di Ca’ Foscari - Università di Venezia. 

Leggi anche: Il neoliberismo è un progetto politico*- B. S. Risager intervista David Harvey

David Harvey e l’accumulazione per espropriazione

Introduzione al Manifesto del Partito Comunista*- David Harvey**

Un dialogo sull’imperialismo: David Harvey e Utsa e Prabhat Patnaik. - Alessandro Visalli

Le realtà imperialiste e i miti di David Harvey - John Smith 


Urbanesimo e capitalismo


Della ampia e stratificata opera di David Harvey, di questa singolare figura che si colloca a metà fra urbanistica e teoria sociale, si conosce ormai molto, vista la larga circolazione ottenuta da libri come La crisi della modernità, La guerra perpetua e Breve storia del neoliberismo. Meno conosciuta, tuttavia, è la sua attenta e proficua ricerca sul Capitale marxiano; ricerca che è, peraltro, alla base delle tesi sostenute nelle opere appena menzionate. Ciò che in prima battuta ci proponiamo in questo articolo è di esporre le linee fondamentali di questa ricerca, valutandone meriti e specificità. In conclusione, cercheremo di dire in quale direzione la rilettura del Capitale compiuta da Harvey ha influenzato il corso delle sue più recenti indagini teoriche. 

Della ermeneutica marxiana di Harvey si può dire che è peculiare anzitutto l’ispirazione generale: nessun autore, fra coloro i quali hanno recentemente provato a riattivare il contenuto problematico della critica marxiana dell’economia politica, è stato più fermo di lui nel rivendicare l’esigenza che sia sul terreno della analisi della crisi e delle “contraddizioni” del capitalismo che debba essere verificata la validità teorica di tale critica. Si tratta di un approccio che, pur comportando una certa riduzione della molteplicità di temi e “aperture” problematiche che Marx è venuto promuovendo nella sua matura critica dell’economia politica, non determina una incongrua dogmatizzazione del dettato testuale marxiano: il Capitale è anzi considerato come una sorta di cantiere a cielo aperto, come un testo pieno di “empty boxes”, che occorre riempire di significati e contenuti. 

Una operazione di questo tipo non è peraltro rara nell’ambito del pensiero marxista contemporaneo: anche il filosofo francese Jacques Bidet, per esempio in Explication et reconstruction du Capital (PUF, Paris 2007), muove dall’ obiettivo di ripensare il Capitale a muovere dai “vuoti” del Capitale stesso. Tuttavia, mentre Bidet prova a riformulare il passaggio dalla sfera della circolazione a quella della produzione, quindi opera quasi esclusivamente all’interno del I libro del Capitale, Harvey lavora soprattutto sul raccordo fra I, II e III libro della stessa opera. La questione centrale è cioè quella della ricostruzione del nesso fra l’analisi del processo di produzione, contenuta nel I libro, e quelle del processo di circolazione (II libro) e di distribuzione del plusvalore fra le diverse classi sociali (III libro). Se si vuole ricollegare Marx con il paesaggio sociale e politico novecentesco e post-novecentesco – questo il proposito di Harvey – il contenuto del I libro non è sufficiente, ed ha anzi esiti fuorvianti. 

giovedì 14 maggio 2020

Proletari di tutto il mondo, la vera pandemia è la disuguaglianza - Pasqualina Curcio

Da: https://contropiano.org - Pasqualina Curcio è Economista e Professoressa all’Universidad Simón Bolívar (Venezuela).
Leggi anche: - PRIVILEGIO DI CLASSE: IN QUARANTENA A SPESE DEGLI ALTRI - 
                         Virus, emergenza e disciplinamento sociale - Pier Franco Devias 
                         Un dialogo sull’imperialismo: David Harvey e Utsa e Prabhat Patnaik. - Alessandro Visalli 

Non è del tutto vero che il Covid-19 non distingue nel momento in cui colpisce e, soprattutto, uccide. È possibile che biologicamente non ci siano differenze di colore della pelle, età, o sesso; in ogni caso sono studi che dovranno essere condotti con attenzione una volta che si dispone del dettaglio dei casi di infetti e morti, ma differenze e disuguaglianze per combattere la pandemia e non morire nel tentativo, infatti, ci sono.

Non è lo stesso il rischio di contagio che si assume il fattorino dell’azienda di Amazon, che deve uscire a lavorare ogni giorno perché altrimenti i suoi figli andranno a letto senza mangiare, al rischio che si assume il proprietario della stessa azienda, che essendo socialmente molto ben distante nella sua villa, è in cima alla lista Forbes con un patrimonio di 138 miliardi di dollari.

Non è la stessa cosa passare la quarantena come cassiere di Walmart, con tutto il rischio di contagio che questo comporta, e con uno stipendio che non potrebbe essere sufficiente a pagare un test Covid-19, che passare il distanziamento fisico come uno degli azionisti della citata catena di negozi: il numero 13 della lista Forbes 2020 con 54 miliardi di dollari di patrimonio.

Non è lo stesso combattere il Coronavirus senza un pezzo di pane da mangiare perché, essendo un lavoratore dipendente e senza la capacità di risparmiare, sei stato licenziato perché l’azienda transnazionale dove lavori ha dovuto chiudere a causa della quarantena, o essere il proprietario borghese della filiale.

Non è lo stesso sopravvivere alla pandemia vivendo per strada, senza un riparo permanente, senza dover mangiare, senza lavoro e senza stipendio, o come appartenenti all’1% della popolazione mondiale che si appropria dell’82% della ricchezza (Oxfam, 2019).

Il vero male che oggi si sta diffondendo in tutto il mondo e che attacca l’umanità è la disuguaglianza, a sua volta conseguenza di un sistema predatorio di produzione e distribuzione attraverso il quale la borghesia, proprietaria del capitale, con la complicità degli Stati che partecipano minimamente alle economie e applicano il laissez faire, si è appropriata sempre più dello sforzo del lavoratore salariato. Un sistema che, quindi, genera sempre più povertà e che oggi, in tempi di Coronavirus, diventa sempre più evidente.

Affrontare l’assalto della pandemia di Coronavirus in condizioni di povertà è ovviamente più difficile. Oggi, 3,7 miliardi di persone nel mondo sono poveri, cioè la metà della popolazione. 

Ci siamo chiesti perché ci sono così tanti poveri nel mondo, o crederemo al discorso egemonico del capitalismo che dice che i poveri sono poveri perché non lavorano abbastanza, non fanno uno sforzo, non sono produttivi, sperperano il loro salario, e quindi sono loro stessi responsabili della loro condizione di povertà?

Guardiamo alcune cifre e smontiamo questa menzogna.