Da:
https://tempofertile.blogspot.com/
AlessandroVisalli è
architetto e dottore di ricerca in pianificazione urbanistica; si
occupa di ambiente ed energie rinnovabili. https://www.facebook.com/alessandro.visalli.
Leggi
anche:
Samir
Amin: “La crisi” - Alessandro Visalli
Gli
USA e il Pacifico - Dario Fabbri
Questo
testo chiude il percorso e la trilogia di studi sui “sistemi-mondo”,
a pochi mesi dalla morte dell’autore, e ne è sia un seguito sia
una rielaborazione. Il tema chiave è il tentativo, compiuto
dall’amministrazione Bush, di reagire alla minaccia di declino che
si era presentata sin dalla crisi sistemica degli anni settanta con
una forte proiezione imperiale in grado di aprire un nuovo “secolo
americano”, essenzialmente tramite il controllo diretto, manu
militari, delle regioni chiave per le economie industrializzate. Come
si dice sinteticamente, “guerre per il petrolio”, ma in realtà
“guerre per il mondo”.
Il primo tema è dunque il lancio, prima,
ed il fallimento, poi, di questo progetto di “dominio senza
egemonia”.
Il
secondo è l’affermazione, o meglio il ritorno, della Cina in
posizione centrale nel mondo.
Questo
tema, la rinascita economica dell’oriente asiatico, è l’effetto
di una serie ininterrotta di “miracoli” economici: il Giappone,
la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapore, la Malaysia, la
Thailandia, infine la Cina.
Ma
l’oriente asiatico, in ombra nella prima parte del secolo scorso
(anche se il Giappone già fa eccezione), non era sempre stato
considerato una parte sottosviluppata del mondo. In effetti ancora
Adam Smith, nel settecento, ne aveva un’immagine altamente
positiva. In particolare della Cina come del centro sviluppato del
mondo e del luogo di maggiore ricchezza, se pur connotato da una
forte stabilità. Questa immagine degrada molto rapidamente durante
l’ottocento, e alla fine della seconda guerra mondiale la Cina era
arrivata ad essere ormai una delle nazioni più povere del mondo.
Una
situazione che inizia a cambiare di nuovo quando negli anni sessanta
in Vietnam gli Stati Uniti alla fine sono sconfitti e devono scendere
a patti; è da allora che accelera e prende sempre più forza quello
che alcuni hanno chiamato “l’arcipelago capitalista”
nell’oriente asiatico.
Il
libro di Arrighi, come lo stesso titolo mostra, utilizza una lettura
non convenzionale del capolavoro di Adam Smith “La
ricchezza delle nazioni” per
interpretare il particolare tipo di mercato impiantato con enorme
successo in Cina come “non capitalista” e continuo alla lunga
tradizione del paese. Smith, del resto, sperava che potesse
impiantarsi una società di mercato globale basata su una maggiore
equità e rispetto per le diverse aree mondiali di civiltà; una
società non fondata sulla forma a suo dire “innaturale” di
sviluppo che il mercantilismo della sua epoca stava impiantando.
Secondo il modo di leggere il filosofo morale (la sua prima
specializzazione)
scozzese che propone Arrighi questi non è stato affatto un teorico
dello sviluppo capitalistico, o il suo difensore. Smith intendeva i
mercati come strumento di controllo e di governo dell’avidità e
ciò riveste importanza per comprendere le economie di mercato non
capitaliste, come quella cinese prima che venissero incorporate in
posizione subalterna nel sistema globalizzato di stati guidato
dall’Europa.
Ma
cosa è “un’economia di mercato socialista”, che si
vorrebbe creare in Cina, e cosa, invece, la “economia di mercato
elitaria” (secondo la denuncia di Liu Guoguang nel 2006) che si
rischia di creare? Tra il “socialismo con elementi cinesi” dei
discorsi ufficiali e la realtà di capitalismo selvaggio che si
registra spesso c’è, per Arrighi, un vasto lavoro da fare, nelle
lotte del popolo cinese e nella sistemazione delle idee. Questo
secondo compito, ambizioso, è quello che si dà.
Adam
Smith e la nuova era asiatica
Il
libro prende le parti dunque di una sorta di “marxismo
neosmithiano” che lavora entro la frattura, ben ricordata nelle
prime pagine, tra il marxismo de “Il Capitale”,
concentrato sullo sviluppo delle forze produttive nei centri più
avanzati e che assegna ai relativi lavoratori il compito di guida in
quanto testimoni della maggiore contraddizione, e quello delle
periferie del mondo, concentrato sulla questione del potere e della
lotta nazionale di liberazione.
Come
scrive Arrighi: “Non ci sono dubbi sulla distanza che separa la
teoria del sistema capitalistico di Marx dal marxismo di Castro,
Amilcar Cabral, Ho Chi Min, o Mao Zedong, una distanza che si poteva
superare solo con un atto di fede nell’unità storica del movimento
marxista” (p.32). Un tema fondamentale, recentemente ripreso con
grande energia da Domenico Losurdo.
Questa
frattura, continua, Arrighi:
“fra
marxisti essenzialmente interessati all’emancipazione del Terzo
Mondo dall’eredità dell’imperialismo neocoloniale e marxisti che
si preoccupavano principalmente dell’emancipazione della classe
operaia. Il problema era che se Il
Capitale avesse
rappresentato effettivamente un’adeguata chiave di lettura del
conflitto di classe, i presupposti di Marx a proposito dello sviluppo
capitalistico su scala mondiale non sarebbero sembrati reggere a
un’analisi empirica. I presupposti di Marx richiamano molto più la
tesi del ‘mondo piatto’ che Thomas Friedman è andato diffondendo
negli ultimi anni.” (p.33)