I. Con la disfatta storica del movimento
operaio, la parola ‘imperialismo’ è scomparsa dal vocabolario della sinistra ed
è stata rimpiazzata da ‘globalizzazione’. Tuttavia, se la parola è scomparsa,
la realtà persiste.
Vediamo prima di tutto cosa non è l’imperialismo. Prendiamo
ad esempio la nozione di Impero di Toni Negri. Ho scritto una lunga critica di
Impero in un mio libro recente (Behind the Crisis). Qui posso solo menzionare
telegraficamente alcuni dei punti chiave di Impero senza aver la pretesa di dare
una valutazione anche minimamente completa .
Nell’Impero di Negri, mentre l’imperialismo era
un’estensione della sovranità degli stati europei oltre i loro confini
nazionali, ora l’Impero è un network globale di potere e contro potere senza un
centro (p. 39). Quindi gli Stati Uniti non formano, e nessuno stato può
formare, il centro di un progetto imperialista (p.173). Gli Stati Uniti
intervengono militarmente nel nome della pace e dell’ordine (p.181).
Ma è ovvio
(1) che il ruolo degli stati non stia scomparendo, anche se
come vedremo, alcuni sono inglobati in blocchi imperialisti
(2) che la nozione di potere e contropotere ignora che il
potere delle nazioni dominanti non è lo stesso potere delle nazioni dominate
(3) che l’imperialismo, lungi dallo scomparire si sta
trasformando pur rimanendo essenzialmente lo stesso
(4) che poi gli USA intervengano militarmente per mantenere
la pace, è un’affermazione che glorifica e giustifica quell’imperialismo di cui
Negri nega l’esistenza.
Consideriamo allora una persona più seria, Lenin. Posso solo
soffermarmi solo su alcuni aspetti economici. Il suo testo sull’Imperialismo,
anche se vecchio di un secolo, per alcuni versi è ancora attuale, anche se
ovviamente deve essere aggiornato.
Prima di tutto, si noti che per Lenin, l’ultimo stadio del
capitalismo significa il più recente stadio, lo stadio in cui le potenze
coloniali hanno completato la suddivisione del mondo in colonie e non nel senso
che dopo di esso non ve ne sono altri. Quindi non nel senso che ulteriori suddivisioni
siano impossibili. Per Lenin le suddivisioni sono non solo possibili ma anche
inevitabili. Vecchi paesi coloniali vengono affiancati o rimpiazzati da nuovi
paesi coloniali e le colonie possono passare dal dominio di un paese coloniale
ad un altro.
Per Lenin la caratteristica principale del più recente
stadio dello sviluppo capitalista è il dominio delle associazioni
monopolistiche del grande capitale, quelle che oggigiorno si chiamano
multinazionali. Gli stati sono necessari per difendere e promuovere gli
interessi delle multinazionali attraverso tutta una serie di politiche, anche
militari. Ovviamente i due ordini di interessi non sono sempre convergenti. Per
Lenin gli interessi dei paesi imperialisti sono principalmente l’esproprio di
materie prime. L’esempio attuale più macroscopico è oggigiorno il petrolio. Ma
la caccia alle materie prime non è il solo motivo del dominio coloniale. Lenin
menziona anche un altro aspetto, che è di grande importanza anche e soprattutto
oggigiorno. Egli evidenzia che non vi sono solo due gruppi di nazioni, i paesi
coloniali e le colonie stesse. Vi sono anche nazioni che, pur essendo
politicamente indipendenti, sono invischiate in una rete di dipendenza
finanziaria. Lenin le chiama semi-colonie finanziarie e commerciali. La
dipendenza finanziaria dei paesi debitori nei confronti dei paesi creditori è
particolarmente evidente nella situazione attuale in cui il debito privato, del
sistema finanziario e dello stato si accumulano e raggiungono livelli mai
visti.
Allora che cos’è l’imperialismo? Se ci limitiamo
all’aspetto economico, che è poi quello determinante, l’imperialismo è la
concorrenza capitalista portata a livello internazionale. Il suo scopo è
l’appropriazione da parte dei capitalisti della nazione imperialista della
ricchezza e del valore dai capitalisti delle nazioni dominate. Questi a loro
volta lo estorcono dai propri lavoratori. La caratteristica fondamentale
dell’imperialismo non è il dominio del capitale finanziario su quello
produttivo. Questa è la tesi della finanziarizzazione. Il settore determinante
dell’andamento dell’economia è quello produttivo di valore e plusvalore. Il
settore finanziario sorge dalle contraddizioni inerenti al settore produttivo e
i suoi profitti sono detrazioni dai profitti generati dal settore produttivo.
Vi sono tre forme di appropriazione di ricchezza. C’è la
violenza bruta, come invasioni, guerre, ruberie, ecc. Poi c’è e
l’appropriazione attraverso il sistema finanziario. E poi c’è anche una terza
forma di appropriazione di ricchezza, quella che opera attraverso la
competizione tecnologica. Essa è ancora più importante oggigiorno quando lo
sviluppo tecnologico assume ritmi sempre più frenetici.
Per capirla, partiamo dalla premessa, che può essere
dimostrata anche empiricamente, che solo il lavoro vivo genera valore. Le
innovazioni tecnologiche rimpiazzano lavoro con mezzi di produzione. Il
capitalista innovatore aumenta il suo prodotto ma se il prodotto è generato con
meno lavoro, il valore del maggiore prodotto è minore. Invece gli altri
capitalisti con tecnologie meno avanzate producono un output minore ma con più
lavoro e quindi con più valore incorporato. Siccome i prodotti dei vari
capitalisti entro un dato settore vengono venduti più o meno allo stesso prezzo
ad altri settori, i leader tecnologici si appropriano di una parte del
plusvalore generato dai capitalisti tecnologicamente arretrati. Il tasso di
profitto dei primi cresce a scapito di quello dei secondi. E il tasso medio di
profitto scende. Come dice Marx, il tasso di profitto cala non perché il lavoro
è meno produttivo ma perché è più produttivo e cioè perché la maggiore
produttività è l’altra faccia della stessa medaglia, la diminuzione della forza
lavoro e quindi del valore incorporato.
Possiamo ora distinguere tre tipi di rapporti imperialisti.
Nel colonialismo tradizionale
(1) le colonie forniscono le materie prime alle nazioni
colonizzatrici da cui importano prodotti finiti, e
(2) a causa di questo rapporto, nelle colonie non vi è un processo
rilevante di sviluppo capitalista e di diversificazione dell’economia.
Nell’imperialismo moderno, vi può essere nei paesi dominati
uno sviluppo economico capitalista, con conseguente diversificazione e
accumulazione del capitale. Tuttavia questo è uno sviluppo dipendente nel senso
che
(1) il capitale nei paesi dominati adatta la sua produzione
e attività economiche ai bisogni del centro imperialista e diversifica la sua
struttura interna secondo questi bisogni
(2) il centro esporta ai paesi dominati quello di cui i
paesi dominati hanno bisogno ma soprattutto quello di cui hanno bisogno (per
esempio, infrastrutture) affinché questo rapporto di dominazione possa
continuare
(3) il centro esporta ai paesi dominati anche tecnologie
relativamente avanzate, ma non le più moderne, in modo da trasferire plusvalore
verso il centro e di mantenere una dipendenza tecnologica
(4) data questa dipendenza tecnologica, i paesi dominati
debbono far ricorso a salari più bassi relativamente a quelli del centro e/o
alla svalutazione della loro moneta.
Quindi, l’essenza della relazione di dominio imperialista è
che alcuni paesi, i paesi dominanti, espropriano ricchezza e plusvalore dai
paesi dominati che sono dominati in quanto espropriati di valore e ricchezza.
Quindi si può parlare di paesi espropriatori e paesi espropriati di valore e
plusvalore e quindi di capitali espropriatori e capitali espropriati.
Ma la situazione non è statica nel senso che una nazione
dominata non è condannata a rimanere tale. Una nazione dominata può tentare di
liberarsi da questo rapporto di domino imperialista per diventare essa stessa
un paese imperialista. Questi sono i cosiddetti paesi emergenti. Essi, cioè i
loro capitalisti, stanno tentando di rompere la propria dipendenza e cioè di
bloccare l’esproprio di plusvalore. Il loro scopo è l’introduzione di
tecnologie alla pari di quelle dei paesi dominanti, di differenziare la propria
economia e di accumulare capitale.
Le singole nazioni che tentano di rompere la loro dipendenza
possono non avere le necessarie dimensioni. Esse quindi devono raggruppare
attorno a se altre nazioni in un rapporto di dominio e cioè devono formare
blocchi imperialisti articolati al loro interno che si contrappongano ad altri
blocchi imperialisti. All’interno di un blocco imperialista vi è un paese
dominante e altri paesi dominati in una gerarchia di efficienza. Il paese
dominante è quello il cui capitale ha un livello tecnologico superiore a quello
degli altri paesi. Esso cresce alle spese dei paesi dominati all’interno del
blocco attraverso l’espropriazione del loro plusvalore che a sua volta è il
risultato di un più alto livello di sviluppo tecnologico. Poi, questo blocco
nel suo insieme, così come i paesi che lo compongono, compete con altri blocchi
imperialisti, con le nazioni che li compongono e con paesi al di fuori di tali
blocchi. Ciò non esclude che i blocchi imperialisti possano cooperare quando
sia loro interesse fare ciò.
Quindi oggigiorno vi sono tre tipi di rapporti imperialisti:
(a) tra paesi colonizzatori e paesi colonizzati (b) tra paesi dominanti e paesi
dominati ma incapaci di sfidare i paesi dominanti e (c) tra paesi dominanti e i
paesi che sfidano il loro dominio anche se non hanno ancora raggiunto un posto
tra i paesi dominanti. I paesi dominanti non esitano a ricorrere ad una varietà
di strategie, comprese le guerre, sia per l’appropriazione di materie prime
sia per evitare che altri paesi escano dalla loro situazione di
dipendenza. Ma questo è un argomento che non posso trattare qui.
Ovviamente, quando si parla di paesi non ci si riferisce
entità giuridiche. In prima istanza ci si riferisce alle classi sociali che li
formano. Quando si parla di paesi dominanti, ci si riferisce ai grandi capitali
in quei paesi.
La UE si colloca in questo contesto. Al suo interno vi è un
paese, la Germania e quindi il grande capitale tedesco, che è dominante
relativamente agli altri paesi all’interno del blocco e che quindi succhia
plusvalore dai capitali meno efficienti i quali a loro volta lo hanno succhiato
dai lavoratori. Ma la UE sfida anche altri blocchi, per esempio gli USA,
attraverso misure comuni al suo interno come l’Euro. Questo è un punto chiave
su cui ritornerò.
II. Fin qui l’analisi è stata poco di più di un succinto
riassunto di elementi già noti. Ora, però, vorrei introdurre una linea di
ricerca che penso che sia poco nota in Italia. È portata avanti da un numero
sempre più folto di ricercatori. Come ben saputo, l’indicatore dello stato di
salute di un’economia capitalista non sono i profitti ma il tasso di profitto,
i profitti sugli investimenti. Vediamo cosa determina l’andamento del tasso di
profitto. L’economia capitalista si basa essenzialmente sulla competizione
tecnologica, sull’introduzione di sempre più nuove ed efficienti tecnologie.
Come ho già accennato, esse da una parte rendono il lavoro umano più
produttivo, cioè i lavoratori creano sempre di più prodotti con una data
dotazione di mezzi di produzione. Dall’altra i nuovi mezzi di produzione
rimpiazzano forza lavoro. Sempre meno lavoratori producono un numero sempre
maggiore di prodotti. Questo è Marx. Consideriamo se i fatti empirici gli danno
ragione.
Grafico 1. Produttività e occupazione, settori
produttivi, Stati Uniti
Fonte: mie elaborazioni
Nel grafico 1, la linea blue è il prodotto per lavoratore. Cresce da circa 500 milioni di dollari (deflazionati) nel 1947 a circa 4300 milioni nel 2010. La linea rossa è il numero di lavoratori per unità di mezzi di produzione. Scende da circa 76 lavoratori per milione di dollari (deflazionati) a 6 lavoratori nello stesso periodo. Il grafico 1 mostra che un output crescente è prodotto da un numero sempre minore di lavoratori. In un’altra società, ciò sarebbe una benedizione. Diventa una maledizione nell’ambito dei rapporti di produzione capitalisti.
Come ho menzionato prima, dato che solo il lavoro genera valore e plusvalore, se il lavoro cade, cade il plusvalore generato per unità di capitale investito, cioè il numeratore del tasso di profitto. Allo stesso tempo crescono i mezzi di produzione per unità di capitale investito, cioè il denominatore del tasso di profitto. Il tasso di profitto scende. Il grafico 2 dimostra che lo stato di salute degli USA è in continuo deterioramento fin dalla fine della seconda guerra mondiale. Questo grafico evidenzia la relazione tra la caduta tendenziale del tasso di profitto e il numero di lavoratori (sui mezzi di produzione). Essi vanno di pari passo
Grafico 2. Tasso di profitto medio e rapporto
tra lavoro e mezzi di produzione, settori produttivi degli Stati Uniti
Fonte: mie elaborazioni
Un numero sempre crescente di studi sta dimostrando che il
movimento dell’economia statunitense è solo un esempio del movimento del
capitalismo mondiale, anche se l’economia statunitense ha le sue
caratteristiche derivategli dalla sua posizione egemone
Grafico 3. Tasso di profitto medio dei paesi del centro 1869-2010
Fonte: Michael Roberts, The World in Crisis, curato da G.
Carchedi e Michael Roberts, Zero Books, di prossima pubbblicazione.
I grafici 2 e 3 mostrano la caduta secolare del tasso di
profitto. Questo dato è di estrema importanza per quattro motivi.
Primo, la caduta di lungo periodo del tasso di profitto è il
sostrato da cui emergono regolarmente le crisi sia economiche che finanziarie e
quindi disoccupazione, povertà, guerre, ecc. Questa caduta è anche il fattore
che ci permette di prevedere che le crisi continueranno fino a quando
sussisterà un’economia basata sulla produzione per e di plusvalore, cioè per e
di profitti.
Secondo, la caduta secolare del tasso di profitto è
essenziale anche per capire dove va l’imperialismo perché essa colloca la lotta
inter-imperialista in una sempre maggiore debolezza del sistema mondiale, cioè
la crescente difficoltà di estorcere plusvalore relativamente al capitale
investito.
Terzo, questo significa che i margini di manovra per le
politiche redistributive a favore del lavoro si restringono sempre di più. La
teoria della caduta del tasso di profitto esclude tale possibilità, più he mai
nella situazione attuale. È per questo che è attaccata non solo dall’economia
convenzionale ma anche dai Keynesiani e anche da Keynesiani in abiti Marxisti.
La lotta per migliori condizioni di vita e di lavoro è sacrosanta, ma non
nell’ottica riformatrice, Keynesiana. Piuttosto, si deve combattere per le
riforme perché esse contribuiscono ulteriormente all’indebolimento del capitale
e rendono più facile il suo superamento e non perché le riforme dovrebbero
farci uscire dalla crisi.
Quarto, nel quadro della caduta secolare del tasso mondiale
di profitto, la lotta imperialista non può che diventare più acuta e le crisi,
essendo la manifestazione della crescente debolezza del sistema, non possono
che diventare sempre più gravi e distruttive. Le potenze imperialiste sono come
lupi affamati che si contendono la preda. La preda non sono solo le colonie ma
anche il plusvalore prodotto nel mondo intero. Ma la preda diventa ogni volta
più piccola e la lotta più feroce.
III. Se questo è il quadro generale in cui si
muove la lotta imperialista, perlomeno nel mondo occidentale, le manifestazioni
dei rapporti di dipendenza sia tra blocchi imperialisti che al loro interno
dipendono dalle situazioni specifiche, storicamente determinate. Un strumento
relativamente recente di tale lotta è l’euro.
Fin dall’inizio, lo scopo del progetto europeo è stato
quello di creare un blocco in grado di controbilanciare il potere economico
degli USA. Una delle condizioni era la creazione di una moneta unica che
diventasse la rivale del dollaro. Questa non era solamente o anche principalmente
una questione politica. Era soprattutto una questione economica. Quello che era
in gioco era, ed è, il signoraggio. Vediamo che cos’è.
Dal 1971, una grossa quantità di dollari dei dollari che gli
USA hanno pagato per le loro importazioni non viene usata dagli altri paesi per
importare beni statunitensi. Questi dollari sono usati da altre nazioni come
valuta di riserva internazionale o come mezzo di pagamento sui mercati
internazionali. In tal modo gli USA importano beni e danno in cambio denaro che
non viene usato da altri paesi per importare beni statunitensi. Questi dollari,
finche non vengono usati per importare beni statunitensi, rimangono carta senza
valore intrinseco. Per i detentori di dollari, questo è valore potenziale che
non si realizza. Questa situazione dura da 45 anni. In breve, gli USA si
appropriano del valore importato e prodotto da altre nazioni per un ammontare
di circa il 6% del loro PIL.
Grafico 4. Bilancia commerciale degli USA come
percentuale del PIL
Questo è il signoraggio, l’appropriazione di valore prodotto
da altre nazioni da parte della nazione la cui moneta è il mezzo di pagamento e
di riserva internazionale e cioè la moneta della nazione economicamente
dominante, gli USA.
Ma il signoraggio è minacciato nella misura in cui gli USA perdono la loro posizione economicamente dominante. L’Euro nasce come il rivale del dollaro per contrastarne il signoraggio. Per capire l’Euro, consideriamo il suo precursore, l’ECU.
L’ECU era composto da 9 monete. Il valore dell’ECU era stabilito relativamente al dollaro. Il valore dell’ECU era determinato in conformità a due fattori. Primo, ogni moneta contribuiva per una determinata percentuale alla composizione dell’ECU. Secondo, ogni moneta contribuiva al valore dell’ECU secondo il suo tasso di cambio col dollaro al momento della costituzione dell’ECU, il 1 dicembre 1978. La sommatoria di tutte le monete dava il tasso di cambio di 1 dollaro = 1.3 ECU. Ora, il peso maggiore fu dato al marco tedesco, la moneta forte perché, essendo l’espressione di una economia forte che era in grado di esportare sulla base della propria alta produttività, non era soggetta a svalutazione. Alla Germania fu dato un peso del quasi 33% del valore dell’ECU. Ad altre valute fu dato un peso molto minore. All’Italia, per esempio fu dato un peso 9,8%.
Dopo la sua costituzione, il valore (ma non la composizione)
dell’ECU cambiava nei confronti del dollaro secondo le variazioni del tasso di
cambio delle singole monete. Se una moneta si rivalutava nei confronti del
dollaro, il valore dell’ECU nei confronti del dollaro aumentava. Vice versa se una
moneta si svalutava. Ma se una moneta con una grossa percentuale nel valore
dell’ECU si rivalutava e un’altra moneta con un bassa percentuale si svalutava,
l’ECU si rivalutava. Siccome il marco tedesco si rivalutava continuamente,
anche l’ECU si rivaluta. Si vede quindi come l’ECU fosse concepito già fin
dall’inizio come una moneta forte anche se virtuale e riflettesse gli interessi del capital tedesco più di quelli
di altri capitali europei più deboli. L’ECU era l’espressione quantitativa del
dominio tedesco nel progetto europeo.
Quando l’ECU fu trasformato nell’Euro sulla base di 1 ECU =
1Euro, l’Euro nacque come moneta forte relativamente al dollaro, come un rivale
del dollaro per la lotta per il signoraggio. L’Euro fu fin dall’inizio
l’espressione del settore dominante del capitale tedesco il cui progetto era la
creazione attorno a sé di un polo imperialista alternativo a quello
statunitense.
Dopo la sua nascita, l’Euro doveva mantenere la sua
posizione di forza. La condizione era non solo la posizione di forza del
capitale tedesco. Tutta la zona euro avrebbe dovuto diventare competitiva in
campo internazionale. Tuttavia, la zona euro fu estesa a paesi il cui livello
di produttività era ben lontano da quello necessario per mantenere un Euro
forte. L’intenzione tedesca era duplice:
(1) impedire che le economie più deboli competessero
svalutando la propria moneta e
(2) allargare la zona in cui le transazioni internazionali
fossero saldate in euro (invece che in dollari) in modo da incrementare la
domanda di euro e quindi favorire la sua rivalutazione.
La crisi attuale segna una pausa nella lotta tra il dollaro
e l’Euro. Un dollaro debole da una parte indebolisce il ruolo del dollaro come
moneta internazionale e quindi minaccia il suo signoraggio ma dall’altra
favorisce le sue esportazioni. In questa congiuntura, il capitale Statunitense
sceglie la seconda opzione. Ciò non significa che non vi sia più rivalità
tra le due monete. Ma la lotta per il signoraggio è nella fase attuale meno
impellente di altri pericoli più immediati.
Il principale effetto dell’introduzione dell’Euro per le
economie a basso livello di produttività (per esempio, l’Italia) è la loro
impossibilità di ricorrere alla svalutazione per incrementare le loro
esportazioni. Molti danno la colpa della crisi economica Italiana a questa
impossibilità. Il che è sbagliato. Inoltre, si suppone che il ricorso alla
svalutazione e quindi l’incremento delle esportazioni farebbe ripartire o
comunque migliorerebbe, l’economia Italiana. Anche questo è sbagliato.
Vediamo prima di tutto se e in che misura l’introduzione
dell’Euro ha influito sulla bilancia commerciale tra la Germania e l’Italia.
Grafico 5. Bilancia commerciale Germania-Italia,
milioni di euro.
Fonte: Eurostat (2010), External and intra-EU trade –
statistical yearbook, Data 1958 – 2009, European Commission, p.191 e 143.http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_OFFPUB/KS-GI-10-002/EN/KS-GI-10-002-EN.PDF
Consideriamo prima il tasso di crescita del PIL della
Germania e dell’Italia
Grafico 6. Tasso di crescita del PIL, Germania e
Italia
Entrambi i tassi crescono (eccezione fatta per la crisi del
2008-09), ma quello tedesco cresce di più di quello Italiano.
Consideriamo poi la produttività del lavoro. Nel grafico che
segue L significa ore di lavoro e PIL/L è una misura della produttività del
lavoro.
Grafico 7. Tasso di crescita della produttività del
lavoro (PIL/L) in Italia e Germania
e consideriamo infine le ore di lavoro
Grafico 8. Ore di lavoro in Italia e Germania,
2005=100
In Germania la produttività cresce mentre le ore di lavoro
calano. Allora, la crescita del PIL è dovuta alla maggiore efficienza, cosa che
per altro non esclude un maggior grado di sfruttamento. Ma dato che il tasso di
sfruttamento è aumentato anche in altri paesi, sarebbe erroneo attribuire la
crescita del PIL a questo fattore.
In Italia la produttività cala mentre le ore di lavoro
crescono.
Quindi, l’incremento del PIL è dovuto non ad una maggiore produttività
ma ad un maggiore grado di sfruttamento. Il valore aggiunto per lavoratore è
67,500 euro in Germania e 51,000 in Italia. Questo dovrebbe sfatare il
pernicioso mito dei pigri lavoratori italiani.
È quindi sbagliato attribuire la bilancia commerciale negativa
dell’Italia all’Euro. La causa della inferiore prestazione dell’Italia è la sua
base tecnologica arretrata relativamente a quella tedesca. L’impossibilità di
ricorrere alla svalutazione competitiva si è innestata su questa debolezza
tecnologica. La questione se rimanere nell’euro o no deve partire da
questo dato. La risposta dipende dalla cornice politica in cui tale decisione
viene presa. E cioè se per una strategia rivoluzionaria sia meglio rimanere
nell’area dell’Euro o uscirne.
Se la colpa della crisi Italiana non è dell’Euro (l’Euro la
amplifica piuttosto che causarla), il ritorno alla lira e alla
svalutazione competitiva non rilancerebbe l’economia. In essenza, se un paese
svaluta la propria moneta, i suoi capitalisti ricevono meno moneta estera per
le proprie esportazioni e pagano di più della loro moneta per le loro
importazioni. Siccome con meno moneta estera essi possono comprare meno beni
esteri e siccome i capitalisti esteri, avendo ricevuto più moneta, possono
comprare più beni del paese che svaluta, la svalutazione significa che meno
beni esteri vengono scambiati per più beni nazionali. Vi è quindi una perdita
di valori d’uso e quindi del valore in essi incorporato. I beni così
persi sono detrazioni dal consumo o dagli investimenti della nazione che
ricorre alla svalutazione competitiva. All’interno del paese che ricorre alla
svalutazione competitiva, gli esportatori realizzano più profitti ma la nazione
nel suo insieme perde valore.
Il capitalista esportatore può esportare di più e quindi ha
maggiori introiti. Ma l’output disponibile sul mercato nazionale è sceso perché
una parte è stata appropriata dalle altre nazioni importatrici. Questa è
l’origine di un processo inflazionistico. E quelli che ne sono le prime vittime
sono i lavoratori.
L’argomento keynesiano si basa sull’ipotesi che la maggiore
produzione indotta dalla maggiore esportazione causa maggiori investimenti e
occupazione. Da qui il processo di espansione si espanderebbe al resto
dell’economia (questo è in essenza il moltiplicatore Keynesiano). Ma questa
concezione soffre di un vizio di fondo: l’economia cresce solo se il tasso di
profitto cresce. Un’economia che produce sempre di più ad un tasso medio di
profitto sempre minore è sulla strada dell’avaria. Se negli investimenti
iniziali più gli investimenti indotti dai primi investimenti vengono usati
percentualmente meno lavoro che mezzi di produzione, i profitti e l’occupazione
aumentano ma il tasso di profitto generale diminuisce. Questo ha conseguenze
negative per i capitalisti meno efficienti che in questo modo sono spinti
verso il fallimento, con conseguente perdita di produzione e di occupazione. È
questa è l’ipotesi più probabile perché i capitalisti più efficienti (quelli
che impiegano percentualmente meno lavoro) sono quelli cui sono commissionati
gli investimenti perché sono in grado di offrire prodotti più a buon mercato.
La crescente diminuzione di lavoro impiegato relativamente ai mezzi di
produzione favorisce la formazione della crisi piuttosto che evitarla. Questo è
il motivo per cui dopo un primo impulso dato dalla politica Keynesiana,
l’economia si mette di nuovo sulla china discendente. Lo stato può finanziare e
commissionare opere pubbliche ai privati attraverso il debito di stato. Ma il
problema risorge quando il debito deve essere ripagato. Questa è la critica
Marxista del moltiplicatore Keynesiano.
Come si colloca il proletariato in questo quadro?
Il vero
problema dei paesi che ricorrono alla svalutazione competitiva è l’inefficienza
del loro apparato produttivo relativamente ai loro competitori internazionali.
Questo problema è il problema del capitale. Il lavoro non deve farsene carico.
Non deve credere che la modernizzazione dell’apparato produttivo sarebbe
conveniente anche per il lavoro perché – come si sostiene- il lavoro potrebbe
ricevere una fetta del plusvalore internazionale appropriato dal capitale.
Primo, un’accresciuta produttività significa una maggiore
disoccupazione tecnologica.
Secondo, i lavoratori che non hanno perso il loro
lavoro, anche se ricevessero una maggiore fetta della torta, diventerebbero
attori attivi nella competizione capitalista internazionale. Sarebbero
risucchiati in una logica riformista di collaborazione di classe.
Parteciperebbero nello scaricare gli effetti delle innovazioni
tecnologiche sui paesi più deboli, con tutte le conseguenze negative per la
forza lavoro in quei paesi.
Il problema del lavoro è differente. Deve evitare di pagare
i costi della crisi facendoli pagare al capitale al fine non solo di rafforzare
la propria posizione ma anche di indebolire quella del capitale. Il
proletariato deve essere cosciente che in questo sistema le crisi sono
inevitabili e deve quindi costruire le condizioni oggettive e la coscienza di
classe necessarie per una transizione fuori dal capitalismo. La lotta del
proletariato, dei proletariati, non può essere accanto ai capitalismi
nazionali. Deve essere accanto agli altri proletariati e quindi non può
che essere internazionalista.
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