giovedì 4 agosto 2016

IL SANDALO E IL MANTELLO*- Gianfranco Pala

*[in Saggi in onore di Federico Caffè, vol. II] Angeli, Milano 1992     http://www.gianfrancopala.tk/ 

Quando Empedocle di Agrigento

si fu procurata la reverenza dei suoi concittadini insieme
agli acciacchi della vecchiaia,
decise di morire. Ma siccome
amava alcuni pochi, che lui riamavano,
non volle dinanzi a costoro annullarsi ma piuttosto
entrar nel Nulla.
Li invitò ad una gita. Non tutti:
questo o quello dimenticò, sì che nella scelta
e in tutta l’iniziativa
il caso sembrasse commisto.
Ascesero l’Etna.
Lo sforzo della salita
consigliava il silenzio. Nessuno ebbe a dire
parole di sapienza. Lassù
                                                                                                         ripresero fiato per tornare al ritmo consueto del sangue,
                                                                                                        intenti al panorama, lieti di essere alla meta.

Li abbandonò, inosservato, il maestro.
Quando ripresero a parlare, non si avvidero
ancora di nulla: soltanto più tardi
qua e là mancò una parola, e si volsero a cercarlo.
Ma già da tempo egli era oltre il dosso del monte,
pur senza troppo affrettarsi. Una volta soltanto
sostò e allora udì
come remota, da dietro la vetta,
riprendeva la conversazione. Le parole
non si potevano distinguere più: incominciava il morire.
Quando fu presso al cratere,
volto il capo, non volendo conoscere il seguito,
che non lo riguardava più, il vecchio si curvò lentamente,
sciolse con cura il sandalo dal suo piede, lo gettò sorridendo
di fianco, a pochi passi, sì che non troppo presto
lo si potesse trovare, ma pure in tempo; e cioè
prima che fosse marcito. Soltanto allora
venne al cratere. Quando gli amici suoi
furono senza di lui ritornati cercandolo,
cominciò a grado a grado per settimane e mesi
la sua scomparsa, com’egli aveva voluto. C’era
chi l’aspettava ancora mentre già altri
cercavano da soli le soluzioni. Lentamente, come nuvole
nel cielo si allontanano, immutate, appena più piccole,
e più si fanno, quando non le si guardino, più lontane,
e, se le cerchi di nuovo, già forse confuse con altre, così
s’allontanava egli dalla loro consuetudine, in modo consueto.
Poi sorse una diceria:
che morto non fosse, perché non mortale, si disse.
Il mistero lo avvolse. Si riteneva possibile
che oltre la sfera terrestre altro ci fosse: che il corso
delle cose umane potesse per un solo uomo mutarsi; e simili chiacchiere.
Ma fu trovato in quel tempo il sandalo suo, di cuoio,
palpabile, consunto, terrestre! Lasciato per quelli
che, se non vedono, subito cominciano col credere.
La fine dei suoi giorni
ritornò naturale. Come chiunque altro era morto.

Altri descrivono invece l’accaduto
altrimenti: quell’Empedocle
avrebbe davvero tentato di garantirsi onori divini
e con un’evasione misteriosa, un’astuta
caduta nell’Etna, senza testimoni, fondar la leggenda
che egli non fosse di natura umana né sottoposto
alle leggi della decadenza. Ma che allora
il sandalo gli avesse giocato il tiro di cader nelle mani degli uomini.
(Altri dicono persino che sia stato il cratere, irato,
per una simile iniziativa, a sputar via semplicemente
il sandalo di quel degenerato). Ma noi qui preferiamo credere
che se realmente non si fosse tolto il sandalo, avrebbe piuttosto
dimenticato soltanto la nostra stoltezza, senza pensare che noi
precipitosamente vogliamo far più buio quel che è buio, preferendo
credere a cose insulse, invece di cercare un motivo plausibile. E il monte
- ma non sdegnato però per tanta trascuratezza o nemmeno persuaso
che colui avesse voluto ingannarci per scroccare onori celesti
(ché nulla crede il monte e di noi non si cura)
ma anzi vomitando fuoco come sempre - avrebbe allora sputato
il sandalo e i discepoli così
- già occupati a fiutar qualche grande mistero,
a svolgere profonda metafisica; fin troppo occupati! -
afflitti dovettero a un tratto fra le mani tenersi quel sandalo
del maestro, fatto di palpabile cuoio, terrestre.

 Alla storia di Empedocle e del suo sandalo - narrata da Bertolt Brecht, nella scrittura italiana dovuta a Franco Fortini - è affidato qui un ruolo molto più rilevante di quello che potrebbe avere una semplice parabola introduttiva. La lezione integrale della poesia non è un vezzoso “occhiello”, ma è parte essenziale, da meditare profondamente, di quanto si espone. Se non fosse per la bisogna di una certa convenzione accademica, così potrebbe iniziare e terminare nel miglior modo il pensiero, e l’omaggio, che si vuole esprimere. Ma la scienza economica, tristemente, non lo consente.

Il sandalo del maestro, fatto di palpabile cuoio terrestre, mal si ac­compagna al mantello degli “affarucci” keynesiani. Quel mantello, già buca­to e coperto di fango - secondo la metafora di Abba Lerner, ricordata da Caffè stesso - fu l’oggetto di penosi tafferugli, tra i molti che vollero spar­tirselo, tirandolo e strappandolo a destra e a manca. Quello è lo stesso man­tello cui costantemente guardò Caffè, ma senza la pretesa di appropriarsene, consapevole forse del diverso stile di portamento che avrebbe imposto.

Se le dichiarazioni di intenti e gli strumenti keynesiani furono l’os­satura dell’intera opera di Caffè, ben più amari di quelli visitati da lord Key­nes dovettero alfine risultare i suoi presupposti e i suoi obiettivi. Proprio costì - nell’illusorietà, protrattasi oltre ogni credibile riscontro, di una sperata adeguatezza di quegli strumenti al perseguimento degli intenti di­chiarati di giustizia sociale - ha proliferato la solitudine del riformista. Tradendo consapevolmente quel riferimento keynesiano, che Caffè stesso voleva, per considerare i “punti fermi” di una economia sociale progressista, qui si desidera mostrare sommariamente, invece, proprio l’incompatibilità di ultima istanza tra quei punti e l’impianto teorico politico di lord Keynes.


La libertà del denaro

Le “occasioni perdute” del riformismo, più o meno laico, altro non sono che la forma trasfigurata e illusoria dell’alterno ma costante successo del capitalismo e della classe borghese al potere. La storia mondiale ha am­piamente dimostrato (e chi affermasse il contrario dovrebbe motivarlo com­piutamente) che sulla base del sistema del capitale gli unici miglioramenti sociali - e nei secoli se ne sono avuti di certo - sono solo quelli che il capitale stesso via via consente. Idee di un profitto non avulso da considera­zioni di indole sociale o di un’economia-al-servizio-dell’uomo sono sempre finite a copertura ideologica di un potere desideroso di mostrarsi sotto il mantello infangato della democrazia. Non è da oggi che ciò avviene, se già Marx - riconoscendo la base reale della (limitata) attuale libertà nel processo di valore del capitale - attribuì all’utopismo dei riformisti l’ingenuità di “non afferrare la differenza necessaria tra la forma reale e quella ideale della società borghese, e perciò il farsi carico dell’impresa superflua di voler essi stessi, da parte loro, realizzare l’espres­sione ideale, l’immagine luminosa trasfigurata e riflessa, gettata in quanto tale dalla realtà stessa”.

La realizzazione di quegli obiettivi ultimi di giustizia sociale, non solo formale, auspicati da Caffè, non è possibile che fuori dal modo di pro­duzione capitalistico, e perciò stesso fuori dal sistema keynesiano. In barba ai tardivi “keynesocomunisti” (o come li si voglia chiamare), infatti, lo stes­so Keynes asserì che l’inter­vento pubblico da lui difeso andava considerato “come l’unico mezzo praticabile per evitare la completa distruzione delle forme economiche esistenti e come condizione per il successo dell’iniziativa individuale”. D’altra parte - e non provengono da parte critica le osservazio­ni che seguono, ma dal cuore del keynesismo, secondo il ricordato Lerner - la spesa pubblica per sostenere l’iniziativa privata e le forme economiche esistenti non fu sufficiente a portare i miglioramenti sociali desiderati, a esempio, durante la grande depressione degli anni trenta, ma mise in movi­mento un processo con esiti di certo non graditi, né definibili come conqui­ste sociali: “fu soltanto la spesa monetaria enormemente accresciuta per la seconda guerra mondiale che finalmente curò la grande depressione”!

Che codesto esito non costituisse un bel risultato lo percepì Keynes stesso che “si pentì subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, quan­do dichiarò che l’incremento di spesa non era idoneo” come vera e duratura soluzione dei problemi. La considerazione che l’anticipo di spesa per la do­manda effettiva potesse risolversi in una “masturbazione della mano pubbli­ca”, non tanto invisibile - per parafrasare Celso Furtado - occupò a tal punto i pensieri dei keynesiani che, di fronte a tanta inanità, si videro costretti ad affrettare la grande scoperta della “stagflazione” per effetto dei costi (come se potesse esserci, per l’inflazione, causa diversa dall’imposizione di margi­ni incompatibili di profitto in un mercato saturo: altro che domanda!). Quale riconoscimento grottesco, tardivo e incompleto dell’incombenza immanente della crisi da sovraproduzione, contro cui nessuna compensazione di spesa e di domanda riesce a opporsi, potrebbe anche andare bene, ma certo non ba­sta a sanare la controversia teorica politica.

Non è difficile immaginare le obiezioni di quanti, riformisti e mi­glioratori del sistema esistente, sono adusi a incolpare di ideologismo questo tipo di critiche [Jürgen Kuczynski o Paul Mattick ne sanno qualcosa, per averne fatto le spese]. Si può già capire, tuttavia, che al di là della pre­gnanza dei riferimenti testuali il richiamo a Marx e al marxismo non serve più di tanto: resta il fatto, sufficiente, dell’incontestabile crescita di un sistema mondiale di disuguaglianza e di illibertà e del candido stupore di co­storo a fronte di ciò, per disfarsi di tale obiezione verbale e, questa sì, ideologica. [Per inciso, asserendo la necessità di fuoriuscire dal sistema ca­pitalistico, se si pretende giustizia sociale, certo non si vuole (perché non si può) indicare alcuna soluzione precostituita, alcun sistema sociale alternati­vo di cui nessuno peraltro conosce le caratteristiche].

Tuttavia, si riesce ugualmente a vedere che il sistema dell’ugua­glianza e della libertà borghese si basa esclusivamente sulla proprietà, sul controllo e sulla disponibilità di capitale, di denaro, di valore di scambio. [Non è forse lord Keynes che, senza ironia alcuna, scaglia i suoi anatemi contro coloro che criticano i “giovani rispettabili” ansiosi di intraprendere “la carriera del fare quattrini”, còlti dall’”ammirevole amore del denaro”?]. La pervasività della merce dètta codeste leggi di libertà e uguaglianza, su scala crescente, sempre più vasta, mondiale. L’uguaglianza dei rapporti di scambio implica realmente lo sviluppo libero della società: ma è uno svilup­po il cui massimo di libertà possibile ha una base limitata, la base adeguata al capitale. Non si vede chi possa negare il dominio assoluto della merce e, allo stesso tempo, la sostanziale ingiustizia che la sua limitatezza comporta.
Secoli di esperienza storica drammatica consentono di verificare queste affermazioni anche a chi non desidera contaminarsi con la precoce analisi marxiana (che pure meriterebbe attenzione proprio da parte dei rifor­misti, se fosse vero che da parte loro non sussiste discriminazione dei criteri scientifici altrui: ma si sa, se la solitudine è il male dei riformisti, la demonizzazione è la iattura dei rivoluzionari!). Marx riteneva appunto un desiderio pio quanto sciocco che il prodotto non si trasformasse in merce e la merce in denaro, che il valore di scambio non si sviluppasse in capitale e il lavoro in lavoro salariato.

Questo desiderio - il desiderio che il capitale non sia capitale, ossia che si eviti prudentemente, per quiescenza ideologica, di considerarlo come tale - è sempre stato il desiderio di tutta l’economia politica; e su ciò ora conviene richiamare l’attenzione. Se è facile accettare la manifestazione di codesto desiderio in quelle scuole economiche che proclamano a voce alta l’intangibile superiorità della società capitalistica, ben altrimenti stanno le cose nei confronti di quel riformismo - come quello suggerito negli obiettivi di politica economica da Caffè - che ne predicherebbe la necessaria corre­zione. Non del neo-liberismo, equilibrato o squilibrato, perciò, ma della teo­ria keynesiana (che è presa come uno dei fondamenti del riformismo) si vuo­le qui mostrare l’incongruenza con siffatti obiettivi. Ad maiora.


L’eccezione e la regola

Corre l’obbligo, dunque, di svolgere qualche considerazione di maggior dettaglio analitico. Se Keynes pose, lì con sufficiente sarcasmo, “l’enfasi sul prefisso generale” della sua teoria, intendeva però effettiva­mente proporsi di integrare la teoria tradizionale per adattarla alle caratteristiche della “società economica in cui realmente viviamo”. Conse­guentemente infatti, e stavolta senza scherzi, egli accettò tutti i postulati teorici dell’economia dominante meno quello riguardante l’uguaglianza tra l’utilità del salario reale e la disutilità marginale del lavoro [dal quale soltanto derivano i corollari sugli equilibri relativi alla volontarietà della disoccupazione, all’identità tra offerta e domanda aggregata o tra risparmio e investimento, in forza della trita legge degli sbocchi di mercato di Say].

Ripetere simili formulazioni a tutti note va al di là della banalità solo che si rifletta sulla portata dell’inte­ro impianto analitico dominante ac­cettato da Keynes. Se le conseguenze relative alle soluzioni di equilibrio comportate dall’eccezione keynesiana possono essere di non poco conto, nulla o quasi cambia per quanto concerne invece i presupposti riguardanti i fondamenti teoretici ed epistemologici comuni all’economia marginalistica e neoclassica. Solo tra quanti siano ormai assuefatti da molti lustri a muo­versi in circolo entro i luoghi comuni dell’economia dominante, un mutamento secondario può ricevere attenzione e rango di rivoluzione teorica e intellettuale, ancorché incompiuta, anziché di semplice eccezione. Il “reverendo” Keynes, d’altronde, si paragonò da sé a uno “formato da cattolico nell’eco­nomia inglese, e anzi un prete di quella fede”, che insoddisfatto della chiesa ortodossa polemicamente “diviene protestante”: appunto, il passaggio dalla chiesa cattolica a quella protestante si chiamò riforma, fu uno scisma che non ebbe il rango di rivoluzione, sanabile nei secoli perché fondato sui me­desimi principi di fede e di potere. Altre cose, molto ma molto più lontane, sono l’apostasia e l’ateismo.
Tutte le principali concezioni economiche formulate nel tempo dal pensiero economico marginalistico e neoclassico sono conservate presso Keynes [funzione di produzione con pluralità di fattori qualificati come ori­ginari, con connesse definizioni di capitale come mero oggetto prescisso dai rapporti di proprietà che lo caratterizzano, dunque rabbassato a semplice co­sa di cui rintracciare una qualche misura, e di lavoro come servizio, dunque spogliato della sua peculiare forma salariale storicamente determinata; fun­zione di consumo di derivazione utilitaristica, con conseguenti apparati di equilibrio appoggiati variamente sulla superficie delle relazioni di domanda e offerta; connotazione delle varie determinazioni di carattere monetario come superfetazioni, più o meno attive o passive, dello scambio, con relativa attribuzione di esteriore convenzionalità al carattere della moneta; ipostatiz­zazione delle condizioni di equilibrio, anche nella loro accidentale momen­tanea carenza, come concezione apologetica dell’armonia sociale; ecc.].

Codesta comune appartenenza epistemologica delle teorie conside­rate può sfuggire soltanto alle parti in causa direttamente coinvolte in dispu­te accademiche, perlopiù sterili. Ma essa - ovvia per un marziano, come sarà di evidente chiarezza ai futuri storici o archeologi della nostra era economi­ca, e che oggi è percepibile solo in una prospettiva critica antagonistica - è di enorme rilevanza, se si vuole spiegare il nesso tra il keynesismo e gli obiettivi del dominio capitalistico. Tralasciando questioni più generali, orga­niche e complesse, si può circoscrivere qui l’attenzione a due o tre nodi mol­to significativi e qualificanti, ma spesso trascurati.

“In nessuna scienza domina il costume di darsi tanta importanza con luoghi comuni elementari come nell’economia politica”, avvertiva Marx a proposito della scelta degli economisti di limitarsi alla conoscenza delle categorie astratte della circolazione di merci, ignorando volutamente la dif­ferenza specifica e le contraddizioni che caratterizzano la produzione e la circolazione capitalistica delle merci stesse. Regredendo a identificare la circolazione capitalistica con il semplice scambio di merci o addirittura con la permuta di prodotti per l’uso immediato, gli economisti risolvono como­damente i rapporti della produzione capitalistica nelle relazioni semplici del­lo scambio o in quelle naturali del baratto e del consumo.

Nell’analisi dello sviluppo del processo sociale di produzione, e dei corrispondenti rapporti economici più sviluppati, non si scende dalla superfi­cie più in profondità, rimanendo alla mera apparenza. Così, l’economia do­minante da oltre un secolo afferma semplicemente che tutti i rapporti econo­mici del capitale sono soltanto nomi diversi per i medesimi rapporti sempre esistiti. Con una astrazione molto a buon mercato - è proprio il caso di dire! - si passa indistintamente dal prodotto alla merce e al denaro, allo scambio nella forma del capitale, dal lavoro al lavoro salariato e al salario diretta­mente, al profitto, all’interesse e alla rendita - come se nulla mutasse. Per la teoresi dell’economia politica, nei rapporti economici tra Agnelli e Cipputi non fa alcuna differenza la compravendita di prestazioni di lavoro tra i due rispetto all’acquisto, rispettivo, di una pressa o di un frigorifero, di caviale o di sardine; come è considerato perfettamente uguale, concettualmente, l’ac­quisto di un giornale da parte dell’avvocato (quando si compra la testata) o del suo operaio (quando ne prende una copia).

Su siffatte basi semplificate, l’economia del capitale viene presen­tata come qualcosa di armonico, seguendo l’esempio di Bastiat e Carey: e se oggi qualcosa non fila più liscio, come cento o duecento anni fa, con Key­nes torna a essere visibile la mano pubblica che Smith riuscì a occultare nel mercato. Ne consegue che i “disturbi” del mercato, anziché essere conside­rati immanenti al sistema stesso del capitale, sono visti in concomitanza del­le occasioni perdute e dei tentativi falliti per realizzare libertà e ugua­glianza nella loro vera natura.

Non stupisce, allora, che i riformisti si stupiscano - e chiamino anormale - l’ingiusta distribuzione tra paesi o gruppi sociali ricchi e poveri, o l’eccessiva concentrazione finanziaria transnazionale, o l’abnorme super­sfruttamento del lavoro [se in un qualsiasi paese capitalistico dominante, i tre quarti della ricchezza è concentrato nelle mani del 5% della popolazione, o se solo tre gruppi finanziari detengono la metà della capitalizzazione di borsa, o se due miliardi di persone “vivono” al di sotto di una ragionevole soglia di sussistenza, o se gli organismi internazionali sono impotenti]: che sono certo ingiustizie, eccessi o anomalie con riguardo alla semplice circola­zione della merce e ancor più all’utilizzazione immediata del prodotto, ma che appunto sono norma equa per il capitale sulla sua base limitata.

Così pure Keynes, come tutti quanti, “lascia cadere a piacere ora questo ora quel lato del rapporto specifico”, che - come annotava Marx nel quaderno B” della prima stesura dei Lineamenti fondamentali - “viene ridot­to alle determinazioni astratte della circolazione semplice, così dimostrando che le relazioni economiche, entro le quali gli individui si incontrano in quelle sfere più sviluppate del processo di produzione, sono soltanto le rela­zioni della circolazione semplice, e così via”. Ovviamente, in quanto non si consideri la circolazione del capitale, la realtà idealizzata conduce a una teo­ria che, facendo astrazione dalle contraddizioni che si incontrano a ogni pas­so nella realtà stessa, non dà luogo a difficoltà e crisi. Non vi sarebbero dif­ficoltà e crisi se non vi fossero contraddizioni!


La moneta falsa

L’ineffabile lord Keynes prese a prestito il suo “bignami” di Marx dal modesto Mc Cracken, il quale riassunse alcune pagine sulla circolazione del capitale nella sua teoria del valore e dei cicli. Di lì Keynes - annotando le osservazioni nel supplemento alla teoria generale - trasse la convinzione formale che “la natura della produzione nel mondo reale non rientra, come gli economisti sembrano supporre, nel caso di M-D-M’, cioè di scambio di merce (o servizio) contro denaro al fine di ottenere un’altra merce (o servi­zio). Questo può essere il punto di vista di un consumatore privato. Ma non è l’atteggiamento del mondo degli affari, che rientra nel caso di D-M-D’, cioè di pagare con denaro merce (o servizio) al fine di ottenere più denaro”.

Si è detto: convinzione formale. Infatti, già dalla semplice esposi­zione della circolazione si capisce come Keynes si arresti al solo lato forma­le della questione, cercando infatti di spiegare il nesso dei cicli dei capitali col puro e semplice scambio tra denaro e merce (o servizio!, accettando il servizievole aiuto di questa categoria non scientifica, con un’operazione de­gna di un Say o un Bastiat). Sotto la superficie della sua descrizione non vi è dunque altro che atti di scambio, posti solo in ordine inverso: ciò che mostra come egli ignorasse o occultasse la sostanza che sta in agguato dietro quel semplice mutamento di forma. I rapporti economici più sviluppati vengono così rattrappiti nelle categorie antecedenti semplici, dando a queste ultime solo nomi diversi e adeguati senza qualità peculiari.

Non è un caso che l’accrescimento di denaro fosse attribuito da Keynes alla generica conclusione di affari: “del resto corrisponde all’oriz­zonte borghese, in cui il concludere affarucci occupa tutta la mente, di non vedere nel carattere del modo di produzione il fondamento del modo di traf­fico a esso corrispondente, ma viceversa” - commentò con grande anticipo Marx, concludendo l’analisi del ciclo di metamorfosi del capitale. In effetti sarebbe vano sforzo cercare in Keynes la motivazione del possibile accresci­mento di denaro (di valore e di capitale) nel processo immediato di produ­zione. Coerentemente con il rabbassamento della sua analisi, Keynes imputò a Marx un “uso altamente illogico” della “pregnante osservazione” relativa all’ecces­so di D’ su D: ovverosia, che questo eccesso “è per Marx la fonte del plusvalore”. Per l’appunto, l’occulta­mento de­l fondamento produttivo fa invertire causa e effetto, cosicché il risultato dell’accrescimento di denaro venne letto da Keynes sul suo “bignami” come la fonte del plusvalore mede­simo: sotto il denaro, niente!

Il fatto che l’eccesso di denaro fosse reputato da Keynes soltanto possibile evidenzia il carattere puramente formale della sua rappresentazio­ne. A suo dire, l’errore di Marx sarebbe stato di ritenere D’ sempre e neces­sariamente in eccesso su D a causa del carattere di sfruttamento del sistema capitalistico, mentre invece per lord Keynes, seguace di Major Douglas, è parimenti lecito che sia D in eccesso su D’! Di qui provenne il tentativo key­nesiano di “una riconciliazione tra i seguaci di Marx e quelli di Major Dou­glas”, in dispregio degli economisti “classici” e della loro opinione che D e D’ fossero sempre uguali.

Ma soprattutto, una simile affermazione keynesiana sembra fatta in totale ignoranza della storia del capitalismo, dove non si capisce come sia possibile non vedere l’ineluttabile sistematico enorme accrescimento di D’ rispetto a D negli anni e nei secoli, nel tempo e nello spazio: i casi contrari nell’intera epoca del capitale si contano, nella pratica, sulle dita della mano. Nella teoria, poi, il denaro valorizzato - prima della sua realizzazione, e questo è il caso trattato come categoria concettuale, appunto - non può che essere maggiore di quello anticipato, per definizione [poiché ciò rimane vero in generale anche in caso di crisi, per avere la quale basta un eccesso di va­lore minore di quello atteso].

A parte la proposta riconciliazione di cui nessuno sente francamen­te l’esigenza, perciò, dovrebbe essere ormai chiara a chiunque l’indiscutibile appartenenza di Keynes stesso alla scuola di coloro che si aggirano nei luo­ghi comuni elementari dell’economia politica, per ridurre alle forme astratte della circolazione semplice le relazioni sviluppate del capitale: con l’aggra­vante di una maggiore incoerenza nell’assunzione confusa e capovolta del nesso formale, e di una conseguente minore proprietà di linguaggio.


Il nome del capitale (senza salario)

Il nome di capitale è dunque usato anche da Keynes in maniera sur­rettizia. Quello che opera sotto falso nome nel suo sistema teorico, come de­naro, fa da mantello al reddito monetario speculativo - e ciò in ammirevole sintonia con l’indole, l’esperienza pratica personale e gli interessi costituiti, che vengono ben prima delle sue idee, del lord suddetto. D’altron­de, solo speculando in mille affarucci si può, quando va bene, intraprendere “la rispettabile carriera del far quattrini”, semplicemente scambiando il de­naro con beni e servizi! Altrimenti occorrerebbe mettere in movimento un processo produttivo mediante lavoro.

Non è neppure importante ripetere che questo ha da essere lavoro altrui non pagato. Non si parli nemmeno di teoria dello sfruttamento, qui. Affidandosi unicamente alla convinzione di un capitalista pratico, o al buon senso di qualsiasi agente della produzione capitalistica, ciò che viene ritenu­to elemento di distinzione sufficiente tra un capitalista e un comune mortale è che il primo si caratterizza per avere alle sue dipendenze dei lavoratori, operai o impiegati, fissi o giornalieri. Rintracci, chi ne è capace, la necessi-tà di tale ipotesi per il funzionamento dello schema di circolazione keynesia­no. La parola salario, certo, la si trova: ma al di là del suo impiego mera­mente descrittivo, la sua funzione economica specifica è del tutto assente e pertanto essa risulta affatto inessenziale alla logica della teoria generale.

Non diversamente vanno le cose per la sovrastante funzione di pro­duzione neoclassica, dove ciò che appare funzionale al sistema è la presenza di lavoro senza altra qualificazione in mezzo a una moltitudine di altri fatto­ri e “servizi” produttivi [l’insulsa metafora delle “robinsonate” del XVIII se­colo, infatti, prosegue indisturbata per la sua strada]. La forma sociale della dipendenza dal capitale non conta nulla, talché non si comprende di che ca­pitale si stia parlando, riuscendo così a confondere anche quelle poche idee non sbagliate che le persone si sono fatte a fatica nella vita pratica. Per ri­volgere a Keynes parole da lui stesso usate per criticare i postulati tradizio­nali, ci si può perciò ritenere “fortunati che i lavoratori, sebbene inconscia­mente, siano più ragionevoli degli economisti”.

Già solo sulla base dei presupposti teorici fin qui scandagliati - mo­stratisi atti solo a mistificare il rapporto di capitale come semplice rapporto di scambio, occultandolo inoltre sotto il mantello della circolazione moneta­ria - qualcuno dovrebbe spiegare come si ritenga possibile torcere la teoria keynesiana, non le corrispondenti chiacchiere politiche economiche, a soste­gno di un riformismo che si voglia “giusto e egualitario”: dal momento che le categorie utilizzate non rispondono al vero, ipostatizzando una natura semplice degli scambi che non rispecchia la specificità dei rapporti di capita­le. Ma si sa che domande di tal fatta non debbono porsi in sede accademica, giacché, non essendo ritenute degne, non ci si può attendere risposta.

Conviene dunque passare oltre, e aggiungere un corollario: ovvero, trattare qui come semplice corollario una questione di grande rilevanza che richiederebbe un’analisi specifica a sé stante. Dalla trasposizione, anche keynesiana, della circolazione del capitale in circolazione semplice delle merci, unitamente alla superfetazione, tutta keynesiana, della forma moneta­ria di tale circolazione (in apparente critica alla legge di Say), emerge la spiegazione del possibile equilibrio di sottoccupazione, e di qui della cosid­detta crisi di sottoconsumo. Senza entrare nel merito della teoria delle crisi, si possono fare alcune osservazioni essenziali.

Nell’ambito ipotizzato di scambio semplice di merci, l’acquisto di tali merci non può che risolversi nel consumo: dunque, il mancato eventuale accrescimento del denaro non può che derivare dall’insufficienza di consu­mo; dunque, ancora, la crisi dovuta a tale sottoconsumo può essere risolta o preventivamente evitata con l’aumento della domanda; dunque, infine, la crisi stessa non è necessaria e immanente ma solo possibile e accidentale. Essa non deriva, secondo Keynes, da contraddizioni intrinseche del modo di produzione capitalistico, ma unicamente da sue disfunzioni contingenti: questo perché, banalmente, il nome di capitale è conferito a ciò che non fun­ziona affatto come capitale. Il capitale è un semplice ectoplasma. Non può darsi crisi di sovracapitale se non c’è capitale; e se c’è solo consumo la crisi sarà di sottoconsumo!

Il fantasma di Monsieur Say - esorcizzato da Keynes troppo fretto­losamente, dati i presupposti epistemologici comuni - riappare semplicemen­te con, in più, la mano artificiale che lo stesso Keynes ha reso visibile per riaggiustare il perduto equilibrio, non più automatico e spontaneo, con la domanda pubblica creata surrettiziamente dall’offerta pletorica e strozzata. Ma il problema vero non si può risolvere attraverso il ristabilimento artifi­cioso dello stato reale della domanda. Sul mercato non ci sono semplici scambisti uguali. Quelli che si contendono il posto sono i capitali-merce, di­sposti a vendere a qualunque prezzo quando scadono i termini di pagamento. Qui, nella assoluta necessità di trasformare merce in denaro, si tratta di do­manda di pagamento, non dell’immediata domanda di consumo; si tratta cioè dello scambio di capitale con capitale, di capitale-merce con capitale-denaro, del processo di riproduzione del capitale. Altrimenti scoppia la crisi.

Questo punto merita un paio di brevi commenti. Quanti continuano a assimilare la crisi di sottoconsumo keynesiana (e, perché no, luxembur­ghiana, se non senz’altro sismondiana) alla crisi da sovraproduzione mar­xiana - soprattutto attraverso la “vulgata marxista” più o meno sweeziana - hanno semplicemente dimenticato di confrontare preventivamente la natura dei rispettivi processi di circolazione. Si è detto: sovraproduzione di capitale (capitale-merce), eccesso di valore incapace di portare plusvalore, è possibi­le solo laddove sia sviluppato teoricamente il processo di produzione del valore-capitale e del plusvalore; se ciò manca, non si sa neppure di che cosa si stia parlando, e resta solo la sproporzione tra produzione semplice di mer­ce e consumo, manifestata nello squilibrio momentaneo dello scambio. Sono due fenomeni completamente differenti.

L’altra considerazione è suggerita dalle sfortune keynesiane nel fal­limento delle omonime politiche economiche e nella retrocessione del cosid­detto stato sociale. Alla luce di quanto ora esaminato, non fa meraviglia al­cuna quanto accaduto: tutto era già scritto e annunciato nell’analisi teorica, solo che si fosse voluto capire che con interventi dettati dalla logica dello scambio semplice delle merci nessuno avrebbe potuto mai credibilmente ri­solvere i “disturbi” della sovraproduzione di capitale. Ma i riformisti keyne­siani, non volendo ammettere tali incongruenze e drammatizzando polemi­camente con la perfidia del neo-monetarismo liberista, ripetono così gli stes­si errori dei liberoscambisti volgari. Tant’è.


Il capitale è (ma non esiste)

La sovraproduzione di capitale - dunque la sovraccumulazione e la sovraproduzione generalizzata di merci sulla base del capitale - è bandita anche dal keynesismo che sembra parlare di denaro e capitale, giacché die­tro tali parole c’è solo scambio monetario di semplice merce. Ciò ha altre pesanti implicazioni. Il nome di capitale viene ulteriormente “smerciato” in un contesto dove esso è parimenti fuorviante, in un’assurda fantasia.

Non dovrebbe suscitare dubbi, a questo punto (ma non è mai det­to!), l’affermazione che il capitale è una determinazione economica diversa da quella di valore, o di merce, poiché se tutti i capitali sono valori, merci, non tutti i valori o merci in quanto tali sono capitale. Il limite della produ­zione capitalistica di merci, che fa del capitale una contraddizione vivente, consiste appunto nella tendenza a espandere al massimo la produzione di va­lori ma contemporaneamente a ostacolarla, nella misura in cui in tali valori non è realizzabile il plusvalore, o se si preferisce il profitto.

Per realizzare il profitto, il capitale deve necessariamente scambia­re con un equivalente i valori-merce che ne costituiscono la base. Questo scambio costituisce quel processo che Marx, hegelianamente, connotava come “un movimento di repulsione da se stesso”, repulsione reciproca dei capitali che è già implicita nel capitale in quanto valore di scambio realizza­to. Si è appena ricordato che per il capitale - in quanto specificamente distin­to dalla merce semplice - non si tratta di soddisfare lo stato della domanda reale di consumo immediato, bensì di ristabilire ogni volta la domanda di pagamento per realizzare il profitto.

Questa contraddizione specifica si mostra in tutta la sua forza nella seguente circostanza, per ciascun capitalista: i propri lavoratori gli stanno di fronte come elementi del costo di produzione, che egli desidera restringere, mentre i lavoratori degli altri capitalisti sono considerati come consumatori delle sue merci, il cui salario da spendere deve essere per lui il più grande possibile. Che ciò rappresenti un’illusione, cui però tende realmente il singo­lo capitalista in confronto a tutti gli altri, è ovvio guardando al sistema nel suo insieme. Di qui la contraddizione immanente della molteplicità dei capi­tali che fa tornare ancora una volta la differenza specifica tra scambio sem­plice e accumulazione, tra sottoconsumo e sovraproduzione, e che evidenzia la pochezza teorica della teoria keynesiana della domanda effettiva.

In altri termini, il capitale è compiutamente definito come tale solo quando abbia di fronte a sé altri capitali con cui scambiare. Altrimenti si da­rebbe ancora una definizione manchevole, puramente nominale, assurda, di capitale come capitale universale, unico e privo di molteplicità autocontrad­dittorie. Codesta manchevolezza è proprio quella che caratterizza la teoria di Keynes e tutti quanti. Per costoro: il capitale è!

Già il riformista Proudhon, imitando l’economia borghese, cadde nell’equivoco di far perdere teoricamente alla società capitalistica - nel mo­mento stesso in cui la si considera in blocco, come totalità - proprio il suo specifico carattere storico economico, ovvero la sua articolazione contraddit­toria tra molti capitali, la sua contrapposizione al lavoro salariato dipendente e la sua tendenza all’incessante produzione per l’accumula­zione, anziché per il consumo immediato e il godimento. Come si vede, non è nuovo l’imbro­glio di considerare una economia capitalistica come qualcosa di unitario, il cui scopo sarebbe la produzione e il consumo finale di valori d’uso, come una “famiglia” o bene che vada come una “azienda”: le premesse teoriche del corporativismo sono tutte racchiuse in questa concezione.

Le radici di tale confusione traggono linfa proprio dalla soppressio­ne della molteplicità contraddittoria dei capitali, e cioè dalla considerazione del capitale come unico [considerazione anche qui da esaminare sul piano assolutamente teorico, giacché le chiacchiere sociologiche con cui si mutua il linguaggio comune obnubilano volutamente la portata scientifica di code­sta soppressione logica]. Come per il caso precedentemente criticato - circa l’assenza di una funzionalità specifica necessaria della forma del lavoro sa­lariato per la validazione della teoria dominante - così ora in tale medesima teoria non è mai necessaria l’ipotesi della pluralità di capitali.

Proprio in virtù di tale fantasia - allorché si supponga l’insieme compatto dei lavoratori che vende i propri servizi all’insieme compatto dei capitalisti, in forma aggregata o disaggregata, facendo inoltre astrazione dal­le frizioni del mercato, del credito e della speculazione - nessuna crisi avreb­be luogo giacché l’equilibrio ipostatizzato sarebbe sempre possibile, in una maniera o nell’altra, visibile o invisibile, differita o simultanea. Nell’ambito della disaggregazione invisibile del mercato simultaneo neoclassico, allora, non si dà crisi poiché la sola forma di disequilibrio, che possa essere intro­dotta momentaneamente [per la durata di un solo “periodo” del modello] come spiegazione coerente, rimanda alla accidentale sproporzione tra i di­versi rami della produzione o tra il consumo improduttivo dei capitalisti e la loro stessa accumulazione. Nello stesso ambito, gli squilibrati orfani dell’e­quilibrismo economico differiscono semplicemente nel tempo tali spropor­zioni su basi note a priori, e denominano il tutto “aspettative razionali” per una teoria del disequilibrio. Grande trovata!

Il passo alla teoria dell’aggregazione è breve. Non è un caso, allo­ra, che la parvenza della crisi aleggi nella teoria generale keynesiana come sottoconsumo a causa di posticce frizioni sul mercato del lavoro, di accanto­namenti monetari speculativi o di sfasamenti non simultanei negli equilibri supposti. Ma ciò, appunto, è affatto inessenziale. Le determinazioni teoriche fondamentali non lo richiedono e sono le medesime della teoria dominante da cui provengono. Inoltre, in un sistema teorico macroeconomico aggrega­to, gli insiemi compatti di capitale e lavoro appaiono direttamente come grandezze unitarie, in una sorta di monopolio bilaterale. Le condizioni di determinazione univoca dell’equilibrio cadono, e con esse quelle della loro sta­bilità. Ma neppure si pongono le determinanti del non equilibrio e della crisi. Non c’è più nulla che abbia basi scientificamente fondate [ed è conseguente che si ipotizzino soltanto soluzioni collusive di tipo oligopolistico].


La nuova alleanza corporativa

Dall’assurda fantasia del capitale unico - che, è bene ripeterlo, ap­pare come ipotesi teorica ben nascosta sotto il mantello delle suadenti argo­mentazioni di senso e linguaggio comune - deriva la falsa denotazione della concorrenza secondo l’economia politica. Il continuo parlare di concorrenza e competitività da parte dell’ideologia borghese non deve trarre in inganno. La concezione dominante di “concorrenza”, infatti, espri­me il perseguimen­to, invisibile o visibile, dell’identità di interessi del singolo capitalista con quelli dell’inte­ro capitale come classe, in vista del raggiungimento dell’equilibrio e dell’armonia.

La mano del capitale, in una maniera o nell’altra, secondo l’ideolo­gia borghese, conduce a siffatto equilibrio. Quando l’economia politica di­scetta di concorrenza e competitività - anche qui nei termini puramente teo­rici dell’accademia, e non in quelli pratici dei capitalisti operanti come “fra­telli nemici” - suppone il reciproco concorso non conflittuale tra le moltepli­ci, eventualmente atomisticamente infinite, unità decisionali contemplate: cosicché quella molteplicità funziona logicamente come unità.

Codesta unità deprivante delle determinazioni di concorrenza è, come detto, ancora più esplicita nell’ag­gregazione keynesiana, che a mag­gior ragione ricade nella medesima concezione di realtà idealizzata. Occorre darne alcune valutazioni. Chiunque sfogli la teoria generale keynesiana non incontrerà mai un luogo dove la concorrenza, al pari della molteplicità dei capitali, svolga un ruolo logicamente necessario. Si imbatterà appena in quattro o cinque pagine dove la parola è semplicemente scritta, perlopiù come condizione definitoria esistente per la teoria “classica” o per il mercan­tilismo. Solo nella settima proposizione del principio della domanda effetti­va, Keynes attribuisce alla concorrenza neoclassica la funzione specifica di aggiustare l’equilibrio reale della domanda per qualsiasi livello neutrale di occupazione: confermando così, anche in quest’unico caso operativo, la con­cezione della concorrenza come armonia indistinta entro un capitale del tut­to omogeneo. Sono ovvie le conseguenze.

La contesa tra i diversi capitali per accaparrarsi il massimo profitto individuale è soppressa; cosicché si teorizza che sia la concorrenza a con­durre il tasso di profitto al minimo di equilibrio - all’irreale livello zero, naturalmente, come zero è l’irreale rendita fondiaria al margine! - anziché capire che è la caduta critica di esso a scatenare quella. Come pure scompa­re, quindi, la disputa incessante tra profitto bancario (interesse monetario) e profitto industriale (efficienza reale del capitale), rattrappita in una perentoria e perenne condizione di uguaglianza; laddove, nelle varie fasi del ciclo, “la quiete è solo un caso limite della contesa” - per dirla hegeliana­mente con Brecht - per l’alterna supremazia ora dell’uno ora dell’altro.

L’eccezione diviene la regola. Il conflitto si trasforma in collusio­ne. L’antagonismo è soppiantato dall’ar­monia. La crisi cede il passo all’e­quilibrio. Il molteplice diventa uno. Ogni contraddizione è soppressa. Al­l’immagine del capitale che viene al mondo grondando sangue da ogni poro - come scrivevano gli storici francesi del settecento - si sostituisce la rappresentazione dei rapporti idilliaci voluta dall’economia politica.

Trascu­rando le ragioni per cui i capitalisti si comportano come dei falsi fratelli quando si fanno concorrenza, si considera viceversa solo quella parte della realtà del rapporto di capitale - quando le cose vanno bene per la borghesia - che Marx descriveva come l’azione di “una vera massoneria nei confronti della classe operaia nel suo complesso”.

Avviandosi a trarre delle conclusioni interpretative - a partire dalle considerazioni logiche e teoriche svolte sui comuni fondamenti epistemolo­gici e ideologici del keynesismo con tutta l’economia politica del capitale - viene da chiedersi ancora una volta come si possa cercare di fondare un “ri­formismo egualitario” su simili basi, che concorrono tutte, teoreticamente, a organizzare gli interessi costituiti del capitale come classe e a occultare il reale rapporto antagonistico di capitale nei confronti dei lavoratori. Si avan­za il sospetto, più che fondato, che per difendere realmente il cosiddetto sta­to sociale occorrano ben altri fondamenti teorici e strumenti d’intervento. E soprattutto che occorra la manifestazione pratica di una capacità di lotta so­ciale in grado di imporre in maniera antagonistica gli obiettivi ambìti.

Il sedicente eretico lord Keynes ha mostrato con le sue stesse paro­le di che stoffa sia fatto il suo mantello. Pur considerando “non tutti idioti” i seguaci del Capitale marxiano, Keynes considerò quel libro - la cui cono­scenza per lui fu a livello “bignami”, come detto e ulteriormente dimostrabi­le - alla stregua fideistica del Corano, sotto forma di “una dottrina illogica e noiosa”, peraltro scritto “in maniera spregevole”, dunque “non solo scientifi­camente errato, ma privo di interesse e possibilità di applicazione nel mondo moderno. Un credo che esalta il rozzo proletariato al di sopra della borghe­sia e dell’intellighenzia, le quali, per quanti siano i loro difetti, sono l’essenza della vita, e portano sicuramente in sé il seme di ogni progresso umano”. Su tali idee egli esaltò il “socialismo anti-marxista” di Gesell.

Ma queste sono opinioni teoriche, e come tali vanno intese. Dun­que, non sufficientemente pago della sua opera a favore della borghesia, Keynes non mancò di rincarare la dose in termini politici e ideologici. Sor­volando qui sul giudizio personale su Lenin, Keynes reputava i comunisti “pronti a sacrificare le libertà politiche individuali al fine di cambiare l’ordine economico esistente, come i fascisti e i nazisti”. Cosicché, insieme al collega Wicksteed, poté stigmatizzare l’azione sindacale come “microbo del malessere della civilizzazione”. Non sorprende, di conseguenza, che egli considerasse quanti lottavano per il socialismo persone “terribilmente di se­conda scelta”, “istupiditi dagli errori intellettuali di slavi ed ebrei”, i quali ultimi “nel fondo del loro cuore sono nazisti o comunisti, e dunque non hanno neppure alcuna nozione di come fu costruito o è sostenuto il Commonwealth”.

Forte di queste armi, lord Keynes non esitò - cercando vanamente di prevenire un uso improprio delle sue teorie in senso riformista - a definire “moderatamente conservatrici” le implicazioni della teoria generale. Quelle che immaginò come “necessarie misure di socializzazione” erano volte a sal­vaguardare il potere capitalistico costituito senza “necessità alcuna di un si­stema socialista” e “senza una rottura nelle tradizioni generali della società”. A coronamento di ciò, anzi - il 7 settembre del 1936, quando il nazismo do­minava aper­tamente da più di tre anni e quando il dr. Schacht guidava l’eco­nomia germanica da ancor più tempo – Keynes offrì la sua opera agli economi­sti tedeschi “affamati e assetati” di teoria: asserendo molto candidamente che la sua teoria generale “si adatta assai più facilmente alle condizioni di uno stato totalitario”. La chiarezza dei tempi e dei modi del suo dire dovreb­bero togliere qualunque dubbio interpretativo. Ma si sa che così non è.

Egli era sicuro che “l’individualismo, emendato dei suoi difetti e dei suoi abusi, è la miglior salvaguardia della libertà personale”. Per conclu­dere, è istruttivo ricordare in proprosito un suo accorato appello ai giovani: “è duro per un figlio dell’Europa occidentale, istruito, perbene, intelligente, ritrovare i suoi ideali nella confusa paccottiglia delle librerie rosse. A meno che non abbia precedentemente subìto qualche strano e orribile processo di conversione, che abbia sconvolto tutto il suo ordine di valori”.

Non c’è nulla da aggiungere alla parole autentiche di lord Keynes, dunque, tranne precisare che non sono state riferite per discuterle o criticar­le, ma semplicemente per mostrare da che parte egli stia. Si può condividere il conservatorismo neocorporativo di Keynes o lo si può combattere, ma non lo si può mistificare. Il suo lacero mantello non può in nessun caso essere ti­rato a sinistra, questo è certo e solo questo qui si è voluto motivare. Che cosa c’entri il riformismo e lo stato sociale rimane un mistero insolubile.


Adagietto nel Nulla (per non annullarsi)

Il cupo mantello di Mainardo, fatto per concludere affarucci, non si addice al terrestre sandalo di Federico, fatto di palpabile cuoio. L’assoluta certezza che Caffè stesso non avrebbe condiviso affatto il distanziamento da Keynes, qui argomentato, non cambia niente. La storia di due vite, assoluta­mente non parallele, conforta questa sensazione, non solo teorica, che da tale confronto vuole risarcire colui il quale - allorché invitava quanti avessero voluto rendergli l’estremo saluto a suonare per lui l’adagietto della Quinta sinfonia di Gustav Mahler diretta da Bruno Walter - preferiva pensare, piut­tosto che agli affari e al successo, alla “mo­desta umana dignità della morte”.


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