*[in Saggi in
onore di Federico Caffè, vol. II] Angeli, Milano 1992 http://www.gianfrancopala.tk/
Quando Empedocle di Agrigento
si fu procurata la reverenza dei suoi concittadini
insieme
agli acciacchi della vecchiaia,
decise di morire. Ma siccome
amava alcuni pochi, che lui riamavano,
non volle dinanzi a costoro annullarsi ma piuttosto
entrar nel Nulla.
Li invitò ad una gita. Non tutti:
questo o quello dimenticò, sì che nella scelta
e in tutta l’iniziativa
il caso sembrasse commisto.
Ascesero l’Etna.
Lo sforzo della salita
consigliava il silenzio. Nessuno ebbe a dire
parole di sapienza. Lassù
ripresero fiato per tornare al ritmo consueto del sangue,
intenti al panorama, lieti di essere alla meta.
Li abbandonò, inosservato, il maestro.
Quando ripresero a parlare, non si avvidero
ancora di nulla: soltanto più tardi
qua e là mancò una parola, e si volsero a cercarlo.
Ma già da tempo egli era oltre il dosso del monte,
pur senza troppo affrettarsi. Una volta soltanto
sostò e allora udì
come remota, da dietro la vetta,
riprendeva la conversazione. Le parole
non si potevano distinguere più: incominciava il morire.
Quando fu presso al cratere,
volto il capo, non volendo conoscere il seguito,
che non lo riguardava più, il vecchio si curvò
lentamente,
sciolse con cura il sandalo dal suo piede, lo gettò
sorridendo
di fianco, a pochi passi, sì che non troppo presto
lo si potesse trovare, ma pure in tempo; e cioè
prima che fosse marcito. Soltanto allora
venne al cratere. Quando gli amici suoi
furono senza di lui ritornati cercandolo,
cominciò a grado a grado per settimane e mesi
la sua scomparsa, com’egli aveva voluto. C’era
chi l’aspettava ancora mentre già altri
cercavano da soli le soluzioni. Lentamente, come nuvole
nel cielo si allontanano, immutate, appena più piccole,
e più si fanno, quando non le si guardino, più lontane,
e, se le cerchi di nuovo, già forse confuse con altre,
così
s’allontanava egli dalla loro consuetudine, in modo
consueto.
Poi sorse una diceria:
che morto non fosse, perché non mortale, si disse.
Il mistero lo avvolse. Si riteneva possibile
che oltre la sfera terrestre altro ci fosse: che il corso
delle cose umane potesse per un solo uomo mutarsi; e
simili chiacchiere.
Ma fu trovato in quel tempo il sandalo suo, di cuoio,
palpabile, consunto, terrestre! Lasciato per quelli
che, se non vedono, subito cominciano col credere.
La fine dei suoi giorni
ritornò naturale. Come chiunque altro era morto.
Altri descrivono invece l’accaduto
altrimenti: quell’Empedocle
avrebbe davvero tentato di garantirsi onori divini
e con un’evasione misteriosa, un’astuta
caduta nell’Etna, senza testimoni, fondar la leggenda
che egli non fosse di natura umana né sottoposto
alle leggi della decadenza. Ma che allora
il sandalo gli avesse giocato il tiro di cader nelle mani
degli uomini.
(Altri dicono persino che sia stato il cratere, irato,
per una simile iniziativa, a sputar via semplicemente
il sandalo di quel degenerato). Ma noi qui preferiamo
credere
che se realmente non si fosse tolto il sandalo, avrebbe
piuttosto
dimenticato soltanto la nostra stoltezza, senza pensare
che noi
precipitosamente vogliamo far più buio quel che è buio,
preferendo
credere a cose insulse, invece di cercare un motivo
plausibile. E il monte
- ma non sdegnato però per tanta trascuratezza o nemmeno
persuaso
che colui avesse voluto ingannarci per scroccare onori
celesti
(ché nulla crede il monte e di noi non si cura)
ma anzi vomitando fuoco come sempre - avrebbe allora
sputato
il sandalo e i discepoli così
- già occupati a fiutar qualche grande mistero,
a svolgere profonda metafisica; fin troppo occupati! -
afflitti dovettero a un tratto fra le mani tenersi quel
sandalo
del maestro, fatto di palpabile cuoio, terrestre.
Il sandalo del maestro, fatto di palpabile cuoio
terrestre, mal si accompagna al mantello degli “affarucci” keynesiani.
Quel mantello, già bucato e coperto di fango - secondo la metafora di Abba
Lerner, ricordata da Caffè stesso - fu l’oggetto di penosi tafferugli, tra i
molti che vollero spartirselo, tirandolo e strappandolo a destra e a manca.
Quello è lo stesso mantello cui costantemente guardò Caffè, ma senza la
pretesa di appropriarsene, consapevole forse del diverso stile di portamento
che avrebbe imposto.
La libertà del denaro
Le “occasioni perdute” del riformismo, più o meno laico,
altro non sono che la forma trasfigurata e illusoria dell’alterno ma costante
successo del capitalismo e della classe borghese al potere. La storia mondiale
ha ampiamente dimostrato (e chi affermasse il contrario dovrebbe motivarlo compiutamente)
che sulla base del sistema del capitale gli unici miglioramenti sociali
- e nei secoli se ne sono avuti di certo - sono solo quelli che il capitale
stesso via via consente. Idee di un profitto non avulso da considerazioni di
indole sociale o di un’economia-al-servizio-dell’uomo sono sempre finite a
copertura ideologica di un potere desideroso di mostrarsi sotto il mantello
infangato della democrazia. Non è da oggi che ciò avviene, se già Marx -
riconoscendo la base reale della (limitata) attuale libertà nel processo
di valore del capitale - attribuì all’utopismo dei riformisti l’ingenuità di
“non afferrare la differenza necessaria tra la forma reale e quella ideale
della società borghese, e perciò il farsi carico dell’impresa superflua di
voler essi stessi, da parte loro, realizzare l’espressione ideale, l’immagine
luminosa trasfigurata e riflessa, gettata in quanto tale dalla realtà stessa”.
La realizzazione di quegli obiettivi ultimi di giustizia
sociale, non solo formale, auspicati da Caffè, non è possibile che fuori dal
modo di produzione capitalistico, e perciò stesso fuori dal sistema
keynesiano. In barba ai tardivi “keynesocomunisti” (o come li si voglia
chiamare), infatti, lo stesso Keynes asserì che l’intervento pubblico da lui
difeso andava considerato “come l’unico mezzo praticabile per evitare la
completa distruzione delle forme economiche esistenti e come condizione per il
successo dell’iniziativa individuale”. D’altra parte - e non provengono da
parte critica le osservazioni che seguono, ma dal cuore del keynesismo,
secondo il ricordato Lerner - la spesa pubblica per sostenere l’iniziativa
privata e le forme economiche esistenti non fu sufficiente a portare i
miglioramenti sociali desiderati, a esempio, durante la grande
depressione degli anni trenta, ma mise in movimento un processo con esiti di
certo non graditi, né definibili come conquiste sociali: “fu soltanto la spesa
monetaria enormemente accresciuta per la seconda guerra mondiale che finalmente
curò la grande depressione”!
Che codesto esito non costituisse un bel risultato lo percepì
Keynes stesso che “si pentì subito dopo la fine della seconda guerra mondiale,
quando dichiarò che l’incremento di spesa non era idoneo” come vera e duratura
soluzione dei problemi. La considerazione che l’anticipo di spesa per la domanda
effettiva potesse risolversi in una “masturbazione della mano pubblica”,
non tanto invisibile - per parafrasare Celso Furtado - occupò a tal punto i
pensieri dei keynesiani che, di fronte a tanta inanità, si videro costretti ad
affrettare la grande scoperta della “stagflazione” per effetto dei costi
(come se potesse esserci, per l’inflazione, causa diversa dall’imposizione di
margini incompatibili di profitto in un mercato saturo: altro che domanda!).
Quale riconoscimento grottesco, tardivo e incompleto dell’incombenza immanente
della crisi da sovraproduzione, contro cui nessuna compensazione di
spesa e di domanda riesce a opporsi, potrebbe anche andare bene, ma certo non
basta a sanare la controversia teorica politica.
Non è difficile immaginare le obiezioni di quanti,
riformisti e miglioratori del sistema esistente, sono adusi a incolpare di
ideologismo questo tipo di critiche [Jürgen Kuczynski o Paul Mattick ne sanno
qualcosa, per averne fatto le spese]. Si può già capire, tuttavia, che al di là
della pregnanza dei riferimenti testuali il richiamo a Marx e al marxismo non
serve più di tanto: resta il fatto, sufficiente, dell’incontestabile
crescita di un sistema mondiale di disuguaglianza e di illibertà e del candido
stupore di costoro a fronte di ciò, per disfarsi di tale obiezione verbale e,
questa sì, ideologica. [Per inciso, asserendo la necessità di fuoriuscire dal
sistema capitalistico, se si pretende giustizia sociale, certo non si vuole
(perché non si può) indicare alcuna soluzione precostituita, alcun sistema
sociale alternativo di cui nessuno peraltro conosce le caratteristiche].
Tuttavia, si riesce ugualmente a vedere che il sistema
dell’uguaglianza e della libertà borghese si basa esclusivamente sulla
proprietà, sul controllo e sulla disponibilità di capitale, di denaro, di
valore di scambio. [Non è forse lord Keynes che, senza ironia alcuna, scaglia i
suoi anatemi contro coloro che criticano i “giovani rispettabili” ansiosi di
intraprendere “la carriera del fare quattrini”, còlti dall’”ammirevole amore
del denaro”?]. La pervasività della merce dètta codeste leggi di libertà e
uguaglianza, su scala crescente, sempre più vasta, mondiale. L’uguaglianza dei
rapporti di scambio implica realmente lo sviluppo libero della società: ma è
uno sviluppo il cui massimo di libertà possibile ha una base limitata,
la base adeguata al capitale. Non si vede chi possa negare il dominio
assoluto della merce e, allo stesso tempo, la sostanziale ingiustizia che la
sua limitatezza comporta.
Secoli di esperienza storica drammatica consentono di
verificare queste affermazioni anche a chi non desidera contaminarsi con la
precoce analisi marxiana (che pure meriterebbe attenzione proprio da parte dei
riformisti, se fosse vero che da parte loro non sussiste discriminazione dei
criteri scientifici altrui: ma si sa, se la solitudine è il male dei
riformisti, la demonizzazione è la iattura dei rivoluzionari!). Marx riteneva
appunto un desiderio pio quanto sciocco che il prodotto non si trasformasse in
merce e la merce in denaro, che il valore di scambio non si sviluppasse in
capitale e il lavoro in lavoro salariato.
Questo desiderio - il desiderio che il capitale non
sia capitale, ossia che si eviti prudentemente, per quiescenza ideologica, di
considerarlo come tale - è sempre stato il desiderio di tutta l’economia
politica; e su ciò ora conviene richiamare l’attenzione. Se è facile accettare
la manifestazione di codesto desiderio in quelle scuole economiche che
proclamano a voce alta l’intangibile superiorità della società capitalistica,
ben altrimenti stanno le cose nei confronti di quel riformismo - come quello
suggerito negli obiettivi di politica economica da Caffè - che ne predicherebbe
la necessaria correzione. Non del neo-liberismo, equilibrato o squilibrato,
perciò, ma della teoria keynesiana (che è presa come uno dei fondamenti del
riformismo) si vuole qui mostrare l’incongruenza con siffatti obiettivi. Ad
maiora.
L’eccezione e la regola
Corre l’obbligo, dunque, di svolgere qualche considerazione
di maggior dettaglio analitico. Se Keynes pose, lì con sufficiente sarcasmo,
“l’enfasi sul prefisso generale” della sua teoria, intendeva però
effettivamente proporsi di integrare la teoria tradizionale per adattarla alle
caratteristiche della “società economica in cui realmente viviamo”. Conseguentemente
infatti, e stavolta senza scherzi, egli accettò tutti i postulati
teorici dell’economia dominante meno quello riguardante l’uguaglianza
tra l’utilità del salario reale e la disutilità marginale del lavoro [dal quale
soltanto derivano i corollari sugli equilibri relativi alla volontarietà della
disoccupazione, all’identità tra offerta e domanda aggregata o tra risparmio e
investimento, in forza della trita legge degli sbocchi di mercato di Say].
Ripetere simili formulazioni a tutti note va al di là della
banalità solo che si rifletta sulla portata dell’intero impianto analitico
dominante accettato da Keynes. Se le conseguenze relative alle soluzioni
di equilibrio comportate dall’eccezione keynesiana possono essere di non
poco conto, nulla o quasi cambia per quanto concerne invece i presupposti
riguardanti i fondamenti teoretici ed epistemologici comuni all’economia
marginalistica e neoclassica. Solo tra quanti siano ormai assuefatti da
molti lustri a muoversi in circolo entro i luoghi comuni dell’economia
dominante, un mutamento secondario può ricevere attenzione e rango di rivoluzione
teorica e intellettuale, ancorché incompiuta, anziché di semplice eccezione.
Il “reverendo” Keynes, d’altronde, si paragonò da sé a uno “formato da
cattolico nell’economia inglese, e anzi un prete di quella fede”, che
insoddisfatto della chiesa ortodossa polemicamente “diviene protestante”:
appunto, il passaggio dalla chiesa cattolica a quella protestante si chiamò riforma,
fu uno scisma che non ebbe il rango di rivoluzione, sanabile nei secoli perché
fondato sui medesimi principi di fede e di potere. Altre cose, molto ma molto
più lontane, sono l’apostasia e l’ateismo.
Tutte le principali concezioni economiche formulate nel
tempo dal pensiero economico marginalistico e neoclassico sono conservate
presso Keynes [funzione di produzione con pluralità di fattori qualificati come
originari, con connesse definizioni di capitale come mero oggetto prescisso
dai rapporti di proprietà che lo caratterizzano, dunque rabbassato a semplice
cosa di cui rintracciare una qualche misura, e di lavoro come servizio, dunque
spogliato della sua peculiare forma salariale storicamente determinata; funzione
di consumo di derivazione utilitaristica, con conseguenti apparati di
equilibrio appoggiati variamente sulla superficie delle relazioni di domanda e
offerta; connotazione delle varie determinazioni di carattere monetario come
superfetazioni, più o meno attive o passive, dello scambio, con relativa
attribuzione di esteriore convenzionalità al carattere della moneta; ipostatizzazione
delle condizioni di equilibrio, anche nella loro accidentale momentanea
carenza, come concezione apologetica dell’armonia sociale; ecc.].
Codesta comune appartenenza epistemologica delle teorie
considerate può sfuggire soltanto alle parti in causa direttamente coinvolte
in dispute accademiche, perlopiù sterili. Ma essa - ovvia per un marziano,
come sarà di evidente chiarezza ai futuri storici o archeologi della nostra era
economica, e che oggi è percepibile solo in una prospettiva critica
antagonistica - è di enorme rilevanza, se si vuole spiegare il nesso tra il
keynesismo e gli obiettivi del dominio capitalistico. Tralasciando questioni
più generali, organiche e complesse, si può circoscrivere qui l’attenzione a
due o tre nodi molto significativi e qualificanti, ma spesso trascurati.
“In nessuna scienza domina il costume di darsi tanta
importanza con luoghi comuni elementari come nell’economia politica”, avvertiva
Marx a proposito della scelta degli economisti di limitarsi alla conoscenza
delle categorie astratte della circolazione di merci, ignorando volutamente la
differenza specifica e le contraddizioni che caratterizzano la produzione e la
circolazione capitalistica delle merci stesse. Regredendo a identificare
la circolazione capitalistica con il semplice scambio di merci o addirittura
con la permuta di prodotti per l’uso immediato, gli economisti risolvono comodamente
i rapporti della produzione capitalistica nelle relazioni semplici dello
scambio o in quelle naturali del baratto e del consumo.
Nell’analisi dello sviluppo del processo sociale di
produzione, e dei corrispondenti rapporti economici più sviluppati, non si
scende dalla superficie più in profondità, rimanendo alla mera apparenza.
Così, l’economia dominante da oltre un secolo afferma semplicemente che tutti
i rapporti economici del capitale sono soltanto nomi diversi per i
medesimi rapporti sempre esistiti. Con una astrazione molto a buon mercato - è
proprio il caso di dire! - si passa indistintamente dal prodotto alla merce e
al denaro, allo scambio nella forma del capitale, dal lavoro al lavoro
salariato e al salario direttamente, al profitto, all’interesse e alla rendita
- come se nulla mutasse. Per la teoresi dell’economia politica, nei rapporti
economici tra Agnelli e Cipputi non fa alcuna differenza la compravendita di
prestazioni di lavoro tra i due rispetto all’acquisto, rispettivo, di una
pressa o di un frigorifero, di caviale o di sardine; come è considerato
perfettamente uguale, concettualmente, l’acquisto di un giornale da parte
dell’avvocato (quando si compra la testata) o del suo operaio (quando ne prende
una copia).
Su siffatte basi semplificate, l’economia del capitale viene
presentata come qualcosa di armonico, seguendo l’esempio di Bastiat e
Carey: e se oggi qualcosa non fila più liscio, come cento o duecento anni fa,
con Keynes torna a essere visibile la mano pubblica che Smith
riuscì a occultare nel mercato. Ne consegue che i “disturbi” del mercato,
anziché essere considerati immanenti al sistema stesso del capitale, sono
visti in concomitanza delle occasioni perdute e dei tentativi falliti per
realizzare libertà e uguaglianza nella loro vera natura.
Non stupisce, allora, che i riformisti si stupiscano - e
chiamino anormale - l’ingiusta distribuzione tra paesi o gruppi
sociali ricchi e poveri, o l’eccessiva concentrazione finanziaria
transnazionale, o l’abnorme supersfruttamento del lavoro [se in un
qualsiasi paese capitalistico dominante, i tre quarti della ricchezza è
concentrato nelle mani del 5% della popolazione, o se solo tre gruppi
finanziari detengono la metà della capitalizzazione di borsa, o se due miliardi
di persone “vivono” al di sotto di una ragionevole soglia di sussistenza, o se
gli organismi internazionali sono impotenti]: che sono certo ingiustizie,
eccessi o anomalie con riguardo alla semplice circolazione della merce e ancor
più all’utilizzazione immediata del prodotto, ma che appunto sono norma equa
per il capitale sulla sua base limitata.
Così pure Keynes, come tutti quanti, “lascia cadere a
piacere ora questo ora quel lato del rapporto specifico”, che - come annotava
Marx nel quaderno B” della prima stesura dei Lineamenti fondamentali
- “viene ridotto alle determinazioni astratte della circolazione semplice,
così dimostrando che le relazioni economiche, entro le quali gli
individui si incontrano in quelle sfere più sviluppate del processo di
produzione, sono soltanto le relazioni della circolazione semplice, e così
via”. Ovviamente, in quanto non si consideri la circolazione del capitale, la
realtà idealizzata conduce a una teoria che, facendo astrazione dalle
contraddizioni che si incontrano a ogni passo nella realtà stessa, non dà
luogo a difficoltà e crisi. Non vi sarebbero difficoltà e crisi se non vi
fossero contraddizioni!
La moneta falsa
L’ineffabile lord Keynes prese a prestito il suo “bignami”
di Marx dal modesto Mc Cracken, il quale riassunse alcune pagine sulla
circolazione del capitale nella sua teoria del valore e dei cicli. Di lì
Keynes - annotando le osservazioni nel supplemento alla teoria generale
- trasse la convinzione formale che “la natura della produzione nel
mondo reale non rientra, come gli economisti sembrano supporre, nel caso di M-D-M’,
cioè di scambio di merce (o servizio) contro denaro al fine di ottenere
un’altra merce (o servizio). Questo può essere il punto di vista di un
consumatore privato. Ma non è l’atteggiamento del mondo degli affari,
che rientra nel caso di D-M-D’, cioè di pagare con denaro merce (o
servizio) al fine di ottenere più denaro”.
Si è detto: convinzione formale. Infatti, già dalla semplice
esposizione della circolazione si capisce come Keynes si arresti al solo lato formale
della questione, cercando infatti di spiegare il nesso dei cicli dei
capitali col puro e semplice scambio tra denaro e merce (o servizio!,
accettando il servizievole aiuto di questa categoria non scientifica, con
un’operazione degna di un Say o un Bastiat). Sotto la superficie della sua
descrizione non vi è dunque altro che atti di scambio, posti solo in ordine
inverso: ciò che mostra come egli ignorasse o occultasse la sostanza che sta in
agguato dietro quel semplice mutamento di forma. I rapporti economici più
sviluppati vengono così rattrappiti nelle categorie antecedenti semplici, dando
a queste ultime solo nomi diversi e adeguati senza qualità
peculiari.
Non è un caso che l’accrescimento di denaro fosse attribuito
da Keynes alla generica conclusione di affari: “del resto corrisponde
all’orizzonte borghese, in cui il concludere affarucci occupa tutta la mente,
di non vedere nel carattere del modo di produzione il fondamento del modo di
traffico a esso corrispondente, ma viceversa” - commentò con grande anticipo
Marx, concludendo l’analisi del ciclo di metamorfosi del capitale. In effetti
sarebbe vano sforzo cercare in Keynes la motivazione del possibile
accrescimento di denaro (di valore e di capitale) nel processo immediato di
produzione. Coerentemente con il rabbassamento della sua analisi, Keynes
imputò a Marx un “uso altamente illogico” della “pregnante osservazione”
relativa all’eccesso di D’ su D: ovverosia, che questo eccesso
“è per Marx la fonte del plusvalore”. Per l’appunto, l’occultamento del
fondamento produttivo fa invertire causa e effetto, cosicché il risultato
dell’accrescimento di denaro venne letto da Keynes sul suo “bignami” come la fonte
del plusvalore medesimo: sotto il denaro, niente!
Il fatto che l’eccesso di denaro fosse reputato da Keynes
soltanto possibile evidenzia il carattere puramente formale della sua
rappresentazione. A suo dire, l’errore di Marx sarebbe stato di ritenere D’
sempre e necessariamente in eccesso su D a causa del carattere di
sfruttamento del sistema capitalistico, mentre invece per lord Keynes, seguace
di Major Douglas, è parimenti lecito che sia D in eccesso su D’!
Di qui provenne il tentativo keynesiano di “una riconciliazione tra i seguaci
di Marx e quelli di Major Douglas”, in dispregio degli economisti “classici” e
della loro opinione che D e D’ fossero sempre uguali.
Ma soprattutto, una simile affermazione keynesiana sembra
fatta in totale ignoranza della storia del capitalismo, dove non si capisce
come sia possibile non vedere l’ineluttabile sistematico enorme accrescimento
di D’ rispetto a D negli anni e nei secoli, nel tempo e nello
spazio: i casi contrari nell’intera epoca del capitale si contano, nella
pratica, sulle dita della mano. Nella teoria, poi, il denaro valorizzato -
prima della sua realizzazione, e questo è il caso trattato come categoria
concettuale, appunto - non può che essere maggiore di quello anticipato, per
definizione [poiché ciò rimane vero in generale anche in caso di crisi, per
avere la quale basta un eccesso di valore minore di quello atteso].
A parte la proposta riconciliazione di cui nessuno sente
francamente l’esigenza, perciò, dovrebbe essere ormai chiara a chiunque
l’indiscutibile appartenenza di Keynes stesso alla scuola di coloro che si
aggirano nei luoghi comuni elementari dell’economia politica, per ridurre alle
forme astratte della circolazione semplice le relazioni sviluppate del
capitale: con l’aggravante di una maggiore incoerenza nell’assunzione confusa
e capovolta del nesso formale, e di una conseguente minore proprietà di
linguaggio.
Il nome del capitale (senza salario)
Il nome di capitale è dunque usato anche da Keynes in
maniera surrettizia. Quello che opera sotto falso nome nel suo sistema
teorico, come denaro, fa da mantello al reddito monetario
speculativo - e ciò in ammirevole sintonia con l’indole, l’esperienza
pratica personale e gli interessi costituiti, che vengono ben prima delle sue
idee, del lord suddetto. D’altronde, solo speculando in mille affarucci si può,
quando va bene, intraprendere “la rispettabile carriera del far quattrini”,
semplicemente scambiando il denaro con beni e servizi! Altrimenti occorrerebbe
mettere in movimento un processo produttivo mediante lavoro.
Non è neppure importante ripetere che questo ha da essere lavoro
altrui non pagato. Non si parli nemmeno di teoria dello sfruttamento, qui.
Affidandosi unicamente alla convinzione di un capitalista pratico, o al buon
senso di qualsiasi agente della produzione capitalistica, ciò che viene ritenuto
elemento di distinzione sufficiente tra un capitalista e un comune mortale è
che il primo si caratterizza per avere alle sue dipendenze dei
lavoratori, operai o impiegati, fissi o giornalieri. Rintracci, chi ne è
capace, la necessi-tà di tale ipotesi per il funzionamento dello schema
di circolazione keynesiano. La parola salario, certo, la si trova: ma
al di là del suo impiego meramente descrittivo, la sua funzione
economica specifica è del tutto assente e pertanto essa risulta affatto
inessenziale alla logica della teoria generale.
Non diversamente vanno le cose per la sovrastante funzione
di produzione neoclassica, dove ciò che appare funzionale al sistema è
la presenza di lavoro senza altra qualificazione in mezzo a una
moltitudine di altri fattori e “servizi” produttivi [l’insulsa metafora delle
“robinsonate” del XVIII secolo, infatti, prosegue indisturbata per la sua
strada]. La forma sociale della dipendenza dal capitale non conta nulla,
talché non si comprende di che capitale si stia parlando, riuscendo
così a confondere anche quelle poche idee non sbagliate che le persone si sono
fatte a fatica nella vita pratica. Per rivolgere a Keynes parole da lui stesso
usate per criticare i postulati tradizionali, ci si può perciò ritenere
“fortunati che i lavoratori, sebbene inconsciamente, siano più ragionevoli
degli economisti”.
Già solo sulla base dei presupposti teorici fin qui
scandagliati - mostratisi atti solo a mistificare il rapporto di capitale come
semplice rapporto di scambio, occultandolo inoltre sotto il mantello della
circolazione monetaria - qualcuno dovrebbe spiegare come si ritenga possibile
torcere la teoria keynesiana, non le corrispondenti chiacchiere
politiche economiche, a sostegno di un riformismo che si voglia “giusto e
egualitario”: dal momento che le categorie utilizzate non rispondono al vero,
ipostatizzando una natura semplice degli scambi che non rispecchia la
specificità dei rapporti di capitale. Ma si sa che domande di tal fatta non
debbono porsi in sede accademica, giacché, non essendo ritenute degne, non ci
si può attendere risposta.
Conviene dunque passare oltre, e aggiungere un corollario:
ovvero, trattare qui come semplice corollario una questione di grande rilevanza
che richiederebbe un’analisi specifica a sé stante. Dalla trasposizione, anche
keynesiana, della circolazione del capitale in circolazione semplice delle
merci, unitamente alla superfetazione, tutta keynesiana, della forma monetaria
di tale circolazione (in apparente critica alla legge di Say), emerge la spiegazione
del possibile equilibrio di sottoccupazione, e di qui della cosiddetta crisi
di sottoconsumo. Senza entrare nel merito della teoria delle crisi, si
possono fare alcune osservazioni essenziali.
Nell’ambito ipotizzato di scambio semplice di merci, l’acquisto
di tali merci non può che risolversi nel consumo: dunque, il mancato eventuale
accrescimento del denaro non può che derivare dall’insufficienza di
consumo; dunque, ancora, la crisi dovuta a tale sottoconsumo può
essere risolta o preventivamente evitata con l’aumento della domanda;
dunque, infine, la crisi stessa non è necessaria e immanente ma solo possibile
e accidentale. Essa non deriva, secondo Keynes, da contraddizioni
intrinseche del modo di produzione capitalistico, ma unicamente da sue
disfunzioni contingenti: questo perché, banalmente, il nome di capitale è
conferito a ciò che non funziona affatto come capitale. Il capitale è un
semplice ectoplasma. Non può darsi crisi di sovracapitale se non c’è
capitale; e se c’è solo consumo la crisi sarà di sottoconsumo!
Il fantasma di Monsieur Say - esorcizzato da Keynes troppo
frettolosamente, dati i presupposti epistemologici comuni - riappare
semplicemente con, in più, la mano artificiale che lo stesso Keynes ha reso visibile
per riaggiustare il perduto equilibrio, non più automatico e spontaneo, con la
domanda pubblica creata surrettiziamente dall’offerta pletorica e strozzata. Ma
il problema vero non si può risolvere attraverso il ristabilimento artificioso
dello stato reale della domanda. Sul mercato non ci sono semplici scambisti
uguali. Quelli che si contendono il posto sono i capitali-merce, disposti a
vendere a qualunque prezzo quando scadono i termini di pagamento. Qui, nella
assoluta necessità di trasformare merce in denaro, si tratta di domanda di
pagamento, non dell’immediata domanda di consumo; si tratta cioè dello
scambio di capitale con capitale, di capitale-merce con capitale-denaro, del
processo di riproduzione del capitale. Altrimenti scoppia la crisi.
Questo punto merita un paio di brevi commenti. Quanti
continuano a assimilare la crisi di sottoconsumo keynesiana (e, perché no,
luxemburghiana, se non senz’altro sismondiana) alla crisi da
sovraproduzione marxiana - soprattutto attraverso la “vulgata marxista”
più o meno sweeziana - hanno semplicemente dimenticato di confrontare
preventivamente la natura dei rispettivi processi di circolazione. Si è detto:
sovraproduzione di capitale (capitale-merce), eccesso di valore incapace di
portare plusvalore, è possibile solo laddove sia sviluppato teoricamente il
processo di produzione del valore-capitale e del plusvalore; se ciò manca, non
si sa neppure di che cosa si stia parlando, e resta solo la sproporzione tra
produzione semplice di merce e consumo, manifestata nello squilibrio
momentaneo dello scambio. Sono due fenomeni completamente differenti.
L’altra considerazione è suggerita dalle sfortune keynesiane
nel fallimento delle omonime politiche economiche e nella retrocessione del
cosiddetto stato sociale. Alla luce di quanto ora esaminato, non fa meraviglia
alcuna quanto accaduto: tutto era già scritto e annunciato nell’analisi
teorica, solo che si fosse voluto capire che con interventi dettati dalla
logica dello scambio semplice delle merci nessuno avrebbe potuto mai
credibilmente risolvere i “disturbi” della sovraproduzione di capitale. Ma i
riformisti keynesiani, non volendo ammettere tali incongruenze e
drammatizzando polemicamente con la perfidia del neo-monetarismo liberista,
ripetono così gli stessi errori dei liberoscambisti volgari. Tant’è.
Il capitale è (ma non esiste)
La sovraproduzione di capitale - dunque la sovraccumulazione
e la sovraproduzione generalizzata di merci sulla base del capitale - è
bandita anche dal keynesismo che sembra parlare di denaro e capitale, giacché
dietro tali parole c’è solo scambio monetario di semplice merce. Ciò ha altre
pesanti implicazioni. Il nome di capitale viene ulteriormente
“smerciato” in un contesto dove esso è parimenti fuorviante, in un’assurda
fantasia.
Non dovrebbe suscitare dubbi, a questo punto (ma non è mai
detto!), l’affermazione che il capitale è una determinazione economica diversa
da quella di valore, o di merce, poiché se tutti i capitali sono valori, merci,
non tutti i valori o merci in quanto tali sono capitale. Il limite della
produzione capitalistica di merci, che fa del capitale una
contraddizione vivente, consiste appunto nella tendenza a espandere al massimo
la produzione di valori ma contemporaneamente a ostacolarla, nella misura in
cui in tali valori non è realizzabile il plusvalore, o se si preferisce
il profitto.
Per realizzare il profitto, il capitale deve necessariamente
scambiare con un equivalente i valori-merce che ne costituiscono la
base. Questo scambio costituisce quel processo che Marx, hegelianamente,
connotava come “un movimento di repulsione da se stesso”, repulsione reciproca
dei capitali che è già implicita nel capitale in quanto valore di scambio
realizzato. Si è appena ricordato che per il capitale - in quanto
specificamente distinto dalla merce semplice - non si tratta di soddisfare lo
stato della domanda reale di consumo immediato, bensì di ristabilire ogni volta
la domanda di pagamento per realizzare il profitto.
Questa contraddizione specifica si mostra in tutta la sua
forza nella seguente circostanza, per ciascun capitalista: i propri
lavoratori gli stanno di fronte come elementi del costo di produzione, che egli
desidera restringere, mentre i lavoratori degli altri capitalisti sono
considerati come consumatori delle sue merci, il cui salario da spendere deve
essere per lui il più grande possibile. Che ciò rappresenti un’illusione, cui
però tende realmente il singolo capitalista in confronto a tutti gli altri, è
ovvio guardando al sistema nel suo insieme. Di qui la contraddizione immanente
della molteplicità dei capitali che fa tornare ancora una volta la differenza
specifica tra scambio semplice e accumulazione, tra sottoconsumo e
sovraproduzione, e che evidenzia la pochezza teorica della teoria keynesiana
della domanda effettiva.
In altri termini, il capitale è compiutamente definito come
tale solo quando abbia di fronte a sé altri capitali con cui scambiare.
Altrimenti si darebbe ancora una definizione manchevole, puramente nominale,
assurda, di capitale come capitale universale, unico e privo di
molteplicità autocontraddittorie. Codesta manchevolezza è proprio quella che
caratterizza la teoria di Keynes e tutti quanti. Per costoro: il
capitale è!
Già il riformista Proudhon, imitando l’economia borghese,
cadde nell’equivoco di far perdere teoricamente alla società capitalistica -
nel momento stesso in cui la si considera in blocco, come totalità -
proprio il suo specifico carattere storico economico, ovvero la sua
articolazione contraddittoria tra molti capitali, la sua contrapposizione al
lavoro salariato dipendente e la sua tendenza all’incessante produzione per
l’accumulazione, anziché per il consumo immediato e il godimento. Come si
vede, non è nuovo l’imbroglio di considerare una economia capitalistica come
qualcosa di unitario, il cui scopo sarebbe la produzione e il consumo finale di
valori d’uso, come una “famiglia” o bene che vada come una “azienda”: le
premesse teoriche del corporativismo sono tutte racchiuse in questa
concezione.
Le radici di tale confusione traggono linfa proprio dalla
soppressione della molteplicità contraddittoria dei capitali, e cioè dalla
considerazione del capitale come unico [considerazione anche qui da esaminare
sul piano assolutamente teorico, giacché le chiacchiere sociologiche con cui si
mutua il linguaggio comune obnubilano volutamente la portata scientifica di
codesta soppressione logica]. Come per il caso precedentemente criticato -
circa l’assenza di una funzionalità specifica necessaria della forma del lavoro
salariato per la validazione della teoria dominante - così ora in tale
medesima teoria non è mai necessaria l’ipotesi della pluralità di
capitali.
Proprio in virtù di tale fantasia - allorché si supponga
l’insieme compatto dei lavoratori che vende i propri servizi all’insieme
compatto dei capitalisti, in forma aggregata o disaggregata, facendo inoltre
astrazione dalle frizioni del mercato, del credito e della speculazione -
nessuna crisi avrebbe luogo giacché l’equilibrio ipostatizzato sarebbe sempre possibile,
in una maniera o nell’altra, visibile o invisibile, differita o simultanea.
Nell’ambito della disaggregazione invisibile del mercato simultaneo
neoclassico, allora, non si dà crisi poiché la sola forma di disequilibrio, che
possa essere introdotta momentaneamente [per la durata di un solo “periodo”
del modello] come spiegazione coerente, rimanda alla accidentale sproporzione
tra i diversi rami della produzione o tra il consumo improduttivo dei
capitalisti e la loro stessa accumulazione. Nello stesso ambito, gli
squilibrati orfani dell’equilibrismo economico differiscono
semplicemente nel tempo tali sproporzioni su basi note a priori,
e denominano il tutto “aspettative razionali” per una teoria del disequilibrio.
Grande trovata!
Il passo alla teoria dell’aggregazione è breve. Non è
un caso, allora, che la parvenza della crisi aleggi nella teoria
generale keynesiana come sottoconsumo a causa di posticce frizioni sul
mercato del lavoro, di accantonamenti monetari speculativi o di sfasamenti non
simultanei negli equilibri supposti. Ma ciò, appunto, è affatto inessenziale.
Le determinazioni teoriche fondamentali non lo richiedono e sono le medesime
della teoria dominante da cui provengono. Inoltre, in un sistema teorico
macroeconomico aggregato, gli insiemi compatti di capitale e lavoro appaiono
direttamente come grandezze unitarie, in una sorta di monopolio bilaterale.
Le condizioni di determinazione univoca dell’equilibrio cadono, e con esse
quelle della loro stabilità. Ma neppure si pongono le determinanti del non
equilibrio e della crisi. Non c’è più nulla che abbia basi scientificamente
fondate [ed è conseguente che si ipotizzino soltanto soluzioni collusive di
tipo oligopolistico].
La nuova alleanza corporativa
Dall’assurda fantasia del capitale unico - che, è
bene ripeterlo, appare come ipotesi teorica ben nascosta sotto il
mantello delle suadenti argomentazioni di senso e linguaggio comune - deriva
la falsa denotazione della concorrenza secondo l’economia politica. Il
continuo parlare di concorrenza e competitività da parte dell’ideologia
borghese non deve trarre in inganno. La concezione dominante di “concorrenza”,
infatti, esprime il perseguimento, invisibile o visibile, dell’identità di
interessi del singolo capitalista con quelli dell’intero capitale come
classe, in vista del raggiungimento dell’equilibrio e dell’armonia.
La mano del capitale, in una maniera o nell’altra,
secondo l’ideologia borghese, conduce a siffatto equilibrio. Quando l’economia
politica discetta di concorrenza e competitività - anche qui nei termini
puramente teorici dell’accademia, e non in quelli pratici dei
capitalisti operanti come “fratelli nemici” - suppone il reciproco
concorso non conflittuale tra le molteplici, eventualmente atomisticamente
infinite, unità decisionali contemplate: cosicché quella molteplicità
funziona logicamente come unità.
Codesta unità deprivante delle determinazioni di concorrenza
è, come detto, ancora più esplicita nell’aggregazione keynesiana, che a maggior
ragione ricade nella medesima concezione di realtà idealizzata. Occorre darne
alcune valutazioni. Chiunque sfogli la teoria generale keynesiana non
incontrerà mai un luogo dove la concorrenza, al pari della molteplicità
dei capitali, svolga un ruolo logicamente necessario. Si imbatterà appena in
quattro o cinque pagine dove la parola è semplicemente scritta, perlopiù
come condizione definitoria esistente per la teoria “classica” o per il mercantilismo.
Solo nella settima proposizione del principio della domanda effettiva, Keynes
attribuisce alla concorrenza neoclassica la funzione specifica di aggiustare l’equilibrio
reale della domanda per qualsiasi livello neutrale di occupazione: confermando
così, anche in quest’unico caso operativo, la concezione della concorrenza
come armonia indistinta entro un capitale del tutto omogeneo. Sono ovvie le
conseguenze.
La contesa tra i diversi capitali per accaparrarsi il
massimo profitto individuale è soppressa; cosicché si teorizza che sia la
concorrenza a condurre il tasso di profitto al minimo di equilibrio -
all’irreale livello zero, naturalmente, come zero è l’irreale
rendita fondiaria al margine! - anziché capire che è la caduta critica di esso
a scatenare quella. Come pure scompare, quindi, la disputa incessante tra
profitto bancario (interesse monetario) e profitto industriale (efficienza
reale del capitale), rattrappita in una perentoria e perenne condizione di
uguaglianza; laddove, nelle varie fasi del ciclo, “la quiete è solo un caso
limite della contesa” - per dirla hegelianamente con Brecht - per l’alterna
supremazia ora dell’uno ora dell’altro.
L’eccezione diviene la regola. Il conflitto si trasforma in
collusione. L’antagonismo è soppiantato dall’armonia. La crisi cede il passo
all’equilibrio. Il molteplice diventa uno. Ogni contraddizione è soppressa. All’immagine
del capitale che viene al mondo grondando sangue da ogni poro - come scrivevano
gli storici francesi del settecento - si sostituisce la rappresentazione dei
rapporti idilliaci voluta dall’economia politica.
Trascurando le ragioni per cui i capitalisti si comportano
come dei falsi fratelli quando si fanno concorrenza, si considera viceversa
solo quella parte della realtà del rapporto di capitale - quando le cose vanno
bene per la borghesia - che Marx descriveva come l’azione di “una vera
massoneria nei confronti della classe operaia nel suo complesso”.
Avviandosi a trarre delle conclusioni interpretative - a
partire dalle considerazioni logiche e teoriche svolte sui comuni fondamenti
epistemologici e ideologici del keynesismo con tutta l’economia politica del
capitale - viene da chiedersi ancora una volta come si possa cercare di fondare
un “riformismo egualitario” su simili basi, che concorrono tutte,
teoreticamente, a organizzare gli interessi costituiti del capitale come classe
e a occultare il reale rapporto antagonistico di capitale nei confronti dei
lavoratori. Si avanza il sospetto, più che fondato, che per difendere
realmente il cosiddetto stato sociale occorrano ben altri fondamenti
teorici e strumenti d’intervento. E soprattutto che occorra la manifestazione
pratica di una capacità di lotta sociale in grado di imporre in maniera
antagonistica gli obiettivi ambìti.
Il sedicente eretico lord Keynes ha mostrato con le
sue stesse parole di che stoffa sia fatto il suo mantello. Pur considerando
“non tutti idioti” i seguaci del Capitale marxiano, Keynes considerò
quel libro - la cui conoscenza per lui fu a livello “bignami”, come detto e
ulteriormente dimostrabile - alla stregua fideistica del Corano, sotto
forma di “una dottrina illogica e noiosa”, peraltro scritto “in maniera
spregevole”, dunque “non solo scientificamente errato, ma privo di interesse e
possibilità di applicazione nel mondo moderno. Un credo che esalta il rozzo
proletariato al di sopra della borghesia e dell’intellighenzia, le quali, per
quanti siano i loro difetti, sono l’essenza della vita, e portano sicuramente
in sé il seme di ogni progresso umano”. Su tali idee egli esaltò il “socialismo
anti-marxista” di Gesell.
Ma queste sono opinioni teoriche, e come tali vanno intese.
Dunque, non sufficientemente pago della sua opera a favore della borghesia,
Keynes non mancò di rincarare la dose in termini politici e ideologici. Sorvolando
qui sul giudizio personale su Lenin, Keynes reputava i comunisti “pronti a
sacrificare le libertà politiche individuali al fine di cambiare l’ordine
economico esistente, come i fascisti e i nazisti”. Cosicché, insieme al collega
Wicksteed, poté stigmatizzare l’azione sindacale come “microbo del malessere
della civilizzazione”. Non sorprende, di conseguenza, che egli considerasse
quanti lottavano per il socialismo persone “terribilmente di seconda scelta”,
“istupiditi dagli errori intellettuali di slavi ed ebrei”, i quali ultimi “nel
fondo del loro cuore sono nazisti o comunisti, e dunque non hanno neppure
alcuna nozione di come fu costruito o è sostenuto il Commonwealth”.
Forte di queste armi, lord Keynes non esitò - cercando
vanamente di prevenire un uso improprio delle sue teorie in senso riformista -
a definire “moderatamente conservatrici” le implicazioni della teoria
generale. Quelle che immaginò come “necessarie misure di socializzazione”
erano volte a salvaguardare il potere capitalistico costituito senza
“necessità alcuna di un sistema socialista” e “senza una rottura nelle
tradizioni generali della società”. A coronamento di ciò, anzi - il 7 settembre
del 1936, quando il nazismo dominava apertamente da più di tre anni e quando
il dr. Schacht guidava l’economia germanica da ancor più tempo – Keynes offrì
la sua opera agli economisti tedeschi “affamati e assetati” di teoria:
asserendo molto candidamente che la sua teoria generale “si adatta assai
più facilmente alle condizioni di uno stato totalitario”. La chiarezza dei
tempi e dei modi del suo dire dovrebbero togliere qualunque dubbio
interpretativo. Ma si sa che così non è.
Egli era sicuro che “l’individualismo, emendato dei suoi
difetti e dei suoi abusi, è la miglior salvaguardia della libertà personale”.
Per concludere, è istruttivo ricordare in proprosito un suo accorato appello
ai giovani: “è duro per un figlio dell’Europa occidentale, istruito, perbene,
intelligente, ritrovare i suoi ideali nella confusa paccottiglia delle librerie
rosse. A meno che non abbia precedentemente subìto qualche strano e orribile
processo di conversione, che abbia sconvolto tutto il suo ordine di valori”.
Non c’è nulla da aggiungere alla parole autentiche di lord
Keynes, dunque, tranne precisare che non sono state riferite per discuterle o
criticarle, ma semplicemente per mostrare da che parte egli stia. Si può
condividere il conservatorismo neocorporativo di Keynes o lo si può combattere,
ma non lo si può mistificare. Il suo lacero mantello non può in nessun caso
essere tirato a sinistra, questo è certo e solo questo qui si è voluto
motivare. Che cosa c’entri il riformismo e lo stato sociale rimane un mistero
insolubile.
Adagietto nel Nulla (per non annullarsi)
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