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Losurdo, Domenico, La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra
Roma, Carocci, 2014, pp. 303, euro 23, ISBN 978-88-430-7534-2
Il lavoro di Losurdo parte dalla constatazione che, di
fronte a una crisi economica e politica, caratterizzata dallo svuotamento della
democrazia e dall’affermazione di una “plutocrazia” sempre più dominante, in
Occidente c’è una sinistra assolutamente incapace di produrre un’analisi di
questa duplice crisi e di articolare un progetto di lotta e di trasformazione
politica della realtà esistente.
Si riscontrano due processi fra di loro intrecciati: la
“grande divergenza” fra l’Occidente e il resto del mondo (in particolare
la Cina) tende a ridursi, mentre nei paesi
capitalisticamente più avanzati si afferma la “grande divergenza” fra un’élite
opulenta e il resto della popolazione. Di fronte a questa situazione
l’Occidente capitalistico procede smantellando lo stato sociale e tenta
contemporaneamente di ristabilire la propria supremazia internazionale
attraverso il ricorso a guerre neocoloniali. L’ideologia dominante punta a
giustificare lo smantellamento dello stato sociale come necessaria conseguenza
della crisi economica, in realtà, mostra Losurdo, ciò che avviene ai nostri
giorni è il frutto di «una lotta di classe che abbraccia oltre due secoli di
storia» (p. 22). Ad esempio, alla fine della seconda guerra mondiale, Hayek
sottolineava come il welfare state inglese costituisse una minaccia per le
caratteristiche fondamentali della civiltà occidentale, mentre negli anni ‘70
definiva i “diritti sociali ed economici”, sanciti dall’Onu, frutto
dell’influenza rovinosa della rivoluzione bolscevica. L’attacco a questi
diritti non si origina quindi in riferimento alla crisi economica.
Con la guerra fredda si è affermata un’ideologia secondo cui
il mondo capitalista coinciderebbe con il “mondo libero”, ma proprio a causa
del trionfo in questa guerra le condizioni all’interno dell’Occidente sono
peggiorate: crisi, precarietà, licenziamenti, disoccupazione e riduzione delle
libertà sindacali. La lotta secolare del movimento operaio, che era anche una
lotta per la libertà volta a ridurre il potere esercitato dalla volontà altrui,
oggi viene progressivamente ricacciata indietro. La diseguaglianza economica si
traduce in diseguaglianza politica. Abbiamo quello che l’autore chiama
“monopartitismo competitivo” (p. 52) in cui due partiti fanno riferimento a uno
dei due gruppi di interessi in cui si articola la ristretta minoranza che
controlla la ricchezza e la vita politica del paese; la conseguenza è che i
movimenti di protesta sfociano in jacquerie urbane prive di sbocco politico e
di riferimenti all’interno del parlamento, a riprova di come le masse popolari
si trovino prive di rappresentanza in organismi che sono eletti sulla base di
quella che di fatto è una discriminazione censitaria, o nel rafforzarsi dei
partiti populisti.
Il grande merito del liberalismo è stato quello di puntare a
introdurre norme capaci di limitare il potere. Il potere assoluto di vita e di
morte, esercitato da Washington anche su interi popoli, dovrebbe allora
apparire come inaccettabile per l’Occidente liberale che invece si preoccupa
soltanto quando questo potere viene messo in discussione da qualche resistenza
inaspettata. D’altro canto i grandi teorici del liberalismo, come Acton, Mill,
Tocqueville quando parlano di libertà si riferiscono esclusivamente alla
comunità bianca e non hanno nessuna difficoltà a teorizzare il dispotismo
dell’Occidente sulle razze “minorenni” e sulla stessa strada si porrà poi
Popper. L’idea della “democrazia per il popolo dei signori” attraversa in
profondità la storia dell’Occidente liberale, ma in modo analogo finisce per
argomentare la sinistra che eredita tutti i limiti della tradizione
liberale.
La svolta avvenuta fra il 1989 e il 1991 non basta a
spiegare la debolezza di cui continua a dar prova la sinistra occidentale. Il
grande capitale si basa non soltanto sul monopolio della produzione, ma anche
su quello delle idee e elle emozioni attraverso quello che Losurdo chiama
“terrorismo dell’indignazione” (p. 76). Siamo di fronte a un “uso strategico
del falso”, si punta, attraverso i media, a suscitare un’ondata di indignazione
contro il nemico, così possente, da sancirne una sorta di scomunica dalla
comunità internazionale e dal genere umano. Dal 1991 si può vedere come la
società dello spettacolo svolga un duplice ruolo bellico: da un lato alimenta
il terrorismo dell’indignazione e dall’altro fa apparire come un gioco
sostanzialmente innocuo i bombardamenti che vengono scatenati contro il
nemico.
È all’opera una specie di sillogismo di guerra: ci sono
valori universali, l’Occidente ne è il custode esclusivo e quindi ha il diritto
di esportarli anche con la guerra. La pretesa dell’Occidente e degli Stati
Uniti di porsi come campioni dei valori universali non è una novità e non da
oggi questa pretesa è priva di qualsiasi credibilità: già nel 1809 il
proprietario di schiavi Jefferson celebrava gli Stati Uniti come “impero per la
libertà” (p. 163); Clinton parlerà dell’America come della “più antica
democrazia del mondo” dotata di una “missione senza tempo” (p. 164), ma questa
patente di democrazia attribuita agli Stati Uniti al momento della loro
fondazione tace il genocidio delle popolazioni indigene e la schiavitù dei
neri. La “democrazia”, sottolinea Losurdo, continua a essere celebrata in modo
non universalistico facendo astrazione dalla sorte inflitta ai popoli coloniali.
La pretesa di un singolo paese o di una singola civiltà di porsi come
incarnazione dell’universalità è esattamente la negazione dell’universalismo:
«ad agitare con zelo particolare la bandiera dell’universalismo è il paese che
incarna l’etnocentrismo più esaltato» (p. 164).
Siamo di fronte oggi a un “neocolonialismo
economico-tecnologico-giudiziario” articolato in modo da poter garantire un
controllo dell’economia dei paesi assoggettati o da assoggettare in modo da
agevolare la loro sconfitta già con l’isolamento economico o con l’embargo, una
superiorità tecnologico-militare in grado di ridurre all’impotenza
l’avversario, una potenza di fuoco multimediale che presenta il nemico come un
barbaro estraneo al genere umano e trasgressore dei diritti umani, una doppia
giurisdizione che garantisce l’impunità all’aggressore. Sul piano
internazionale gli Stati Uniti si comportano come i detentori del monopolio
della violenza legittima riservando a se stessi lo jus ad bellum. D’altro canto
la sinistra occidentale condivide tutto ciò pensando di dar prova di
“internazionalismo” senza rendersi conto che lo “Stato mondiale” che appoggia
non è altro che l’“Impero planetario” cui punta di volta in volta la potenza
più ambiziosa e sciovinista.
Secondo Losurdo a rappresentare ora la causa
dell’anticolonialismo è la Cina, il paese cioè che ha sintetizzato la storia
del movimento comunista e di quello anticolonialista. L’ottenimento
dell’indipendenza non comporta il superamento della questione coloniale, visto
che rimane da colmare il distacco economico e tecnologico dai paesi capitalisti
più avanzati. Questa consapevolezza della necessità di una nuova tappa della
rivoluzione anticoloniale è, per l’autore, il merito principale di Deng
Xiaoping. Bisogna comprendere la lotta anticapitalistica a partire dalla
centralità della lotta fra colonialismo e anticolonialismo; vi è la necessità
di passare da una fase prevalentemente militare a una fase prevalentemente
economica della rivoluzione anticoloniale.
Losurdo contesta le posizioni di chi vede nella Cina un
paese caratterizzato da un capitalismo autoritario di stampo neoliberista e
sottolinea come la ricchezza prodotta da questa crescita economica eccezionale
non possa essere interamente utilizzata per realizzare lo stato sociale visto
che occorrono forti investimenti per sviluppare le forze produttive, condizione
per mantenere lo stato sociale stesso. La guerra fredda sul piano ideologico si
è combattuta anche in questo modo: se il campo socialista esibiva uno spazio
senza precedenti garantito ai diritti economici e sociali, l’Occidente
rispondeva introducendo uno stato sociale più o meno avanzato ed esibendo una
società dei consumi decisamente più opulenta, ma se una società
postcapitalistica non affronta adeguatamente la sfida rappresentata dalla
società dei consumi non è in grado alla lunga di difendere lo stato
sociale.
La sinistra nel suo complesso non sa opporre una reale
resistenza all’offensiva reazionaria, cerca anzi di distinguersi come uno dei suoi
protagonisti più zelanti. Abbiamo quella che l’autore definisce una “sinistra
imperiale”, il cui esponente più illustre è Bobbio, che condanna il comunismo
per aver sacrificato la morale sull’altare della filosofia della storia e
contemporaneamente ne trasfigura in chiave morale gli antagonisti procedendo a
giustificare le guerre scatenate dall’Occidente. La sinistra imperiale non fa
mai riferimento agli interessi materiali del quadro geopolitico rinviando
soltanto ai grandi principi morali.
Uno stato sociale non si realizza senza risorse finanziarie
rese disponibili dall’imposizione fiscale progressiva bersaglio privilegiato
del neoliberismo. Il filosofo tedesco Sloterdijk parla di “redistribuzione
coatta” e di “sistema dominante di coercizione fiscale” contrapponendo un
“incremento della beneficenza” e dell’“etica del dono” (p. 254), trasfigurando
così gli evasori fiscali in campioni della resistenza contro la “coercizione”
statale e i fautori dello stato sociale come nemici della libertà. Ma queste posizioni
trovano rispondenza a sinistra con Žižek secondo il quale, dato il fondamentale
egoismo degli esseri umani, è solo lo stato col suo apparato coercitivo che
obbliga a contribuire al benessere comune, ma questo compito deve essere invece
svolto da una “solidarietà” volontaria e spontanea. A partire da queste
posizioni anarcoidi, conclude Losurdo, non è possibile difendere né i diritti
sociali ed economici né la democrazia nella sua dimensione interna e
internazionale. Anche in un altro autore di riferimento dell’odierna sinistra
occidentale, Latouche, troviamo una delegittimazione dello stato sociale,
infatti, secondo il teorico della “decrescita”, voler salvare l’occupazione a
tutti i costi indica un attaccamento viscerale alla società lavorista. Paradossalmente
la catastrofe non è la miseria di massa dell’immediato dopoguerra, ma il suo
superamento. Con Latouche non si comprende poi che il Terzo mondo è in larga
parte il risultato della deindustrializzazione e della decrescita che sono
state imposte dall’aggressore imperialista.
La sinistra occidentale, ormai indistinguibile dagli altri
partiti borghesi, è parte integrante del monopartitismo competitivo che
caratterizza i paesi capitalisticamente avanzati. Si stanno delineando pericoli
di guerra su larga scala, ma tutto ciò non preoccupa la “sinistra imperiale” e
questa spensieratezza è legittimata da una sinistra “radicale” secondo la quale
vi è una borghesia unificata a livello planetario cui si contrappone una
“moltitudine” altrettanto unificata dal superamento delle barriere statali e
nazionali.
Losurdo prosegue anche con questo interessante lavoro
un’opera da tempo intrapresa nel tentativo di smascherare, in contrapposizione
all’ideologia della “democrazia”, della “libertà”, dei “diritti umani” imposti
spesso con le armi della Nato, la realtà dell’imperialismo dominante. Il lavoro
è inoltre arricchito da puntuali riferimenti storici attraverso i quali
l’autore procede a supportare le sue tesi. Ciò che convince meno è la difesa
del carattere socialista della Cina. Losurdo contrappone alle tesi di Harvey,
che sostiene la dimensione neoliberista dell’economia cinese, il fatto che in
Cina vi siano politiche volte a favorire l’occupazione se mai definibili, come
ammesso anche da Harvey, come keynesiane. Resta il fatto però che il keynesismo
è un fenomeno interno al modo di produzione capitalistico e realizzabile in una
fase di espansione economica. La questione dirimente da questo punto di vista
rimane quella di stabilire quale sia il modo di produzione dominante nella
Repubblica popolare cinese. Il “pivot to China” dell’imperialismo statunitense
allora non è tanto volto a impedire un processo di lotta anticoloniale e
comunista, ma fa parte di uno scontro intercapitalistico e ciò nulla toglie
alla puntualità della ricostruzione della strategia anticinese che andrebbe
però meglio inquadrata all’interno di una lotta fra capitalismi in
competizione.
Indice
Premessa
1. Attacco allo Stato sociale, barbarie neocoloniale,
guerra. L’Occidente e la sinistra assente
2. Il mondo capitalista-imperialista quale «mondo
libero»?
3. Società dello spettacolo, terrorismo dell’indignazione e
guerra
4. Da Truman al 1973 e dal 1989 giorni nostri. Due ondate di
colpi di Stato
5. La costruzione dell’universalismo imperiale
6. Dal colonialismo al neocolonialismo: discontinuità e
continuità
7. Controrivoluzione neocoloniale e «pivot» anticinese
8. Tra sinistra imperiale e sinistra populista e anarcoide.
La situazione in Occidente
Conclusione. Il nuovo quadro mondiale, i crescenti
pericoli di guerra e la dispersa sinistra occidentale
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