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https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/il-ruolo-della-germania-nella-crisi.html
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"La “sinistra” è responsabile di cotanto disastro
continentale. In Inghilterra e negli Stati Uniti, la Thatcher e Reagan si sono
resi responsabili di sconfiggere Keynesismo e Stato Sociale. In Europa l’ha in
gran parte fatto la sinistra, in nome dell’Europa. Le responsabilità dell’Ulivo
devono essere ancora conteggiate." (S.
Cesaratto)
Son vent’anni dalla nascita de L’Ulivo, e forse non è inutile
fare il punto su quella che fu la sua politica economico-monetaria. Una
politica che si inserisce nel grande percorso di trasformazione mondiale
capitalistica ancora in corso, ma che iniziò ad apparire visibile esattamente
negli anni di cui si parla in queste pagine, ossia alla metà degli anni novanta
del Novecento.
È ormai diffusa la quasi stucchevole affermazione per
cui dalla crisi economica mondiale in corso stia emergendo una nuova formazione
economico-sociale capitalista. In questo in verità non vi è nulla di nuovo, gli
andamenti delle forze produttive sono sempre intimamente legati alle forme
della produzione e quindi ai rapporti sociali e istituzionali. Anzi, molto
spesso nella storia capitalistica questi ultimi hanno avuto un ruolo
determinante nel pre-formare le stesse forze produttive, che ben poco hanno di
meccanico e deterministico.
Il sismografo più sensibile e rilevante che segnala i
mutamenti tra forme dell’accumulazione e rapporti sociali di produzione è il
lavoro. Parlo naturalmente del lavoro vivo, incorporato in quel reticolo di
rapporti contrattuali che rinserrano la forza di lavoro, ossia quella parte del
tempo di lavoro che configura il rapporto capitalistico. In esso, vivaddio, a
essere venduto o sottoposto al lavoro comandato, non è tutto il lavoro della
persona lavoratrice, come è nei rapporti di schiavitù, ma solo il tempo durante
il quale la persona è sottoposta ai rapporti sociali di lavoro. Per capire cosa
è cambiato in questi ultimi, bisogna risalire non alla crisi in corso ma alle
sue origini.
Si tratta di vari fenomeni solo apparentemente distinti ma
l’un con l’altro legati. L’uno risale al crollo del sistema di Bretton Woods
tra il 1971 e il 1973, quando il dollaro smise di essere moneta di riferimento
e ci si avventurò in un sistema mondiale di alti tassi di interesse e di
profonda volatilità dei rapporti tra le valute. L’eccesso di liquidità che si
creò, grazie all’intensificazione dei rapporti oligopolistici sul fronte del
commercio mondiale delle materie prime, generò un profondo spostamento tra
valore della produzione e del pluslavoro che ne derivava e valore della
circolazione monetaria che iniziò a valorizzarsi a tassi molto più forti di
crescita di quanto non fosse in passato di per se stessa e con se stessa.
La circolarità denaro-merce-denaro, dove il denaro finale
era naturalmente superiore a quello iniziale realizzandosi nella produzione
come plusvalore, non era più solo. Al suo fianco il denaro diveniva merce di se
stesso attraverso una grande trasformazione dei meccanismi e delle regole di
scambio (derivati, et similia, scambiati in shadow banks e in shadow
pools) per creare ulteriori masse di denaro da valorizzare a loro volta.
Contestualmente il managerial capitalism, dove la proprietà era
divisa dal controllo e il manager dominava l‘azionista, veniva via via
sostituito dall’owner capitalism dove nominalmente l’ azionista
domina il manager, mentre in effetti è quest’ultimo a dominare l’ azionista
stesso, come dimostrano le stock options e le vertiginose
ascese di stipendi variabili dei top-manager.
Mentre si celebra lo shareholder value si
consolida invece il predominio dei manager superpagati secondo algoritmi
sconosciuti tanto agli azionisti quanto ai capitalisti. Che cosa c’entra questo
con il lavoro? C’entra, eccome. L’inizio di questa intersezione tra owner
capitalism, dominato dai manager stockoptionisti, e lo sviluppo delle forze
produttive ha la sua acme nel lungo ciclo ininterrotto di crescita
dell’economia statunitense, ciclo che dura dalla fine degli anni ottanta fino
alla prima metà del primo decennio del secondo millennio. Alla base di questo
lungo ciclo, in cui pareva che il capitalismo non avesse più crisi, stava
l’intersezione dell’owner capitalism con l’Information
Technology and Communication (ITC), ossia con quel nuovo ciclo
Kondatrieff, di grappoli di innovazione nel campo delle telecomunicazioni,
della valorizzazione sul piano spaziale dell’elettro magnetismo e insieme della
miniaturizzazione tipica delle terre rare. La produttività del lavoro crebbe a
dismisura. Questo per due fattori: il primo fu l’abbassamento dei costi di
transazione: tempo e spazio tendevano ai costi zero. Il secondo elemento fu
l’aumento della produttività del lavoro che non a caso avvenne nei sistemi
sociali in grado di sviluppare quote crescenti di plusvalore contestualmente
alla creazione di enormi masse di domanda interna. La domanda estera, non
quella interna, pareva diventare l’elemento essenziale, non solo nei mercati
dove questo processo ebbe inizio, in primis il mondo anglosassone a common law,
ma anche in misura minore l’Europa continentale a sistema giuridico
romano-germanico. I mercati dovevano essere creati in quelli che un tempo si
chiamavano paesi in via di sviluppo e che ora si chiamano BRICS.
Naturalmente, come oggi sappiamo, questi mercati che
generarono l’illusione che tutte le economie cosiddette avanzate potessero
essere fondate su modelli export-lead, non si svilupparono come previsto.
Ma questo era ed è il dogma principale dell’ordoliberalismus unitamente
all’ assenza di debito pubblico e alla scrittura nelle costituzioni dei
principi liberisti…che è quanto di più illiberale possa esistere, ma è questo
il dogma della politica fondata sull’euro. E fu proprio questa errata
previsione il principio di riferimento della politica monetaria dell’ Ulivo a
trazione europeo-teutonica. E così inizia, nascostamente dapprima, una
gigantesca crisi di sovraccapacità produttiva. La prova di ciò non risiede
tanto e soltanto negli enormi stoccaggi di merci invendute, ma soprattutto
nella colossale riduzione della forza lavoro occupata su scala mondiale e
soprattutto in quelle grandi corporation che erano state all’origine del lungo
ciclo della new economy e della diffusione dell’ITC. Naturalmente da circa
trent’anni, non a caso, la dimensione media su scala mondiale si va riducendo e
questo per la crescente produttività del lavoro creata non grazie alla
lunghezza del tempo di lavoro, ma all’intensificazione della produttività
tecnologica tutta labour-saving.
La creazione del cosiddetto nuovo proletariato asiatico che
è una realtà, beninteso, che coinvolge centinaia di milioni di nuovi proletari,
non deve trarre in inganno. Si tratta di un fenomeno temporaneo, ossia non
durerà più di un cinquantennio, ossia il battito di un ciglio nella storia. E
questo perché questo nuovo proletariato sarà prestissimo investito, lo è già,
della legge gerschenkroniana del vantaggio dell’ arretratezza, ossia del fatto
che in India, in Cina, in Malesia, In Birmania, a Singapore, in Perù, etc, non
si passano tutte le fasi della crescita tecnologica, ma si saltano tali fasi e
ci si aggrappa, nella produzione di plusvalore, all’ultima disponibile.
Questo non significa che non esistano ancora immense sacche
di plusvalore relativo, ossia creato non dalla tecnologia ma dalla durata
della giornata di lavoro e dai bassi salari. Fenomeno che accompagna sempre
l’accumulazione capitalistica e che riappare oggi, sfatando ogni determinismo
tecnologico, proprio nel vecchio continente, sotto il tallone dell’ordo-liberalismo
teutonico che risponde alla caduta del tasso di profitto con l’abbassamento dei
salari e con la deflazione, generando sempre in tal modo nuove crisi da
sottoconsumo come sono oggi quelle in corso in Europa.
Tale ordoliberalismus nasce con L’Ulivo: per questo val la
pena parlare di questo fenomeno politico dal nome vegetale. Che ruolo ha
avuto la finanza sregolata ordoliberista in questo interessante panorama
analitico e di grande sofferenza sociale? Essa non è più divenuta una variante
della classica produzione di plusvalore derivante dall’ acquisizione del
pluslavoro grazie al lavoro comandato, così come lo descriveva Ricardo.
È divenuta qualcosa di più. È’ divenuta lo strumento che maschera la
caduta tendenziale del saggio di profitto generata dalla crescente
disoccupazione, quindi dal crollo del lavoro vivo e altresì dalla crescente
crisi di sovraproduzione che genera la non solvibilità della domanda. La
finanza serve a prendere tempo, ossia il processo che prima ho evocato, ha
trasformato tutte le imprese in grado di generare masse rilevanti di cash flow
in imprese di nuovo tipo che creano, accanto al valore generato dalla
produzione, un valore generato dalla finanziarizzazione grazie all’estensione
della circolazione del denaro contro denaro e soprattutto attraverso la
gestione dell’indebitamento che si spinge sino al punto di vendere debito per
il debito, con altissimi tassi di rischio.
Naturalmente questo processo ha investito nei sistemi
banco-centrici europei anche le banche e nei sistemi non banco-centrici,come
quelli anglosassoni, tutte le istituzioni non dirette all’erogazione dei
crediti ma alla creazione di valore di denaro dal denaro, come fondi di
investimento et similia. Di tutto questo ci siamo accorti solo nel 2007, con la
crisi da eccesso di rischio che generò il crollo di Lehman Brothers.Lo stato,
tutti gli stati mondiali, avevano accompagnato questo processo, lo avevano
sostenuto con le deregolamentazioni alla Clinton e alla Blair e avevano diffuso
la certezza, così come era stato nella grande crisi delle casse di risparmio
nordamericane alla fine degli anni Ottanta del Novecento, che lo stato sarebbe
intervenuto per salvare il salvabile. A quel tempo, nel 2007, ciò non avvenne.
In verità si trattò di un non salvataggio dettato più dal timore e
dall’inesperienza tecnica perché, come sappiamo, dopo di allora, lo stato, o
con le nazionalizzazioni delle banche o con i finanziamenti delle industrie con
prestiti ad alto rischio (vedi Obama e l’industria automobilistica americana)
interviene, vedasi il ruolo crescente delle banche centrali con politiche
neokeynesiane per arginare la disgregazione sociale.
Lo stato è sempre intervenuto, cosicchè si potrebbe
veramente parlare a livello mondiale dell’ascesa di una nuova forma di
capitalismo monopolistico di stato che cerca, con i suoi interventi, di far
fronte sia alla crisi industriale e alla disoccupazione, che ne deriva, sia
all’eccesso di rischio. Ciò che si contrappone all’ascesa di questo nuovo
capitalismo monopolistico di stato, a dominazione finanziaria, è
l’ordo-liberalismus teutonico-nordico che ha dietro di sé una lunga tradizione
intellettuale e che con l’unificazione della nazione tedesca, negli anni
Novanta, ha profondamente cambiato l’equilibrio di potenza in Europa.
L’ordo-liberalismus ha tutte le caratteristiche sopra
descritte del capitalismo finanziarizzato ma se ne differenzia perché al
sistema di libera concorrenza ha sostituito in effetti il sistema di potenza:
impone bassi salari, abbassamento della spesa pubblica, distruzione dell’
welfare a tutti gli altri stati europei che non possono seguire il suo modello
export-lead con la stessa intensità, mentre garantisce pluralità delle forme di
allocazione dei diritti di proprietà e ruolo dello stato al suo interno, stato
che sostituisce il principio di sussidiarietà quando esso fallisce, ruolo che
invece vieta a tutti gli altri stati europei. Fa questo attraverso il controllo
delle istituzioni europee prive di legittimazione popolare, con una fermezza e
una continuità impressionante, come ci dimostra la deflazione europea in corso.
Ciò nonostante il meccanismo di consustanzializzazione della finanza nella
produzione si è pienamente inverato anche in Europa, e quindi gli effetti sul
lavoro sono assai simili a quelli prima descritti a livello mondiale. Ossia:
disoccupazione di massa per restringimento della base produttiva, abbassamento
dei redditi per diminuzione della massa salariale, crisi crescente delle
piccole unità produttive che non possono generare la finanziarizzazione prima descritta,
che serve a prendere tempo rispetto alla caduta del tasso di profitto grazie al
valore creato dalla circolazione del denaro che produce denaro e/o dalla
vendita del debito su debito grazie alla leva ad altissimo rischio.
Ecco allora giungere come aveva previsto Hansen nel 1939, la
deflazione che conduce alla stagnazione secolare: trappola di liquidità,
sindrome giapponese: tutte malattie che nascono nell’Europa dell’euro
ordoliberista. C’è di più, tuttavia. La finanza si incontra con nuove tecnologie
che cent’anni fa non avevamo previsto. Schumpeter parlava di distruzione
creatrice: nuove tecnologie, nuove imprese avrebbero distrutto le tecnologie e
le imprese incapaci di adattarsi ai nuovi cambiamenti, e dalla crisi si sarebbe
creato nuovo plusvalore generato dalla espropriazione del pluslavoro attraverso
la riproduzione allargata del meccanismo del capitalismo. Si distruggeva ma si
creava. E non solo variando i tassi di interesse, come aveva in mente Keynes,
ma facendo circolare merce contro merce come aveva in mente Piero Sraffa, nel
suo Produzione di merci per mezzi di merci, che rimane il più bel
libro di economia del Novecento. Ora le cose sembrano cambiare. Perché il nuovo
ciclo Kondratieff che si avvicina come uno tsunami ha talune caratteristiche
prima sconosciute. Pone all’odine del giorno la creazione diffusa di sistemi
naturalmente complessi e stratificati quanto a tecnologie di intelligenze
artificiali che producono a loro volta intelligenze. È come se si elevasse
l’ITC all’ennesima potenza. Le stampanti 3D, con la meccanica per diffusione e
non per estrusione che ne deriva grazie all’uso del laser, sono solo l’inizio.
Il seguito saranno i robot isomorfi, omeostatici tanto con il corpo umano
quanto con il mutare delle macchine e dell’ambiente in cui sono immersi.
Tutto questo è avvenuto in Europa grazie alla politica
economico-monetaria dell’Ulivo che ha disarmato le menti e nel mentre ha armato
nuove classi economico-politiche cosmopolitem(i Padoa Schioppa ne sono l’
esempio più sconcertante, a cominciare dai Ciampi e dai Draghi e per finire con
i Monti costruiti dai quotidiani e dai poteri situazionali di fatto filo
teutonici e anti USA,che già Gramsci aveva ben descritto, seguendo Machiavelli
e parlando del “cosmopolitismo” ossia del servilismo internazionale degli
intellettuali italiani. Immaginiamoci che cosa accade quando al posto di
intellettuali ci troviamo dinanzi ragionieri del mondo affascinati dal mito
umiliante che narra che gli italiani nulla san far da sé e hanno quindi bisogno
per bene agire di choc esterni: l’ordoliberalismus teutonico appunto: mito che
in qualsivoglia altra nazione farebbe sfidare a duello colui che accusa il suo
interlocutore di sostenere tale tesi.
Si dovrà fare la storia dell’Ulivo che ne affronti la teoria
economica prevalente. I testi di Lodovico Festa (anche l’ ultimo apparso su
“Studi cattolici” recentissimamente) offrono di già una eccellente premessa.
Ma certamente la politica monetaria di quegli anni va inserita nella
specificità della vicenda monetaria italiana che è sempre stata -come sappiamo-
determinata da una oscillazione e da un intreccio continuo tra fiscal
dominance e foreign dominance.
Sgombriamo subito il campo dal presupposto ipostatizzato
mitologicamente che il problema centrale sia quello dell’indipendenza delle
banche centrali. L’indipendenza delle banche centrali dal Tesoro (per
dipendere da chi? se non dalle burocrazie o dalle euroburocrazie spartite in
basi a criteri di potenza nazionale) non incide sui temi della foreign
dominance come nei consolidati manuali Cencelli politici, e nel caso
dell’Ulivo: non è determinante.
Ciò che è e fu determinante a partire dai tempi dell’Ulivo
(sino a oggi) è il fatto che l’indipendenza delle banche centrali europee
dell’eurozona e quindi dell’Italia, fu lo strumento più idoneo allorché si
ritenne di potere e volere fare la volontà della nazione accettando, anzi,
invocando, il dominio estero sulle nostre scelte di politica monetaria ed
economica non in una condizione di condivisione ma, invece, di crescente
sottrazione di sovranità.
La mia tesi è che l’ Ulivo ha rappresentato l’acme della foreign
dominance e l’ha reso pressoché irreversibile – almeno nel breve
periodo – con l’ entrata nell’euro e quindi con la definitiva perdita della
sovranità monetaria. Ciò che è stata una delle fasi della foreign
dominace, ossia l’egemonia tedesca sul sistema economico e su quello
monetario in primis italiano grazie all’Europa a dominazione
germanica, è ormai divenuta una delle caratteristiche della stessa nazione italiana.
Il nesso nazione-internazionalizzazione ha avuto una
torsione e stabilizzazione definitiva, se l’Europa non muterà volto, ossia non
si riscriverà il Trattato di Maastricht e non cadranno tutti i suoi
presupposti. Essi hanno condannata alla decadenza l’Italia, come fu nella crisi
del Seicento. I mezzi furono diversi, gli esiti saranno e già sono assai
simili: de-industrializzazione, depauperamento del capitale umano con la sua
emigrazione da un lato e la sua emasculazione emotiva dall’altro.
Come è noto, quando parliamo di fiscal dominance intendiamo
il ruolo determinante del Tesoro nella creazione monetaria. Determinare la
quantità di moneta e dei tassi d’interesse è un compito che rimane nelle mani
della politica e delle istituzioni finanziarie: oppongono il principio di
gerarchia a quello di mercato e allocano le risorse in questo sistematica
prevalenza. In questo senso il ruolo del mercato è subalterno e sottoposto al
controllo politico anche in un contesto internazionale che può renderlo difficile
Ma questa è stata fondamentalmente la condizione in cui l’ Italia si è trovata
a operare per la sua collocazione nella divisione internazionale del lavoro
durante tutta la sua storia sino ai primi anni novanta del Novecento Proprio
gli anni in cui inizia l’ esperienza dell’Ulivo.
Naturalmente questa storia è stata contrassegnata da una
diversità della foreign dominanceanche in condizioni ben precedenti
l’Ulivo e che ho richiamato precedentemente. Si possono scandire
storicamente dei tempi ben precisi in cui tale foreign dominance assume
colori diversi, dai tempi Camillo Cavour passando per il predominio inglese e
francese e poi quello tedesco che fu decisivo per la creazione del sistema
bancario italiano per inverare poi durante il fascismo paradossalmente il
predomino nord americano con un ruolo decisivo esercitato dalla banca Morgan e
dal suo rappresentante in Italia.
Tutto ciò continuò nel secondo dopoguerra sino all’
abbandono della politica di distacco da ogni ipotesi di sistema dei cambi fissi
ben rappresentata dalla posizione di Paolo Baffi in merito alla non adesione
allo SME per la ragione che il nostro sistema produttivo non avrebbe potuto
resistere neppure a un’ anticipazione dei cambi fissi: figuriamoci a una moneta
unica. L’adesione ci fu e dopo il crollo dell’URSS ci fu l’unificazione
tedesca e la creazione dell’euro e quindi l’inveramento assoluto della foreign
dominance che ora ci distrugge, con tutta l’Europa del Sud.
Il paradosso vero di tutta la vicenda è quello per cui i
protagonisti della vicenda, i più filo euro e quindi i più responsabili dell’ordoliberalismus dilagante,
furono le forze socialiste e cristiano sociali europee. Da questo punto di
vista la creazione dell’ euro e l’adesione entusiasta di tutto l’ Ulivo alla
politica ordoliberista è stata il trionfo della considerazione teorica che è
possibile dedurre in casi di scelte monetarie assunte in questo caso non da
singole nazioni ma da una burocrazia eurocratica dominate sui parlamenti
nazionali che teneva e tiene sotto il suo controllo le nazioni. Ossia la
considerazione che in presenza di creazione monetaria decisa dal mercato e
quindi endogena, tali decisioni non sono mai libere, ma assunte nel contesto dell’equilibro
di potenza internazionale che quei mercati costituisce.
Nel caso della BCE il paradosso è bellissimo e strabiliante:
il Trattato di Maastricht affida alla BCE la scelta del regime di cambio, per
esempio, mentre in effetti tutte le variabili che interagiscono nella
circolazione monetaria internazionale sono determinate da sovrastrutture che
superano le stesse prerogative sia dei governi nazionali sia della BCE: WTO,
cross border currency e soprattutto, oggi in primis, derivati e tutti gli strumenti
della finanza collateralizzata.
Il compito della BCE in effetti e lo dimostrano anche le
politiche controverse come il quantatitive easing è stata ed è
quella di ricercare di condizionare la creazione endogena di moneta ( e quindi
dei mercati mondiali) indicando ripetutamente in quale modo si ritiene più
opportuno affrontarla politicamente.
Ma la spaccatura dell’ Europa tra nazioni dominanti
tedesco-vassallatiche da un alto e potenza francese emasculata dall’altro, ha
provocato il collasso del sistema che pare abbandonato a se stesso, come
dimostrano le ricorrenti crisi dell’euro sino a giungere alla crisi politica
della minaccia della fuoriuscita dall’UE dell’unica grande potenza non
dell’aerea euro, ossia il Regno Unito.
Dinanzi a tutto ciò l’ Ulivo non h mai saputo né comprendere
né reagire. Anzi ha applaudito ed è salito sul carro dei distruttori
dell’economia e della società europea, culturalmente e antropologicamente
intesa. Sconcertante poi la politica comunista Basta leggere i discorsi di
Giorgio Napolitano: ai tempi di Paolo Baffi, il quale come noto, da Governatore
della Banca d’ Italia, era schierato contro lo SME e non seguiva le indicazioni
del potere situazionale dominante. In seguito giungemmo ai tempi di Guido
Carli (che è ancora la figura enigmatica di tutta la vicenda), che aderì
all’euro seguendo la vulgata dello choc esterno necessario e inderogabile,
tutti sorprendendo.
Giorgio Napolitano e con Lui i comunisti nella stragrande
maggioranza, seguirono la “nuova” Banca d’Italia come i ciechi del famoso
quadro metaforico: perplessi e infine europeisti ordoliberisti entusiasti e
come tale premiati dai poteri situazionali di fatto allora dominati. Solo
Luciano Barca spicca e spiccherà nella riflessione storiografica per la Sua
intelligente e indipendente visone in continuità con l’ ispirazione di quella
grande figura scientifica, umana, civile, che fu Paolo Baffi.
Dei socialisti è inutile dire alcunché perché si posero
nella scia di Tony Blair, il vero distruttore del socialismo europeo, scambiando
innovazione e modernità con subalternità alla mitologia
capitalistico-finanziaria che dominava il mondo. È un segno positivo dei
tempi che l’ attuale gruppo dirigente inglese laburista si sia deciso a fare i
conti con quella (e questa ) sciagurata epoca. Ma dovremmo ora far
storiografia e sociologia, insieme, di viltà personali e di battaglia delle
idee, dove, come sempre, la moneta cattiva scaccia quella buona.
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