Da: https://www.leparoleelecose.it - Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti - Francesco Saverio Oliverio, Università della Calabria, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali.
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https://traduzionimarxiste.wordpress.com/2019/07/08/intervista-a-utsa-patnaik-storia-agraria-e-imperialismoL’ecosocialismo di Karl Marx di Kohei Saito è comparso in lingua italiana per i tipi di Castelvecchi nell’ottobre 2023 [1]. La pubblicazione in lingua inglese risale al 2017, l’editore fu la Monthly Review Press [2]. Saito è filosofo del pensiero economico, professore all’Università di Tokyo; il suo nome è giunto al grande pubblico grazie al boom di vendite del successivo Capital in the Antropocene (Ed. Shueisha, 2020) vincitore dell’Asia Book Award del 2021 nella categoria dei libri con un gran numero di lettori che colgono con acutezza i cambiamenti della società moderna.
L’autore – sin dalle pagine introduttive – si immerge nel dibattito che ha attraversato le opere di Marx, in particolare in merito all’ecologismo. Il rivoluzionario di Treviri è stato criticato – ricorda Saito – a partire dagli anni Settanta anche dall’emergente movimento ambientalista per il suo “prometeismo” ovvero per il suo elogio al progresso delle forze produttive e anche in campo sociologico non sono mancate voci autorevoli – come quella di Anthony Giddens – che hanno condiviso lo stereotipo secondo il quale in Marx lo sviluppo tecnologico avrebbe permesso di manipolare la natura.
Proprio l’emergere delle preoccupazioni per le sorti dell’ecosistema – poste dal noto rapporto Limits to Growth nel 1972 nei termini di un prossimo raggiungimento dei limiti naturali se la linea di sviluppo fosse continuata inalterata in alcuni settori strategici come l’industrializzazione e la produzione alimentare [3] – e la nascita dei movimenti ambientalisti hanno posto alla tradizione di pensiero marxista delle sfide importanti, in primis quella di individuare gli elementi teorici con cui aggredire problemi nuovi. Si trattava di recuperare e costruire un’immaginazione socialista sull’ecosistema.
Il pensiero socialista sull’ambiente si è sviluppato – argomenta Saito – in due fasi: una prima che desiste dal riscontrare un’ecologia in Marx o che, seppure ne riconosca l’esistenza, ne disconosce la rilevanza per l’oggi poiché formatasi in un contesto storico diverso. Sono riconducibili alla prima fase ecosocialista autori come André Gorz, Michael Löwy, James O’Connor o sostenitori più recenti come Joel Kovel. Questi autori hanno comunque lavorato – seppur in modi diversi – per sviluppare una proposta di transizione ecologica anche attraverso il metodo di Marx. Una seconda fase, con autori come John Bellamy Foster e Paul Burkett, che «analizzano le crisi ambientali come una contraddizione del capitalismo basata sulla “frattura metabolica”» (p. 10) con l’obiettivo di avvalorare la robustezza dell’ecologia di Marx. Foster, nel suo contributo al libro Marx Revival (Donzelli, 2019) curato da Marcello Musto, segnala anche una terza fase dell’ecosocialismo legata ai movimenti ambientalisti globali dei primi decenni del nostro secolo [4]. Ci sono poi i critici della teoria della frattura metabolica come Jason W. Moore che, dice Saito, lamentano che l’ecologia di Marx può tuttalpiù far emergere che il capitalismo sia deleterio per la natura.
Nelle posizioni, Saito è vicino all’ecosocialismo della seconda fase; ciò che egli critica ad autori come Foster e Burkett è che non fanno emergere la sistematicità dell’ecologismo di Marx, ma piuttosto lo relegano a fatto laterale e occasionale del suo pensiero. Però Marx, sostiene Saito, considerava le crisi ambientali come contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico: l’ecologia era immanente alla sua critica dell’economia politica. La tesi centrale del libro di Saito è che «non è possibile comprendere tutta la portata della sua critica dell’economia politica se si ignora la sua dimensione ecologica» (p. 15). A partire da questa tesi, il lavoro di Saito non è – e non vuole essere – una primogenitura nel tentativo di rintracciare la fecondità della prospettiva originaria di Marx sulle relazioni fra uomo, società e ambiente[1].
Uno dei primi concetti marxiani esplorati da Saito è quello relativo alla dissoluzione dell’unità originaria tra umanità e natura, un concetto che Marx sviluppa nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 per rintracciare la genesi delle relazioni sociali nella modernità. L’impostazione metodologica di Saito è promettente: egli sostiene che i Manoscritti del 44 non possono essere letti se non nel complesso del lavoro parigino di Marx condensato nei Quaderni di quel periodo. L’opzione di Saito punta a rintracciare una certa coerenza nel lavoro di Marx rifiutando la teoria della rottura epistemologica proposta da Louis Althusser, secondo la quale il Marx scientifico, successivo a L’ideologia tedesca, avrebbe rimpiazzato il Marx umanista dei Manoscritti del 44. Secondo Saito, è proprio nei Manoscritti del 44 che è presente il nucleo della critica al capitalismo: se non si recupera il concetto di alienazione non si possono cogliere le opportunità di qualsivoglia progetto di emancipazione, poiché non si potrebbe superare l’apparato della proprietà privata che ostacola ogni rapporto autentico dell’umanità con la natura: «la proprietà privata come dominio dei rapporti reificati di merce e denaro scaturisce dalla perdita dell’unità originaria tra i produttori e le loro condizioni oggettive di produzione» (p. 53) e ancora: «solo se si comprende l’alienazione nella società capitalistica come una dissoluzione dell’unità originaria dell’uomo con la terra, diventa evidente che il progetto comunista di Marx mira costantemente a una riabilitazione consapevole dell’unità tra l’uomo e la natura» (p. 53).
Come noto, il tema della separazione tra uomo e terra è stato ripreso dal dibattito marxista sui commons. Un autore come David Harvey ha sviluppato la teoria dell’accumulazione mediante spossessamento per mostrare come forme di separazione siano continue nel sistema capitalistico e funzionali alla sua stessa sopravvivenza come modo di produzione [5]. La tesi è ripresa da Nancy Fraser che, in Capitalismo cannibale, spiega come l’espropriazione sia un meccanismo permanente ovvero una condizione retrostante dello sfruttamento che, del capitalismo, costituisce la scena principale [6].
Nonostante Marx riconoscesse la piccola azienda come condizione necessaria dello sviluppo della produzione sociale e della libera individualità del lavoratore, intesa come proprietà delle condizioni di lavoro (p. 61), in lui – argomenta Saito – non è presente alcuna visione idealizzata del modo di produzione basato sulla marca comune – che parimenti implica la produzione sociale e la proprietà delle condizioni di lavoro – la cui dissoluzione costituisce “solo” il presupposto per l’originaria accumulazione di capitale.
Per chi guarda alle pratiche prefigurative della vita quotidiana, al materialismo sostenibile o agli interstizi come chance per una giusta transizione ecologica (si vedano, ad esempio, i lavori di Erik Olin Wright sull’erosione del capitalismo [7]), la lettura del Marx proposto da Saito introduce degli argomenti significativi: l’indagine sociale e storica mostra infatti come la realtà emerga dalle pratiche sociali (p. 73). Solo trascendendo i limiti di una filosofia astratta si possono comprendere le condizioni materiali sensibili all’umanità e le possibilità del loro superamento.
Già Alfred Schmidt, in Il concetto di natura in Marx (1962), aveva evidenziato che il materialismo di Marx, pur conservando un doveroso rapporto col materialismo pregresso, è inscindibile da una disposizione in direzione della pratica distanziandolo, in tal senso, da Feuerbach. Si tratta di indagare le relazioni sociali concrete per evitare di cadere in un utopismo irrealizzabile o in una prassi senza sbocchi: «è sempre necessario – scrive Saito – occuparsi degli uomini e della natura nella loro concreta reciprocità» (p. 77).
Tale reciprocità interagente è rappresentata da Marx attraverso il concetto, di origine fisiologica, di metabolismo. Saito argomenta che in Marx il lavoro svolge una funzione di mediazione tra umanità e natura: esso diventa il mezzo attraverso cui realizzare l’unità, ma nella società industriale la sussunzione del lavoro sotto il capitale trasforma il processo interattivo di ricambio organico o metabolismo rompendo l’unità originaria. L’utilizzo di una terminologia mutuata dalle scienze naturali segna «un importante cambiamento concettuale» (p. 84) rispetto all’approccio filosofico, ovvero l’elaborazione di un metodo materialista di comprensione del metabolismo. Il metabolismo è stato spiegato, in ambito chimico, da Justus von Liebig come «un processo incessante di scambio organico» (p. 88) e fu utilizzato per esaminare l’interazione fra gli esseri viventi per poi assumere, in Marx, un significato più ampio arrivando a ricomprendere anche le interazioni fra mondi sociali. Il concetto di metabolismo ha animato un dibattito molto nutrito nelle scienze naturali, dal quale indubbiamente Marx ha attinto, tuttavia la sua teoria – sostiene Saito – va analizzata in relazione all’economia politica.
Saito si confronta in modo critico anche con Il concetto di natura in Marx di Alfred Schmidt, un’opera che ha avuto ampio successo. Essa ha un valore innanzitutto filosofico: ricostruisce le basi della riflessione di Marx ed Engels e va diretta allo studio della dialettica della natura volgendo l’attenzione al processo di lavoro. In questo processo, la natura è al contempo soggetto al lavoro e oggetto di esso, non pura realtà esterna all’essere umano. La mediazione sociale della natura è accompagnata dalla mediazione naturale della società, sostiene Schmidt. Il fine umano può trovare concretizzazione soltanto attraverso la comprensione e l’influenza dei processi naturali. Resta che in Schmidt il concorso teorico di Marx ed Engels per la sorte della natura come vittima del dominio manipolatorio dell’uomo non è ricusata.
Come ricorda anche Saito, Schmidt non aveva superato la critica all’antropocentrismo di Marx poiché nel suo pensiero la natura resterebbe vittima della manipolazione tecnologica. Tuttavia Schmidt, nella prefazione all’edizione più recente del suo libro, aveva operato un progressivo riconoscimento di una teoria ecologica in Marx in quei passaggi dove affronta la questione del limite nel ricambio organico.
Esso corrisponde – come ricorda Bagarolo in Marxismo ed ecologia (Nuove Edizioni Internazionali, 1989) – all’archetipo del metabolismo della natura, fatto di cicli di materia e di correnti di energia, retroterra dei reciproci rapporti fra le specie e fra esse e l’habitat.
Gli scarti, prima di essere restituiti alla natura, sono il prodotto di una attività di modifica delle materie prime. Se fino a un certo momento dello sviluppo storico i momenti di prelievo, trasformazione e scarto costituivano l’incessante scambio tra esseri umani e natura, essi subiscono una radicale trasformazione quando rientrano nel processo di valorizzazione del capitale. Questo processo può darsi solo quando le materie prime sono abbondanti e a basso costo («a buon mercato», direbbe Moore [8]), diversamente – se la loro disponibilità diminuisse, magari a seguito di una espansione delle forze di produzione – il rinnovamento della sezione circolante del capitale diventerebbe difficile o impossibile. Crisi naturali potrebbero perturbare il meccanismo metabolico finanche al punto di determinare una crisi economica. È per questo che il capitale punta ad accrescere le capacità tecnologiche per dominare la natura aumentando la sua «influenza civilizzatrice», come la definisce Marx nei Grundrisse. Tuttavia, la capacità del capitale di essere elastico e superare le contraddizioni che di volta in volta incontra non è infinita: il dominio sul mondo naturale non può essere sempre raggiunto.
I primi due capitoli di L’ecosocialismo di Karl Marx si sviluppano come una sorta di premessa, poiché è dal capitolo terzo che il lettore comincia a percepire che Saito sta arrivando al cuore della sua argomentazione, quando propone «un’analisi sistematica della teoria del metabolismo di Marx come parte integrante della sua critica dell’economia politica» (p. 128), a partire dalla teoria del valore. Inoltre, la lettura si preannuncia avvincente e promettente proprio dal capitolo terzo dove l’autore comunica «un’interpretazione giapponese di Marx quasi sconosciuta in Occidente» (p. 130) e apre, dunque, a prospettive teoretiche, ma anche politiche laddove segnala l’esaurimento delle condizioni di produzione[2] come terreno di resistenza contro il capitale.
Se, da un lato, la natura va rispettata perché a essa dobbiamo la nostra esistenza (e tale considerazione è presumibile), dall’altro la produzione e la riproduzione dell’umanità – quale che sia la forma storica dei rapporti sociali – possono avvenire solo metabolicamente, cioè attraverso un ricambio organico con l’ambiente mediato dal lavoro. È qui che il marxismo giapponese entra in gioco con il concetto di deviazione proposto da Samezō Kuruma: affinché il valore, come proprietà totalmente sociale delle merci, affiori alla percezione, è necessario che il valore d’uso di tale o tal altra merce devii in un altro valore d’uso, ovvero in una struttura di valore. Il soggetto moderno, che seguendo la logica del valore interiorizza il potere sociale della merce, subordina le sue funzioni umane alle relazioni sociali reificate naturalizzando gli ideali utilitaristici ai quali finisce per obbedire poiché percepiti come una forza universale: è l’«illusione dell’homo oeconomicus» di Teinosuke Otani. Un uomo proiettato in una ideologia che separa natura e società al fine di mistificare l’interiorizzazione delle modificazioni economiche da parte della materia. Dunque il progetto di Marx include «l’analisi del mondo materiale come oggetto centrale di studio. Questa analisi riguarda principalmente la tendenza del modo di produzione capitalistico a minare le condizioni materiali della sostenibilità, ossia il modo in cui la produzione […] organizza una pratica sociale sempre più ostile alla natura, con una conseguente crisi dello sviluppo umano sostenibile» (p. 155) determinata dalla distruzione della relazione metabolica.
In definitiva, l’ecologia di Marx non è moralistica, non vuole essere una filosofia della correzione, un suggerimento di metodo per il rispetto dell’ambiente. Al contrario, sostiene Saito, si tratta di indagare la struttura sociale e il metabolismo mediato dalla logica della valorizzazione del capitale – che diventa scopo della produzione – per mostrare la rottura dell’unità ecologica: la natura, così come il lavoro, rileva nel capitalismo solo in quanto depositaria di valore.
Saito sottolinea il parallelismo fra sfruttamento del lavoro e sfruttamento della natura in Marx, poiché nel suo ragionamento così come il capitale non si preoccupa della durata della vita della forza lavoro, allo stesso modo non si preoccupa della durata di vita – dunque della fertilità – del suolo. Ma il capitale non è miope al punto di distruggere immediatamente e completamente le condizioni della produzione: esso sviluppa ed impiega la tecnologia. Tuttavia, non lo fa per perseguire la sostenibilità, bensì per impiegare le materie prime in modo più redditizio. Ragionando in questi termini, Marx anticipa modalità di produzione contemporanee come quella del capitalismo verde (riduzione, riciclo, riutilizzo) che cercano di compensare la degradazione delle risorse pur senza riuscirci definitivamente a causa della concorrenza economica che impone lo sviluppo estensivo ed intensivo in nuovi ambienti naturali.
Fino alle pagine che concludono la prima parte di L’ecosocialismo di Karl Marx, il lettore non ha però ancora percepito la sistematicità dell’ecologia di Marx che l’autore aveva annunciato sin dalle prime battute; ma è nelle ultime righe della prima parte che Saito avanza la sua ipotesi secondo la quale Marx avrebbe studiato le scienze naturali proprio per analizzare le contraddizioni del mondo materiale in seguito ai suoi mutamenti da parte del capitalismo. Saito partecipa anche ai lavori della nuova Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA2), l’edizione critica delle opere complete di Marx ed Engels, ed in particolare, per mostrare la sistematicità dell’ecologia nel progetto di Marx, attinge agli appunti e ai quaderni del rivoluzionario di Treviri. Com’è noto, Marx non riuscì a completare il terzo libro del Capitale che, insieme al secondo, furono curati postumi da Engels, per questo motivo la teoria della rendita fondiaria (che, secondo Saito, costituisce il terreno nel quale alligna l’ecologia di Marx) deve essere studiata sui quaderni di appunti. È mediante un metodo di studio complessivo dell’opera di Marx – e dunque anche dei quaderni – che, scrive Saito, si può «individuare nell’insostenibilità ambientale del modo di produzione capitalistico la contraddizione del capitalismo e sostenere con forza la necessità di una produzione sostenibile nella società a venire» (p. 183).
Ancora una volta, il riferimento di Marx è Liebig e la sua opera sulla chimica organica applicata all’agricoltura. Se, prima dello studio della scienza di Liebig, Marx confidava in un miglioramento della produttività agricola grazie alle tecnologie moderne, dopo abbracciò una nuova prospettiva affrontando il tema della scarsità e dei limiti. Era stato Liebig a capire che «la capacità produttiva di un terreno non è proporzionale alla quantità di nutrienti rilevata dall’analisi chimica» (p. 204) e che quindi non fosse possibile un aumento indefinito della produttività agricola perché – nonostante l’impiego di lavoro e tecnologia – a un certo punto la fertilità si esaurisce. Marx riteneva, con Liebig, che la produzione non potesse trascendere i limiti naturali. Pertanto, nonostante nella prospettiva di superamento del capitalismo di Marx fossero fondamentali i progressi delle scienze naturali e della tecnologia, il loro impiego doveva essere fondamentalmente diverso e indirizzato a un ricambio organico sostenibile.
Saito, riportando le annotazioni di Marx, dà al lettore anche l’opportunità di conoscere gli autori che il rivoluzionario aveva studiato: non solo il chimico tedesco Liebig, ma anche l’agronomo scozzese James Anderson, il chimico e geologo scozzese James F.W. Johnston, John Morton, l’economista politico e consigliere statunitense Henry C. Carey, lo storico scozzese Archibald Alison che rispose a Malthus sul problema della popolazione, il francese Léonce de Lavergne professore di economia rurale, l’agronomo tedesco esperto di allevamento Hermann Settegast, l’agronomo tedesco Wilhelm Hamm, il botanico tedesco Carl Nikolaus Fraas, il filosofo tedesco Eugen Dühring e Wilhelm Roscher.
Quest’ultimo autore, un economista tedesco, aveva contestualizzato l’ipotesi di una agricoltura sostenibile come «l’equilibrio fra le operazioni che esauriscono la forza della terra e le operazioni che la ripristinano» (p. 213). Ma, avvertiva Roscher, l’intensificazione di queste operazioni di ripristino (fertilizzazione, aratura…) aumentano – sotto il profilo delle scienze agronomiche – la velocità di esaurimento del suolo. Se Roscher confidava nella dinamica del prezzo come fonte di bilanciamento dell’esaurimento della terra, Marx – in aperto contrasto – nei Manoscritti economici del 1861-1863 arrivava a concludere: «la terra per essere realmente sfruttata in accordo con la natura, richiede altri rapporti sociali» (p. 219).
L’economia politica di Marx acquisisce, man mano, una connotazione ecologica: la questione dei limiti naturali è affrontata in relazione alle contraddizioni del capitalismo la cui logica, basata sulla proprietà privata e mossa dalla massimizzazione del profitto, non si preoccupa della distruzione dell’ambiente. Saito sfata, così, il presunto auspicio prometeico di Marx che anche alcuni teorici sociali dell’ambiente, come Ted Benton, avevano ipostatizzato. Un valore eminente del lavoro di Saito è l’analisi del percorso intellettuale che porta all’ecologismo di Marx poiché si concentra sul Marx scienziato del Capitale e della critica dell’economia politica – piuttosto che solo sugli scritti filosofici del giovane Marx – mostrando il rilievo ecologico della sua intera architettura teorica.
Il percorso che porta Marx verso questa posizione ecologica è costellato da avanzamenti e rotture che riflettono i suoi studi e anche le cesure che hanno attraversato il pensiero di altri autori, in particolare di Liebig. Infatti, il chimico tedesco confidava nella fertilizzazione chimica come tecnologia in grado di apportare alla terra i giusti nutrimenti. Tuttavia, la sua visione ottimistica mutò radicalmente quando si accorse che, nonostante l’impiego dei prodotti della chimica, l’agricoltura moderna – pur di massimizzare la rendita fondiaria e il profitto – sottraeva al suolo tutte le sue sostanze. In ultima istanza, per Liebig, i rapporti sociali storici annientano le potenzialità della stessa chimica applicata all’agricoltura. È la logica di sfruttamento del capitale che, così come non compensa l’esaurimento della forza lavoro compromettendo e accorciando la vita degli operai, non si preoccupa di bilanciare la fertilità della terra che appare come gratuita: «il capitale ignora i limiti del mondo naturale e in tal modo compromette le condizioni materiali di una produzione sostenibile» (p. 263). Un mondo naturale che Marx considera come insieme multi-specie perché si preoccupa, nei suoi quaderni, anche del benessere animale: gli allevamenti sono «prigioni» e la crescita animale è «anormale».
Oltre i quaderni disponibili e le sezioni del Capitale, come quella dedicata alla rendita fondiaria, nelle quali Marx spiega le tensioni tra la logica del capitalismo e la natura, per una indagine compiuta degli estratti scritti dopo il 1868 bisogna aspettare, scrive Saito, la pubblicazione integrale della quarta sezione della MEGA2, in particolare il volume IV/18. Nei quaderni del 1868 si trova un successivo sviluppo della teoria del ricambio organico. In essi Marx testimonia lo studio della botanica, della geologia e, in particolare, della fisica agraria di Fraas e della sua teoria delle influenze climatiche. Marx era particolarmente interessato allo sviluppo delle conoscenze nel campo delle scienze naturali, tant’è che in una lettera a Engels del 3 gennaio 1868 gli chiese di rivolgersi al comune amico e compagno Carl Schorlemmer – il “chimico rosso” [9]– per essere delucidati in merito allo stato della discussione sui concimi e sulla teoria alluvionale di Fraas. Sarà proprio l’influenza delle opere di Fraas e della sua fisica agraria a far «emergere […] un nuovo orizzonte nella teoria marxiana del metabolismo» (p. 304).
La fisica agraria integra la chimica agraria: se quest’ultima – con Liebig – aveva sottovalutato l’incidenza dei fattori climatici sulle coltivazioni puntando sulla compensazione tramite fertilizzanti chimici, la prima – con Fraas – tiene conto dell’impatto delle condizioni metereologiche sullo sviluppo agricolo. Secondo Fraas, una specie vegetale che richiede una data tipologia di terreno può crescere anche in suoli con qualità diverse se le condizioni climatiche sono favorevoli. Dunque, i fertilizzanti chimici agirebbero come succedanei del clima. Ciò che Fraas contesta a Liebig non è la necessità di reintegrare le sostanze minerali nel terreno per garantire la crescita delle piante, quanto che tale reintegro debba avvenire solo attraverso l’impiego dei concimi chimici. Scrive Saito: «ciò che manca, nelle esagerate argomentazioni di Liebig, è una ricerca approfondita sull’eterno potere compensativo della natura stessa, che, se utilizzato a dovere, è in grado di conseguire il totale ripristino delle sostanze nutritive nel terreno» (p. 313). Le alluvioni artificiali – ovvero canali che regolino il corso delle acque verso i campi e, quindi, l’apporto di principi fertilizzanti – sono la soluzione che Fraas individua per far fronte alla necessità di accrescere la produttività agricola e tutelare la fertilità dei suoli ricorrendo alla forza duratura e gratuita della natura.
A sostegno della sua teoria alluvionale, Fraas porta l’argomento storico segnalando come aree un tempo fertili come la Persia, la Mesopotamia o l’Egitto si siano desertificate a causa dei cambiamenti climatici intervenuti nel tempo. Si tratta di cambiamenti lenti, ma determinanti. Fenomeni come l’aumento della temperatura o la siccità dell’aria – compromettendo le basi materiali per l’agricoltura – portano, tra l’altro, le civiltà al collasso. Al tempo di Marx e di Fraas l’accento sulla incisività dell’azione umana sui processi geologici non aveva la stessa portata che ha oggi ed era trascurato il loro impatto sul clima. In questo senso potremmo considerare Fraas un anticipatore di questioni affiorate, con maggior drammaticità, nel nostro tempo. Marx ne aveva colto l’importanza, come mostra Saito nel riportare i suoi appunti e le sue annotazioni. In particolare, le annotazioni poste da Marx a margine della sua copia di uno dei testi di Fraas mostrano l’interesse del rivoluzionario di Treviri per il tema della deforestazione che è, secondo Fraas, la causa ultima della diminuzione della produttività agricola poiché sospinge il cambiamento climatico. Per Marx, scrive Saito, la deforestazione accelera la perturbazione del metabolismo tra uomo e natura. Marx, a differenza di Fraas, la cui tendenza socialista è «inconsapevole», è convinto che l’umanità (e, evidentemente, la classe operaia che Saito sembra trascurare) non avrà altre chance se non quella di costruire un rapporto più sostenibile con la natura in una società liberata dai rapporti sociali capitalistici. Quella stessa società che nell’impostazione del Manifesto del 1848 – nonostante l’addomesticamento della natura e la deforestazione – sembrava nascesse solo dopo il pieno sviluppo delle forze produttive sotto il capitalismo.
L’agricoltura sostenibile del nostro tempo non può che trarre utili giovamenti da quel dibattito ottocentesco. Lo sviluppo dell’agroecologia – come scienza che studia l’applicazione dell’ecologia alla gestione dei sistemi agrari e come pratica che punta sulle interazioni biologiche, le sinergie e riduzione degli apporti esterni per la produzione di cibo – testimonia l’attenzione verso i processi di reintegro con la natura in un nuovo paradigma di sviluppo rurale attento alla rigenerazione [10]. L’ecologia di Marx, che Saito ripercorre, è interessante anche sotto l’aspetto epistemologico della ricerca, poiché si sviluppa nel tempo e nell’evoluzione del suo pensiero che nel 1868, a vent’anni dal Manifesto, abbraccia prospettive più ampie. In Marx, l’interesse per il dibattito interno alle scienze naturali (in particolare chimica agraria vs fisica agraria) non era determinato da un puro spirito di conoscenza, ma serviva allo scopo di un progetto comunista, progetto che non poteva non essere anche ecologico e svilupparsi affrontando non solo il problema dell’esaurimento della fertilità del suolo, ma anche quello della deforestazione e del cambiamento climatico.
Sono dell’opinione che Saito abbia raggiunto uno soltanto dei due scopi che presenta all’inizio del suo libro: ha mostrato – con ricerca approfondita nei quaderni e negli appunti di Marx – una certa sistematicità dell’ecologia di Marx. A chi legge appare chiaro che nel pensiero di Marx e nella sua traiettoria intellettuale vi sia anche un aspetto ecologico che si sviluppa nel tempo ma che è sempre presente. Con riguardo al secondo obiettivo – decisamente più ambizioso sotto il profilo teorico – concernete la qualificazione della tensione capitale/natura come la contraddizione fondamentale del capitalismo, Saito non fa centro. A essa vengono dedicate, in definitiva, poche righe sostenendo che l’autovalorizzazione infinita del capitale contraddice con i limiti materiali della natura: questa sarebbe la contraddizione centrale del capitalismo nell’analisi di Marx. Come ha notato Carlo Formenti [11], l’evoluzione ecologica del pensiero di Marx non mostra che la contraddizione capitale/natura (pur fortemente presente) abbia sostituito la contraddizione fra capitale e lavoro. Ma c’è di più. L’argomento secondo il quale la contraddizione fra capitale e natura avrebbe spiazzato la contraddizione fra capitale e lavoro rischia di accodarsi, se non correttamente interpretato, a convinzioni mainstream che si dispiegano sotto l’influenza delle ideologie dominanti che confidano ancora nel mercato come strumento risolutivo dei problemi ambientali. Rischiano cioè di subordinarsi a quella che Emanuele Leonardi e Paola Imperatore, in L’era della giustizia climatica [12], hanno definito «transizione ecologica dall’alto». Dal punto di vista del materialismo storico, la storia è la dialettica multiforme delle relazioni tra umani e tra umani e natura. Se si assumesse come contraddizione fondamentale quella tra capitale e natura, si arriverebbe ad affermarne la centralità rispetto alla contraddizione capitale/lavoro rischiando di ritrovarsi in una sorta di ecologismo della specie umana (o «coscienza di specie» come scrisse Enzo Tiezzi in Tempi storici, tempi biologici [13]), con presunta universale validità, approvato tanto dall’amministratore delegato di una multinazionale quanto dal lavoratore della terra, tanto dal proprietario della grande azienda produttrice di rifiuti tossici quanto dall’abitante prossimo alla discarica che si impegnerebbero in nuovi comportamenti condivisi virtuosi e sostenibili.
Paul Burkett – che in un articolo aveva pur accolto positivamente Karl Marx’s Ecosocialism [14] – in seguito, scrivendo a Foster, ha rimproverato il Saito di Marx in the Anthropocene (Cambridge University Press, 2023) perché sembrava volersi differenziare – sforzandosi di recuperare «la vecchia leggenda di Engels contro Marx» [15] – per incrementare la propria notorietà. Forse anche in L’ecosocialismo di Karl Marx l’autore – sforzandosi di mostrare, in Marx, la centralità della contraddizione capitale/natura rispetto alla contraddizione capitale/lavoro – opera un tentativo di differenziazione non congeniale all’apprezzabile sforzo complessivo della sua ricca ricerca.
Saito non parla della soggettività che trainerebbe la transizione ecologica. Il suo obiettivo è squisitamente teorico: mostrare la sistematicità dell’ecologia di Marx. Non si può certo criticare negativamente un autore per ciò che non dice. Tuttavia, la lettura di L’ecosocialismo di Karl Marx stimola dei quesiti: su quale soggetto si dovrebbe confidare o contare per giungere alla sostenibilità? Chi trainerebbe la transizione ecologica? Sono quesiti ai quali non si può ovviamente dare risposta nello spazio di questa riflessione, ma che servono per aprire nuove piste di ricerca e riflessione teorica per chiunque fosse interessato al tema – e all’obiettivo – della giusta transizione verso la sostenibilità.
Come è stato segnalato, in seguito alla pubblicazione dei lavori di Saito, «le vendite del Capitale di Marx in Giappone hanno registrato un forte incremento» [16]. A Saito va l’indubbio merito d’esser riuscito a portare all’attenzione di un pubblico ampio il tema dell’ecologia in una prospettiva di trasformazione sociale, e di aver contribuito alla diffusione di una corrente di pensiero che non vuole mettere Marx in soffitta, ma che, al contrario, vuole riscoprire la fecondità delle sue idee in relazione a problemi che ci riguardano da vicino nell’epoca attuale a partire dal riscaldamento globale: si pensi che, nei giorni in cui scriviamo, l’India è attraversata da una lunga ondata di caldo (oltre tre settimane) con temperature a Nuova Delhi che oscillano tra i 45°C e i 49°C [17] e il 29 maggio è stata registrata una temperatura di 52,3°C (anche se le autorità hanno affermato che era viziata da un sensore difettoso) [18].
[1] Alcuni tentativi in tal senso sono stati compiuti, ad esempio, da Paul Burkett in Marx and Nature: A Red and Green Perspective(Haymarket Books, 2014), John Bellamy Foster in Marx’s Ecology: Materialism and Nature (Montly Review Press, 2000) e, in Italia, da Tiziano Bagarolo in Marxismo ed ecologia (Nuove Edizioni Internazionali, 1989).
[2] La ritrovata importanza del concetto di “condizioni di produzione” si deve a James O’Connor. Si veda, in italiano, https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/prefazione-a-leco-marxismo-di-james-oconnor/.
Molto interessante, grazie per il contributo critico
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