domenica 4 agosto 2024

“Biden, trump o harris poco cambia: è già tutto deciso” - Riccardo Antoniucci intervista Jeffrey Sachs

Da: ilfattoquotidiano.it - Jeffrey D Sachs, professore universitario presso la Columbia University, è Direttore del Center for Sustainable Development presso la Columbia University e Presidente del Sustainable Development Solutions Network delle Nazioni Unite. Ha servito come consigliere di tre Segretari generali delle Nazioni Unite e attualmente ricopre il ruolo di avvocato SDG sotto il Segretario generale António Guterres. - Riccardo Antoniucci, Filosofo. Dal 2013 al 2016 è stato responsabile comunicazione e ufficio stampa per la casa editrice DeriveApprodi. Attualmente continua a lavorare nello stesso ambito come freelance, collaborando, tra gli altri, con le case editrici manifestolibri e Stampa Alternativa. Traduce dal francese ed è animatore della rubrica Francesismi per il blog filosofico di Micromega Il rasoio di Occam 

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Come l’America si “vende” i nemici - Jeffrey Sachs  


Jeffrey Sachs - L’economista di Harvard e Columbia al “Fatto”: “Finché gli Stati Uniti continuano a parlare di Kiev nella Nato, non ci sarà nessuna pace

Ucraina, Cina, Medio Oriente. C’è una radice comune in questi conflitti, Jeffrey Sachs ne è certo, e porta a Washington. In particolare, alla Washington degli anni 90, dove è nata la dottrina neocon degli Stati Uniti come unica potenza globale: “L’arroganza americana e l’illusione dell’unipolarismo hanno reso il mondo meno sicuro”, afferma l’economista di Harvard e Columbia, pensatore controcorrente rispetto al mainstream accademico Usa. Ospite della scuola del Fatto, Sachs illustra il concetto citando il Doomsday Clock, l’orologio dell’Apocalisse ideato dal Bulletin of the Atomic Scientists: “Nel 1992 le lancette erano a 17 minuti dalla mezzanotte. Poi Clinton ha allargato la Nato, Bush ha invaso l’Iraq, Obama la Siria e la Libia, oltre a rovesciare Yanukovich in Ucraina, e Trump è uscito dal trattato sui missili nucleari a medio raggio. Ora siamo a 90 secondi dalla fine”. 


Professore, a due anni e mezzo dall’invasione russa dell’Ucraina il fronte è fermo, Volodymyr Zelensky dice che rilancerà il suo piano di pace a novembre, Mosca lo ha già bocciato. Un accordo è possibile? 

Il conflitto è iniziato dieci anni fa, con il rovesciamento di Viktor Yanukovich nel 2014 attivamente operato dagli Stati Uniti. Nel 2022 c’è stata una drammatica escalation. Questa guerra si sarebbe potuta evitare se gli Usa non avessero spinto per l’allargamento della Nato a est, nonostante i ripetuti allarmi della Russia. E dopo il 24 febbraio, si sarebbe potuta chiudere in poche settimane: Russia e Ucraina erano vicine a un accordo, poi Washington si è messa di traverso dicendo a Kiev di non scendere a patti con i russi, promettendo in cambio l’ingresso nella Nato. È un progetto che gli Usa hanno dagli anni 90, sbagliato fin dall’inizio. Gli europei lo sapevano, dietro le quinte lo dicevano, ma si sono allineati. Ora eccoci davanti alla tragedia: Kiev ha perso probabilmente 500 mila uomini e gli Usa continuano a dire che entrerà nella Nato, il che fa continuare la guerra. Dicevano lo stesso in Vietnam, in Iraq e in Afghanistan, sappiamo com’è finita. La strada per la pace è semplice: la Nato deve accettare la neutralità dell’Ucraina e la Russia deve fermare la guerra. Non succederà finché continuiamo a parlare di portare l’Ucraina nell’Alleanza. 

Il dispiegamento di missili americani a lungo raggio in Germania dal 2026 ha suscitato le ire della Russia. C’è il rischio che l’escalation vada oltre il verbale? 

Ricordiamoci che sono stati gli Stati Uniti a uscire dal trattato sulle forze nucleari a medio raggio (Inf), non la Russia. È stata Washington a piazzare i missili Aegis in Polonia e in Romania. Mosca protestava, ma nel loro delirio di onnipotenza gli Usa non hanno ascoltavano. Più dei russi, si sarebbero dovuti lamentare gli italiani e gli europei. Ora siamo tornati alla Guerra fredda, l’Europa è di nuovo un potenziale obiettivo nucleare. La stupidità dei governi americani sta portando il mondo sull’orlo dell’Armageddon. Bisogna lavorare a siglare nuovi trattati contro la proliferazione degli armamenti, non per la produzione bellica. 

La Cina può essere un mediatore nel conflitto? 

La Cina è la prima o la seconda economia globale, dipende da come si calcola, ed è una potenza nucleare che vuole essere riconosciuta come tale. Pechino non vuole essere circondata dalle basi militari americane (in Giappone, in Corea, in Australia o Nuova Zelanda) e vuole un mondo multipolare basato non sull’egemonia statunitense, ma sui trattati delle Nazioni Unite. È un buon compromesso: cooperare con Cina, Russia e Iran sotto l’egida della carta Onu può garantire la pace. Bisogna evitare di cadere nella trappola del manicheismo americano. Il pianeta è unico, gli effetti delle armi nucleari, le pandemie e il cambiamento climatico non hanno confini. Faremmo meglio a sederci allo stesso tavolo per discutere di queste sfide. 

In Medio Oriente, Washington dice di voler evitare l’escalation del conflitto a Gaza. Ci sta riuscendo? 

Gli Stati Uniti non cercano davvero la de-escalation nella regione. Continuano a fornire armi a Israele. Se smettessero, la guerra a Gaza finirebbe in un giorno. Gli Usa dicono da mesi di volere il cessate il fuoco, da 30 anni parlano di soluzione dei due Stati, ma quando Israele si rifiuta, sono sempre pronti a schierarsi dalla sua parte. È un teatrino politico. Non dimentichiamoci che il complesso militare industriale e i servizi segreti americani e israeliani sono intimamente compenetrati. 

Non teme che si arrivi a un conflitto con l’Iran? 

Gli Usa sono talmente vittime del loro bellicismo autolesionista che un’escalation è dietro l’angolo, ma non credo che i leader americani vogliano davvero una guerra con l’Iran. Israele può avere interesse a trascinarceli: è un calcolo suicida, perché Tel Aviv sarebbe la più grande perdente di un eventuale conflitto, ma i governi israeliani ritengono sia un modo per raggiungere i loro obiettivi estremisti. Spero che Washington mostri un po’ di senno. Le proteste dei campus hanno già dimostrato che il popolo americano non approva la politica di Joe Biden. 

Come cambierà la politica estera Usa dopo le elezioni di novembre, con Donald Trump o Kamala Harris alla Casa Bianca? 

La politica estera americana segue una strategia a lungo termine che è stata elaborata dall’apparato di sicurezza di Stato. Parlo dell’infrastruttura composta da Cia, Nsa, forze armate, commissioni di Difesa del Congresso e industria bellica. È un settore da 1.000 miliardi di dollari, non credo che le Presidenziali cambieranno molto su questo piano. Trump è un politico volubile e male informato, è già stato alla Casa Bianca e non ha risolto nessun conflitto: né con la Cina, né con la Corea del Nord, né con l’Iran, tanto meno la crisi ucraina. Biden ha peggiorato la situazione su tutti i fronti, ma il percorso è stato tracciato 30 anni fa dalle teorie neocon. Kamala Harris non ha alcuna esperienza in politica estera. Nessuno dei due candidati mi sembra in grado di ridisegnare la politica estera americana. Forse, a un certo punto sarà lo stesso apparato di sicurezza di Stato a rendersi conto che aver sacrificato 7 mila miliardi di dollari e milioni di persone per le guerre americane è stato un errore. 

In Venezuela, dopo la riconferma di Maduro gli Stati Uniti sostengono l’opposizione che contesta l’elezione. Fanno bene? 

Il Venezuela è un disastro per tanti motivi. Uno di questi è che nel 2002 gli Stati Uniti hanno provato a rovesciare il governo di Hugo Chavez. Per George W. Bush, Chavez era come Castro e bisognava trattare il Venezuela come Cuba. Ha fallito, e dopo Chavez è arrivato Maduro. Trump addirittura ha ipotizzato di invadere il Paese, salvo venire dissuaso dai leader sudamericani. Nel frattempo, Caracas è collassata sotto le sanzioni imposte dagli Usa contro la sua principale ricchezza, la produzione petrolifera. Poi, all’improvviso, Washington ha deciso che il vero presidente era Juan Guaidó e l’Europa gli è andata dietro a mani giunte. Maduro ovviamente non è caduto per questo, e ora anzi è stato riconfermato. Sì, forse il processo elettorale è stato alterato, ma il punto è che gli Stati Uniti devono smettere di provare a rovesciare i governi altrui. Non funziona. L’unico risultato sono stati i milioni di rifugiati venezuelani tra Colombia e Usa e un Paese che rimane una fonte di instabilità globale. 

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