martedì 20 agosto 2024

Una nuova dottrina di guerra eurasiatica? - Enrico Tomaselli

Da: https://giubberossenews.it - sinistrainrete.infoEnrico Tomaselli. Sono un designer, e curatore d'arte contemporanea, ma da molti anni mi sono dedicato agli studi sulla guerra ed i conflitti, per poi - in tempi recentissimi - sistematizzare una serie di riflessioni sulla guerra russo-ucraina, e su cosa potrebbe seguire, condensate in un breve saggio, "La Guerra Civile Globale". Sul mio blog pubblico periodicamente alcune riflessioni su questioni geopolitiche e/o strategiche. 


Il generale esperto logora il nemico tenendolo costantemente sotto pressione. Lo fa correre dappertutto adescandolo con vantaggi illusori.
Sun Tzu


L’evoluzione delle dottrine belliche è determinata per un verso da quella tecnologica (nuove armi, nuovi strumenti offensivi o difensivi impongono approcci diversi al combattimento – si pensi ai velivoli senza pilota), ma per un altro è l’esperienza stessa del combattimento a forgiare il nuovo pensiero militare. Tutti i grandi pensatori militari, infatti, siano essi occidentali o orientali, hanno sempre tratto le proprie riflessioni da una pregressa esperienza (diretta o meno) della guerra.
Storicamente, l’evoluzione del pensiero strategico si è addensata poi nella elaborazione di dottrine più specifiche, costruite anche in base alla natura ed alla portata degli interessi dei paesi nel cui ambito queste venivano sviluppate. Se guardiamo ai decenni successivi alla fine della WWII, possiamo osservare come il pensiero strategico abbia avuto il suo sviluppo – com’è logico – essenzialmente negli Stati Uniti e nell’URSS. In entrambe i casi, è stato ovviamente risucchiato nel ristretto ambito del confronto tra queste due potenze. Durante l’intero corso della guerra fredda, il pensiero strategico occidentale e sovietico è stato caratterizzato dalla presenza delle armi nucleari (innovazione tecnologica) e dall’evoluzione di quanto sviluppato nel corso del precedente conflitto mondiale (esperienza di combattimento).

Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale, infatti, hanno visto sia Washington che Mosca sviluppare un modello speculare, le cui caratteristiche principali sono state: creazione di grandi blocchi integrati di alleanze politico-militari (NATO e Patto di Varsavia), sviluppo di un arsenale atomico, sia in funzione potenzialmente offensiva che di deterrenza, costruzione di un modello di forze armate basato sulla mobilità e sulla massiccia presenza di corazzati. La caratteristica di questa fase storica è stata pertanto una dottrina militare non particolarmente difforme, nei due campi avversi, e sostanzialmente caratterizzata dalla simmetria – eserciti di potenza, struttura e dottrina molto simili, che si confrontano.
Peraltro, ragioni geopolitiche hanno al tempo stesso fatto sì che tutto questo restasse in un ambito meramente teorico, poiché nessuno dei due ha mai cercato veramente lo scontro. Negli anni della guerra fredda, insomma, lo strumento militare è sempre rimasto nel fodero, senza mai essere sguainato davvero. Anche se, ovviamente, è stato utilizzato come strumento di pressione.

Sotto il profilo dell’utilizzo di forze convenzionali, non nucleari, la più completa teorizzazione dell’approccio strategico ereditato dalla WWII è probabilmente la dottrina statunitense denominata Airland Battle [1], destinata a segnare profondamente ed a lungo il pensiero militare occidentale. É importante osservare che questa dottrina, elaborata nel corso degli anni settanta del secolo scorso, trova la sua definitiva formalizzazione negli anni ottanta, cioè solo un decennio prima del crollo dell’URSS.
In ogni caso, quello che accomuna il pensiero strategico occidentale e quello sovietico della guerra fredda è, come già detto, da un lato la simmetria, ma dall’altro l’essere completamente teorico; non c’è mai stata, infatti, occasione di verificarlo in combattimento.
Parallelamente a tutto ciò, in oriente veniva elaborato un altro pensiero strategico, a sua volta forgiato nella concreta esperienza della guerra, la cui caratteristica fondamentale era l’asimmetria, ed i cui più importanti teorici furono Mao Zedong e Vo Nguyen Giap.

Questo pensiero strategico asimmetrico era anche, ovviamente, strettamente connesso ad una visione politico-ideologica della guerra, che andava anche oltre il classico assunto clausewitziano, e che ne farà la base su cui costruiranno la propria azione i movimenti di liberazione nazionale nel corso del novecento.
Con la caduta del muro di Berlino, e poi dell’URSS e del Patto di Varsavia, è ovviamente venuta meno la condizione fondamentale della guerra simmetrica, cioè la presenza di due contendenti complessivamente equiparabili (per potenza militare, industriale e demografica), e pertanto si è aperta l’era delle guerre asimmetriche. La sola potenza rimasta – gli Stati Uniti – si è identificata come egemone, ed ha parzialmente riconvertito in questa direzione la propria dottrina strategica.
Il concetto fondamentale di questo approccio è che non ci sono avversari di pari livello, e pertanto: a) è possibile utilizzare l’ampia supremazia tecnologica e militare per schiacciare qualunque avversario, e b) è possibile impegnarsi con più facilità in conflitti rapidi e risolutivi.

É la dottrina del Dominio Rapido (meglio conosciuta come Shock and Awe) [2], le cui applicazioni più note sono le guerre contro l’Iraq (Operazione Desert Storm, 1991) e quella contro la Serbia (Allied Force, 1999).
Nella sua essenza, il cambiamento sostanziale rispetto alle precedenti dottrine strategiche simmetriche, è il passaggio dalla competizione per ottenere la supremazia sul campo di battaglia, all’assunto che questa sia la condizione di default. A cambiare, pertanto, più che la modalità di combattimento è la durata dello stesso, e pertanto la quantità di uomini e mezzi necessari per ottenere la vittoria.
Nel mondo unipolare, caratterizzato dall’egemonia statunitense, lo strumento militare diventa in effetti una sorta di polizia globale, da utilizzare per reprimere i riots nelle varie aree periferiche [3], e la cui azione vale anche da deterrenza verso altri potenziali ribelli al nuovo ordine mondiale.
Come detto, questo nuovo approccio strategico, basandosi sul presupposto indiscusso di una completa supremazia, ha influito principalmente sull’aspetto quantitativo: gli eserciti della NATO hanno via via ridotto il personale, abbandonando il modello della leva obbligatoria in favore di uno professionale, e si sono orientati verso sistemi d’arma più sofisticati ed avanzati tecnologicamente, ma prodotti in quantità minori – e soprattutto poco adatti ad un utilizzo intenso e prolungato.
Parallelamente, negli Stati Uniti si è progressivamente affermata una linea di pensiero basata sulla riduzione dei costi nell’esercizio del potere imperiale. In conseguenza di ciò, il coinvolgimento diretto degli eserciti alleati della NATO, nelle operazioni militari internazionali, è cresciuto costantemente. 

Questo sviluppo dell’Alleanza Atlantica, da strumento di difesa (dall’URSS) e di controllo (degli USA sull’Europa), a strumento offensivo con proiezione globale, è stato ovviamente reso possibile non solo dalla sostanziale sudditanza dei vertici politici europei, ma anche – e non secondariamente – dalla suaccennata professionalizzazione degli eserciti, che ha reso meno impattante psicologicamente il problema dei caduti in guerra. Al tempo stesso, questo ha prodotto un mutamento profondo negli eserciti dell’Alleanza. Il coinvolgimento diretto delle forze armate dei vari paesi in operazioni di combattimento non difensivo, e fuori dai confini geografici dell’alleanza stessa, ha infatti determinato una crescente omologazione ed una sempre maggiore integrazione – tale da determinare una situazione in cui i vari eserciti professionali, pur essendo formalmente dipendenti dai rispettivi governi, si percepiscono come un tutt’uno, una sorta di super-esercito collettivo, in cui non solo il comando militare è sempre in mano statunitense, ma in cui le strategie e le tattiche vengono stabilite al Pentagono, e (cosa ancor più rilevante) l’adesione a questo modello subalterno diventa conditio sine qua non per gli avanzamenti di carriera. 

Tutto questo processo evolutivo, sia del pensiero strategico che delle sue articolazioni tattiche (nonché delle conseguenti ricadute organizzative e logistiche), ha caratterizzato sostanzialmente gli ultimi tre decenni, ma ha interessato esclusivamente il campo occidentale.
Quello che è accaduto nel frattempo al di fuori di questo, è rimasto spesso fuori dall’orizzonte ottico dell’occidente, che ha continuato a cullarsi nell’idea della propria superiorità (morale e culturale, oltre che materiale), nell’illusione che fosse tra l’altro un dato immutabile.
In conseguenza di ciò, il blocco USA-NATO non ha fatto passi significativi per adeguarsi – strategicamente, tatticamente e materialmente – ai mutamenti che invece intervenivano nel quadro geopolitico globale.

Sotto questo punto di vista, il più appariscente è senz’altro la straordinaria crescita economica della Cina; crescita che, com’è ovvio, ha messo Pechino non soltanto in grado di esercitare una crescente influenza commerciale pluricontinentale, ma gli ha anche fornito le basi per far crescere il suo ruolo politico, facendone di fatto una potenza mondiale in rapidissima ascesa. Condizione che ha posto di fatto la RPC come principale competitor degli USA, e quindi – secondo la logica egemonica statunitense – rappresentando la principale sfida all’egemonia globale di Washington. Diversamente dalla leadership americana, che non si è attrezzata per la sfida, quella cinese ha invece perfettamente compreso che il nuovo livello di potenza richiedeva un adeguamento sostanziale delle forze armate, ed ha messo in atto importanti passi in questa direzione.

Ma ovviamente – come stanno amaramente scoprendo gli occidentali – non c’è solo la Cina. Tanto per cominciare c’è appunto la Russia, che sta proprio lì, ai confini orientali della NATO. La quale per trent’anni ha coltivato l’illusione che, un passetto alla volta, potesse spingere questi confini sempre più da presso a Mosca, e senza conseguenze. Anzi, si è talmente cullata nell’idea della Russia come media potenza regionale (insomma, un paio di gradini sotto l’Alleanza Atlantica), da ritenere possibile sfidarla apertamente, trascinarla in un conflitto (condotto per interposta persona) che l’avrebbe sfiancata e, nel migliore dei casi, avrebbe prodotto un crollo dell’attuale leadership.
L’avventura ucraina sta drammaticamente rivelando quanto fossero errati ed ingenui i calcoli dell’occidente.

Ma, sotto questo aspetto, l’errore forse più determinante – tra i tanti commessi dal complesso egemonico – è stato quello di ritenere il proprio vantaggio tecnologico come irraggiungibile. Salvo poi (vedi comunicazioni del ministro della difesa Crosetto al Parlamento), scoprire che semplicemente non esiste più. Anzi (anche se questo non c’è ancora un Crosetto che abbia il fegato di dirlo) sul piano bellico l’occidente è ben avviato per essere superato. E non solo da Russia e Cina. Basti pensare alle capacità della Corea del Nord nel settore nucleare ed in quello dell’artiglieria, oppure a quella iraniana nei droni e nella missilistica (l’Iran ha missili ipersonici di sua produzione, gli USA li stanno ancora sperimentando – e nemmeno molto felicemente, peraltro).
Del resto, a prescindere dagli schieramenti geopolitici, la produzione industriale bellica statunitense ed europea, in termini qualitativi, appare oggi superata da quella di altri paesi, come Corea del Sud, India, Turchia… 

Se questo è il quadro generale, il contesto in cui si collocano gli attuali attori del confronto globale, vediamo ora quali sono gli elementi che stanno determinando un cambiamento significativo nelle strategia militari, sotto il duplice aspetto indicato all’inizio: evoluzione tecnologica ed esperienza di combattimento.
Per quanto riguarda il primo aspetto, è indubbio che l’elemento che sta incidendo più significativamente sul campo di battaglia sono i droni, in tutte le loro possibili declinazioni. E, come prima importante conseguenza, si sono drasticamente ridotti i margini d’azione (ed i modi d’utilizzo) di quelli che sono stati tradizionalmente i punti di forza del modello USA-NATO: le formazioni corazzate e l’aviazione d’attacco.
Di riflesso, i sistemi anti-missile / anti-aerei e – più in generale – quelli di EW (electronic warfare) diventano assai più importanti di quanto non fossero precedentemente.

La rilevanza strategica dei droni – dai grandi UAV da osservazione ed attacco ai piccoli FPV – deriva dall’ottimo rapporto costi/benefici e, quindi, dalla capacità di produrne in grande quantità. Da questo punto di vista, l’occidente è decisamente indietro. Anche i missili ipersonici costituiscono un elemento capace di marcare la differenza, sia per la precisione che per l’elevatissima difficoltà di intercettarli/abbatterli. Il loro utilizzo, comunque, è stato ancora limitato, quindi non sufficiente a determinare grandi cambiamenti. Il fatto che siano soprattutto eserciti non occidentali ad averli (ed a padroneggiare la relativa tecnologia) non ha sinora prodotto il tentativo di farne un uso strategico.

Ma cosa sta producendo, l’attuale esperienza di guerra? Di sicuro – e non potrebbe essere altrimenti – non una nuova dottrina strategica; formulata, articolata, messa nero su bianco. Forse non ancora; o forse semplicemente non accadrà.
In tempi moderni, a parte i già citati teorici della guerra di guerriglia, non sono molte le teorizzazioni strategiche di provenienza non occidentale. Vengono in mente la dottrina Gerasimov [4], peraltro erroneamente attribuita all’attuale capo di stato maggiore russo e – sembra – frutto invece del suo predecessore, il generale Makarov, o ancora il famoso Guerra senza limiti, un volume scritto negli anni ‘90 da due alti ufficiali cinesi [5]; in entrambe i casi si tratta di lavori teorici su quella che oggi viene comunemente definita guerra ibrida, ma che – soprattutto per quanto riguarda il materiale cinese – non è del tutto esatto definire come dottrina. Di sicuro, però, mentre la Cina non ha sostanzialmente esperienza diretta di un conflitto su larga scala dalla guerra di Corea, lo stesso non si può dire della Russia, che invece negli ultimi vent’anni ha combatto varie guerre e guerricciole (Cecenia, Georgia, Siria, Ucraina).

Se guardiamo ai due maggiori conflitti in corso – Ucraina, appunto, e Palestina – si possono fare una serie di osservazioni molto interessanti, dalle quali ci si può azzardare a ricavarne una chiave di lettura comune e, in qualche modo, forse persino prefigurare il delinearsi (ancora informe) di una dottrina militare euroasiatica per i prossimi dieci, quindici anni.
Di sicuro, sappiamo che in tutti e due i casi ci troviamo di fronte ad uno schieramento chiaro e netto (USA e NATO da una parte, Russia e Iran dall’altra), e che sia l’uno che l’altro possono essere indiscutibilmente inquadrati nella grande partita geostrategica, con cui l’impero statunitense cerca di mantenere l’egemonia e di contenere lo sviluppo di rivali capaci di mettere in discussione il suo ordine basato sulle regole.

Il conflitto in Ucraina, al netto delle sue peculiarità, si caratterizza per una serie di elementi (sui quali, anche su queste pagine, si è lungamente riflettuto).
– Innanzitutto, è una guerra guerreggiata che si inserisce appieno nel quadro del confronto globale che oppone gli USA (con il loro codazzo di colonie e clientes) al blocco euroasiatico guidato da Russia e Cina.
– Si tratta di un conflitto simmetrico, perché a confrontarsi non sono due paesi (Russia e Ucraina) profondamente diversi come potenziale – bellico, industriale, demografico – ma cinquantuno: la Russia contro i 31 paesi della NATO più altri 19 variamente legati al carrozzone dell’impero americano.
– Si tratta di una guerra esistenziale, non solo perché in essa entrambe i contendenti sul terreno mettono in gioco la propria sopravvivenza come entità statuale-nazionale unitaria, ma perché non esiste un possibile terreno di mediazione tra il complesso di interessi che si oppongono.
– È un conflitto in cui (almeno per il momento) nessuno dei due reali avversari (USA-NATO e Russia) intende escalare sino ad arrivare allo scontro diretto, che implicherebbe un aumento esponenziale del rischio di conflitto nucleare.
– Delle due parti, la Russia è quella che si è dimostrata più flessibile, più capace di apprendere (politicamente e militarmente) dallo sviluppo del conflitto, adattando progressivamente il proprio approccio tattico.
– Lo schieramento occidentale, dopo aver inizialmente accarezzato l’idea di poter infliggere una sconfitta sul campo alla Russia, è poi passato all’obiettivo strategico di prolungare semplicemente il conflitto sino allo stremo, ed infine (as usual, verrebbe da dire) Washington ha tratto le conclusioni di una valutazione costi/benefici, decidendo per un progressivo disimpegno.
– Dal canto suo la Russia, fermi restando gli obiettivi strategici minimali (demilitarizzazione dell’Ucraina e sua neutralità), sta perseguendo con successo un approccio basato sul logoramento del nemico – in senso ampio – tale non solo da condurre verso la sua capitolazione, ma da determinare il progressivo annientamento della capacità bellica ucraina.
– Significativo, infatti, è il bilancio, assolutamente asimmetrico, delle perdite. Pur non essendoci cifre ufficiali, né dall’una né dall’altra parte, le stime più affidabili parlano di circa 70.000 caduti russi, mentre quelli ucraini viaggiano ormai verso i 700.000.
Last but not least, il regime ucraino (ed in particolare i servizi segreti) fanno sempre più ricorso a forme di vero e proprio terrorismo, per cercare di bilanciare i fallimenti sul campo di battaglia [6].

Nel complesso, quindi, Mosca sta applicando (con piena efficacia, e con migliore adattamento dei mezzi ai fini) ciò che la NATO pensava di poter applicare alla Russia.
Fondamentalmente, questo esito è dovuto alla sopravvalutazione di sé stessi (da parte USA-NATO) ed alla sottovalutazione dell’avversario. E, non da meno, al fatto che la Russia aveva capito da tempo che l’occidente aveva imboccato una via che portava alla guerra, e si era preparata per tempo a questa eventualità – pur preferendo evitarla.

Per quanto riguarda il conflitto in Palestina, è necessario fare un breve excursus del pregresso conflittuale. Tutto comincia, infatti, almeno nel 1948, con la fondazione dello stato di Israele, e la Nakba (la pulizia etnica degli arabi palestinesi da parte delle milizie sioniste).
La prima guerra arabo-israeliana coincide con la fondazione dello stato ebraico: il 15 maggio 1948 gli eserciti di Egitto, Siria, Transgiordania, Iraq e Libano ne invadono il territorio, ma già due mesi dopo – grazie alla supremazia militare israeliana – si arriva ad una tregua, che consentirà a Israele di annettersi la Galilea orientale, il Negev e una striscia di territorio fino a Gerusalemme.
La seconda guerra è quella del 1956, legata alla crisi del canale di Suez (nazionalizzazione operata da Nasser), al termine della quale – dal 29 ottobre al 9 novembre – Israele otterrà il porto di Eilat, sul golfo di Aqaba.

Nel 1967, terzo conflitto, la famosa guerra dei sei giorni. Le forze israeliane occupano Gaza e il Sinai a danno dell’Egitto, la Cisgiordania e la parte araba di Gerusalemme a danno della Giordania, gli altipiani del Golan a danno della Siria.
La quarta ed ultima guerra è quella del 1973, detta del Kippur (dalla festività ebraica durante la quale si consumò l’attacco siriano-egiziano). Ed anche questa fu estremamente rapida (dal 6 al 22 ottobre).
La guerra del Kippur, quindi, pone di fatto fine al confronto militare tra Israele ed i paesi arabi vicini, i quali – sia per le sconfitte sul campo, sia per le pressioni occidentali – sostanzialmente abbandonano l’idea di cancellare Israele dal Medio Oriente e recuperare i territori perduti, preferendo un accomodamento de facto, con l’avvio di una lunga fase di rapporti commerciali con lo stato ebraico.

Da questo momento in avanti, l’unica opposizione politico-militare all’occupazione israeliana verrà dai movimenti palestinesi, riuniti nell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Le successive tre guerre israelo-libanesi, infatti, non si collocano nel quadro del confronto tra paesi arabi e stato ebraico, ma rientrano di fatto nel conflitto tra questo e la Resistenza Palestinese. L’OLP, infatti, si era di fatto radicato nel vicino paese dei cedri, dove erano presenti anche numerosi profughi palestinesi, e da qui conduceva le sue azioni di guerriglia in Palestina.
Nel marzo 1978, a seguito di alcuni incidenti al confine, Tel Aviv invade il sud del Libano, occupandolo per una profondità di circa 20 chilometri, sino al fiume Litani. Pochi giorni dopo, il Consiglio di Sicurezza chiedeva ad Israele il ritiro, ed istituiva la missione UNIFIL [7]; Tel Aviv ritirerà le sue truppe solo dopo alcuni mesi, non prima di aver creato una milizia cristiano-maronita, l’Esercito del Libano del Sud (SLA), a cui avrebbe affidato il controllo del territorio.

Nel giugno 1982, seconda invasione del Libano, sempre in seguito a scontri di confine. L’IDF, aiutato dallo SLA ed altre milizie cristiane, stavolta si spinge per oltre 40 km all’interno del paese, arrivando sino a Beirut, dove si trova il comando dell’OLP. I militari dell’UNIFIL, che avrebbero dovuto fermare l’invasione, di fatto non intervennero, e furono aggirati dalle truppe israeliane. L’operazione Pace in Galilea trovò il suo culmine proprio nell’assedio della capitale libanese (dal 14 giugno al 21 agosto), che provocò migliaia di vittime. Proprio a seguito di questa seconda invasione – che provocò tra l’altro il trasferimento dell’OLP a Tunisi – nascerà, in seno alla comunità sciita libanese, il partito Hezbollah.
Benché l’assedio a Beirut venisse tolto [8], l’IDF continuò ad occupare il sud del Libano per 18 anni, sino al 2000.

Nel 2006, la terza invasione del Libano, stavolta a seguito di una incursione di Hezbollah nei territori occupati. Anche questa fu di breve durata: il 14 agosto, ad un mese dall’inizio dell’invasione – durante la quale l’IDF era a stento riuscito a penetrare per un paio di km – Israele era in evidente difficoltà, e grazie all’intervento internazionale fu concordato il suo ritiro sulla cosiddetta blue line.
Il conflitto del 2006 rappresenta il giro di boa nel confronto tra Israele e Resistenza, perché per la prima volta l’IDF deve registrare una sconfitta sul campo, sia pure limitata – e soprattutto mimetizzata dall’intervento dell’ONU.

A parte questa serie di conflitti militari, che riguardano soprattutto i paesi arabi, la resistenza della popolazione palestinese all’occupazione si manifesterà inizialmente con la prima e la seconda Intifada. In entrambe i casi non si può parlare di guerriglia, ma di resistenza civile, in quanto la lotta era condotta soprattutto da comitati popolari, e si esplicava in scioperi, boicottaggi e soprattutto lanci di pietre contro le forze di occupazione. Sia la prima che la seconda sono stati fenomeni di lunga durata (1987-1993 e 2000-2005), e sono stati rilevanti sia per rilanciare internazionalmente la causa palestinese, sia per far emergere una sostanziale radicalizzazione della Resistenza (Hamas, fondata nel 1987, a partire dal 2001 comincerà a portare attacchi armati contro l’occupante).

Tra la fine della seconda Intifada (2005) e l’operazione Al Aqsa Flood (2023), i principali avvenimenti in campo palestinese sono la divisione tra Fatah ed Hamas (2006-2007), con la conseguente spartizione tra Cisgiordania e Striscia di Gaza, ed il progressivo dell’ANP sotto il controllo statunitense e la collaborazione attiva con Israele. Ciò ha di fatto spostato il baricentro del confronto su Gaza, assegnando ad Hamas la leadership della Resistenza. Ed è infatti su Gaza che si rivolgerà la repressione israeliana.
In particolare, dapprima con l’operazione Piombo Fuso (27 dicembre 2008 – 18 gennaio 2009), durante la quale Israele utilizzò contro i civili bombe al fosforo (vietate internazionalmente) di produzione statunitense, e proiettili DIME [9] a metallo inerte, e successivamente con l’operazione Colonna di nuvola (anche detta operazione Pilastro di difesa, 14 novembre 2012 – 21 novembre 2012). In entrambe i casi si registrarono migliaia di vittime civili, e la pratica degli scudi umani da parte dell’IDF.

Anche il conflitto in Palestina, pur con le sue peculiarità, si caratterizza per una serie di elementi (dei quali, anche qui, si è più volte scritto).
– Fin quando il conflitto ha riguardato principalmente Israele e i paesi arabi, abbiamo assistito a conflitti simmetrici e rapidi, in cui Tel Aviv ha sfruttato la sua supremazia tecnologica e la sua migliore leadership militare.
– Quando il conflitto è diventato asimmetrico (Libano-Hezbollah), l’IDF ha cominciato a mostrare le sue difficoltà ad impegnare un conflitto non convenzionale.
– Pur da sempre convinta che la sicurezza nazionale si dovesse garantire anche con una capacità di reazione spropositata (da cane pazzo, nelle parole di Moshe Dayan), a partire da quel momento la leadership israeliana ha sposato in pieno la dottrina dello shock and awe, portandola ai suoi massimi livelli.
– La necessità del supporto statunitense è via via cresciuta nel tempo; da una prima fase in cui prevaleva il livello politico, ad una seconda in cui erano rilevanti i rifornimenti di armi e munizioni, ad una in cui oltre questi è necessario l’intervento diretto degli USA (ed alleati) per garantire un livello di difesa minima.
– Si tratta di una guerra esistenziale, non solo perché in essa entrambe i contendenti sul terreno mettono in gioco la propria sopravvivenza, ma perché non esiste un possibile terreno di mediazione tra il complesso di interessi che si oppongono (per Israele, un qualsiasi stato palestinese è inaccettabile).
– Delle due parti, l’Asse della Resistenza è quella che si è dimostrata più flessibile, più capace di apprendere (politicamente e militarmente) dallo sviluppo del conflitto, adattando il proprio approccio tattico.
– Israele, dopo aver inizialmente accarezzato l’idea di poter infliggere una sconfitta sul campo alla Resistenza palestinese, è poi passata all’obiettivo strategico di prolungare semplicemente il conflitto, anche a costo di espanderlo aumentando i rischi di sconfitta.
– Dal canto suo l’Asse della Resistenza sta perseguendo con successo un approccio basato sul logoramento del nemico – in senso ampio – tale non solo da condurre verso l’inasprirsi delle sue contraddizioni, ma da determinare la progressiva diminuzione della capacità bellica israeliana.
– Significativo, infatti, è il bilancio delle perdite. Nonostante lo sterminio della popolazione civile, si ritiene che la forza di combattimento della Resistenza a Gaza sia sostanzialmente integra (o reintegrata), mentre le perdite dell’IDF sono assai significative: non meno di 10.000 perdite in otto mesi, con circa 1.000 nuovi feriti o con traumi psicologici al mese [10].
– Last but not least, Israele fa sempre ricorso a forme di terrorismo, per cercare di bilanciare i mancati successi sul campo di battaglia.

Appare evidente che, al di là delle fin troppo ovvie differenze, ci sono numerosi elementi comuni, e tra questi alcuni decisamente significativi.
In entrambe i casi, abbiamo una delle parti in conflitto (Ucraina, Israele) per la quale il supporto occidentale (politico, diplomatico, economico, militare) è letteralmente fondamentale. Sia l’una che l’altra, se questo venisse meno, collasserebbero nel giro di poco tempo.
In entrambe i casi, le parti sostenute dall’occidente non riescono a vincere il nemico, e sono sottoposte ad un logoramento, delle forze armate in primis, ma anche economico e psicologico, che stressa profondamente le rispettive società, e che – ciò che più conta – inficia la capacità di proseguire il conflitto su tempi lunghi.
In entrambe i casi, sia la Russia che l’Asse della Resistenza stanno modulando la propria azione bellica in base al principio del massimo logoramento del nemico, un approccio che implica l’infliggere perdite costanti nel tempo, piuttosto che cercare di infliggerne molte e dure in poco tempo.

Anche se, ovviamente, siamo ben lontani da una teorizzazione complessiva, ed ancor più da un eventuale sistematizzazione della teoria, ciò che sta emergendo di fatto è un orientamento strategico che accomuna fronti assai diversi (sotto ogni profilo), e che altrettanto sicuramente è nelle corde del pensiero strategico cinese.
All’opposto del pensiero strategico occidentale, che è totalmente focalizzato sulla capacità offensiva, e quindi sul conseguimento di un risultato decisivo nel minor tempo possibile, quello che si sta delineando – e che forse possiamo azzardarci a definire come una futura dottrina di guerra euroasiatica – è focalizzato sulla profondità del risultato, sulla sua incisività e durata. Detta brutalmente, piuttosto che cercare di mettere in ginocchio il nemico, cerca di spezzargli le gambe.

Altrettanto significativo è il fatto che questo orientamento strategico, non a caso sulla scia di quello già visto di Mao o di Giap, nasce da una visione politica della guerra, in cui l’aspetto propriamente bellico è profondamente intrecciato con quello politico. E, pur in presenza di ovvie implicazioni culturali, che si collocano a monte di tutto ciò, si può definirlo come sommamente clausewitziano.
Nei prossimi uno-due decenni, avremo probabilmente modo di assistere al confronto tra questi due approcci strategici contrapposti, destinati a darsi battaglia sul campo.
E, forse, qualcuno, da qualche parte, si darà anche la pena di provare a ricavare da tutto ciò la summenzionata dottrina.

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1 – Airland Battle nasce ufficialmente il 25 marzo 1981, con la pubblicazione dottrinale 525-5 “The Airland Battle and Corps ’86” che ridisegnava le funzioni della divisione tipo dell’U.S. Army (modello 1986) in funzione dello scenario europeo. Nel 1986 la nuova dottrina veniva completamente esplicata ed adottata con la pubblicazione del manuale FM 100-5 “Operations”.
2 – Shock and Awe (trad. “colpisci e terrorizza”), è una metodologia militare basata sull’uso di una potenza travolgente e l’ostentazione spettacolare di forza per paralizzare la percezione del campo di battaglia da parte del nemico e distruggerne la voglia di combattere. Dominio Rapido è definito come il tentativo di “colpire duramente la volontà, la percezione e la comprensione del nemico per attaccare o rispondere alla nostra politica strategica”. Questa nuova dottrina post-guerra fredda verrà presentata in un rapporto all’Università di Difesa Nazionale degli Stati Uniti nel 1996 (Cfr. “Shock and awe. Achieving Rapid Dominance”, Harlan K. Ullman, James P. Wade, National Defense University of the United States).
3 – Assolutamente non a caso, contemporaneamente all’emergere di questo approccio poliziesco all’uso delle forze armate, emergerà anche l’auto-percezione degli Stati Uniti come massima ed unica vera autorità mondiale, ed in quanto tale moralmente legittimata a garantire l’ordine ovunque.
4 – Si tratterebbe di una strategia militare che combina la sfera militare, tecnologica, informativa, diplomatica, economica, culturale (e altre tattiche) per il raggiungimento di obiettivi strategici. Insomma, quella poi si è cominciato a definire guerra ibrida. L’attribuzione (poi ritrattata) fu dovuta ad un articolo di un analista militare statunitense, Mark Galeotti, che oltretutto riconobbe poi di aver malamente tradotto il documento originale russo, interpretando come una strategia offensiva quella che, in effetti, era invece difensiva.
5 – Cfr. “Guerra senza limiti”, Qiao Liang, Wang Xiangsui, Libreria Editrice Goriziana
6 – A parte gli omicidi di esponenti russi sia a Mosca che in Donbass, o l’attentato al ponte di Crimea, ancor più gravi sono quelli in qualche modo sventati, dai tentativi di utilizzare bombe nucleari sporche, al tentativo di assassinare Putin e il ministro della Difesa Belousov, in occasione della parata a San Pietroburgo per il Giorno della Marina. L’operazione fu scoperta, Belousov contattò il Pentagono per avvertire delle conseguenze, e Lloyd Austin – rimasto estremamente sorpreso – prese sul serio l’informazione, e quindi comunicò a Kiev di annullare tutto.
7 – Il mandato iniziale dell’UNIFIL era di “confermare il ritiro di Israele dal sud del Libano” e di ripristinare pace e sicurezza. La missione è attiva ancora oggi, e i suoi obiettivi sono cambiati via via che cambiava la situazione sul campo.
8 – Nel settembre del 1982, mentre l’IDF si stava ritirando, le milizie cristiano-maronite dello SLA e delle Falangi libanesi massacrarono migliaia di civili palestinesi nel campo profughi di Sabra e Shatila, alla periferia di Beirut. Il massacro fu giustificato come una vendetta per un attentato compiuto pochi giorni prima contro il quartier generale delle Falangi, in cui fu ucciso il presidente del Libano, il cristiano Bashir Gemayel. L’IDF non prese parte direttamente al massacro, ma aiutò ed armò le milizie cristiane, anche circondando il campo per impedire la fuga dei palestinesi.
9 – Si tratta di proiettili formati da una struttura esterna in fibra di carbonio, riempita con polvere di tungsteno al posto dei tradizionali shrapnel metallici. Le particelle di tungsteno permettono di sviluppare un’esplosione ad alta temperatura in un raggio di azione molto ridotto, allo scopo di produrre il danno in uno spazio minore.
10 – 10.000 perdite in otto mesi, che significano circa 2.500/3.000 morti ed il resto feriti, è un bilancio pesantissimo, per Israele, soprattutto alla luce della mancanza di risultati militari. La guerra del Kippur (1973) costò circa 2.700 morti, la prima guerra del Libano (1982-1985) più di 1.200, ma erano contro eserciti regolari. La seconda Intifada, la più sanguinosa, in cinque anni (2000-2005) costò circa 1.000 morti.



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