Sotto la guida di Reagan e della Thatcher, Stati Uniti e Gran Bretagna vararono nel corso degli anni Ottanta una serie di politiche che contribuirono a ristrutturare le società dell’Occidente (e non solo dell’Occidente) e l’ordine internazionale. Il processo di globalizzazione neoliberista [1] che ha plasmato il mondo negli ultimi decenni ha il proprio epicentro proprio nella Gran Bretagna e negli Stati Uniti.
Su
quest’onda si impose un nuovo ordine mondiale caratterizzato dal
“Washington Consensus”.
Oggi,
invece, il presidente USA, Donald Trump e la premier britannica
Theresa May puntano esplicitamente a sottrarsi, in termini e modalità
pur differenti, alla morsa dell’interdipendenza sempre crescente
tra le varie regioni del globo che è stata un tratto caratteristico
del processo di globalizzazione. Il nuovo presidente statunitense, in
particolare, arriva a mettere in discussione alcune delle stelle
cardinali seguite dalla politica americana negli ultimi decenni. Lo
fa sul dossier messicano, principalmente per porre fine ai processi
migratori che scavalcano il Rio Grande, incorrendo nella seria
conseguenza di mandare in malora il NAFTA, l’area integrata di
libero scambio che riunisce USA, Canada e Messico e che riveste
un’importanza strategica essenziale nella politica estera
statunitense. Più in generale Trump mette in discussione la bontà
dei progetti di integrazione regionale a guida Usa, che erano stati
promossi al fine di legare al carro statunitense aree strategiche
vitali nella sempre più difficile competizione geopolitica con gli
antagonisti dell’unipolarismo americano: Russia e Cina.
Cosa
ha spinto Trump, finora, ad assumere posizioni così singolari? In
parte, questa postura risponde alla promessa di far rinascere uno
stato del benessere che ha caratterizzato il sogno americano, sogno
ormai sepolto grazie all’impatto sociale del neoliberismo. E’
questo il significato più profondo dello slogan agitato durante la
corsa per la Casa Bianca: “first america great again”. Far
tornare grande l’America, significava per lui, ricostruire le basi
dello standard di vita statunitense, ormai museo dei ricordi e
tornare ad alimentare il mito del self made man di cui lui stesso
rappresenta incarnazione evidente. Su questa base ha costruito il suo
successo contro chi sosteneva lo status quo di strategie politiche
che parte dell’establishment stretto attorno alla Clinton riteneva
indiscutibili, al fine di garantire l’egemonia statunitense. Questo
non significa che a Washington siano stati abbandonati i sogni di
gloria, ma significa che il paese è al suo interno spaccato e che
nelle stanze del potere il dibattito sulla strada da intraprendere è
serrato.
Forse
la strategia di Trump inverte quella precedente: non tenta più di
strappare la Cina dalla Russia, come ipotizzato dalla diplomazia del
ping-pong di Kissinger in poi, ma di strappare la Russia dalla Cina.
Una trappola nella quale la Russia non intende cadere, come ha
sottolineato in un discorso alla Duma il ministro degli Esteri russo
Lavrov [2].
Se
in alcune cerchie si parla (propriamente o meno è un’altra
questione) di de-globalizzazione, in discussione ci sono le relazioni
troppo stringenti e vincolanti che sono state strette nei decenni
scorsi tra Usa e Cina, che hanno dato un loro contributo nel
promuovere lo spostamento dell’asse economico del mondo
dall’Atlantico all’Asia orientale e nel mirino c’è la Cina.
Cina che appare oggi paradossalmente come alfiere delle politiche di
interdipendenza. Per capirne i motivi bisogna risalire però alle
radici della scelta di Deng Xiaoping di attuare la politica di
riforme e apertura che sono state alla base del miracolo cinese.
La
scelta di Deng
Nel
1978, al momento dell’avvio della svolta all’insegna di “riforme
ed apertura” fortemente voluta dal nuovo leader, Deng Xiaoping, la
situazione in cui versava l’economia cinese può essere definita
preoccupante. Un punto debole in particolare era costituito dalle
infrastrutture. Benché la Cina avesse fatto enormi progressi
rispetto alla situazione del 1949, la sua rete di comunicazioni
restava ampiamente insufficiente per le proprie necessità, specie in
vista dello sviluppo che si voleva realizzare in tempi rapidi. La
principale arteria stradale tra Pechino e Tianjin nel 1978 aveva
solamente due corsie. In totale il paese contava 800 mila km di
strade di cui solo il 30% asfaltate [3]. Il traffico portuale non era
sostenuto da un’adeguata meccanizzazione della produzione, anche se
negli ultimi tempi aveva compiuto notevoli progressi, aumentando già
tra il 1972 e il 1977 del 60% la propria capacità di carico e
scarico [4]. Le capacità dell’industria erano del tutto
insufficienti a tener dietro agli ordinativi necessari per la
realizzazione di una prima meccanizzazione dell’agricoltura [5].
L’aspetto
più preoccupante era costituito dalla nuova rivoluzione tecnologica
che si affacciava nella Triade dei paesi a capitalismo avanzato. Un
treno che la Cina rischiava di perdere. In quel contesto era lo
stesso futuro del paese ad essere posto, in prospettiva, in
discussione. Sul gruppo dirigente stretto attorno a Deng devono aver
pesato come macigni le esperienze storiche della Cina. La chiusura e
l’arretratezza dell’era mancese, come prodromo e causa
dell’incapacità dell’Impero di mezzo di difendersi dai “barbari”
venuti dal mare, all’epoca dell’imperialismo e delle guerre
dell’oppio, deve aver rappresentato un monito.
La
difesa della sovranità nazionale implicava la necessità di
imboccare la via di uno sviluppo accelerato; lo sviluppo stesso, e la
legittimità del ruolo di guida del PCC e della rivoluzione cinese,
implicava la necessità di uscire dall’egualitarismo della povertà
per prendere atto che la “povertà non è socialista”, per dirla
con una nota espressione di Deng.
La
visione di Deng, di una società che procede verso la prosperità
comune e verso l’eliminazione della povertà tollerando disparità
di ricchezza per tutta una fase è entrata a pieno titolo nel
patrimonio ideologico del partito, opportunamente scortata dai
“quattro principi fondamentali”, ispirati dalla necessità di
avere come obiettivo il socialismo ed evitare la restaurazione del
capitalismo e una controrivoluzione borghese. A questi principi ci si
è richiamati per stroncare i moti di piazza Tiānānmén nel 1989. I
quattro principi sono: il socialismo, la dittatura del proletariato,
il ruolo guida del Pcc, il pensiero di Mao. L’importante VI Plenum
dell’XI Comitato Centrale del Partito nel 1981 ha fatto un bilancio
dell’esperienza storica del Pcc. Il bilancio su Mao in particolare
risulta positivo in modo preponderante, anche se non gli vengono
taciuti errori secondari. Il giudizio è ampiamente positivo per
l’opera svolta dal grande leader fino al 1957, mentre è critico
sul periodo che corre tra il 1957 e il 1966 ed è molto critico per
le scelte successive al ’66. Il giudizio su Deng è attualmente di
apprezzamento unanime. La sua linea è definita corretta. Nel 1997,
nel corso del XV Congresso del Pcc, la teoria di Deng della
costruzione del socialismo con caratteristiche cinesi è stata
definita “ideologia guida”.
La
prima necessità di Pechino consisteva nell’attrarre investimenti
esteri per lanciare attività industriali e tecnologiche. Si è
calcolato che nel solo 1978 vennero firmati contratti per un valore
di 7,8 mild USD [6], l’apertura da questo punto di vista fu un
successo da subito. Ma gli ostacoli da superare per far marciare la
modernizzazione furono enormi. Infrastrutture, fabbriche lontane dai
centri principali e dalla costa per motivi di sicurezza nazionale,
mentalità, scarsità di quadri, etc. La strategia fu quella di
utilizzare le Zone Economiche Speciali per attrarre investimenti e
ristrutturare le imprese pubbliche per far fruttare l’apertura in
termini di pronunciato dinamismo, avanzamento tecnologico e conquista
del futuro. Il percorso cinese delle riforme ha inteso attivare il
meccanismo della concorrenza e toccare le corde degli incentivi. In
gran parte ha funzionato lasciando libero corso alla capacità di
iniziativa del laborioso popolo cinese, sorvegliando i processi e
intervenendo per correggerli, sulla base del principio che il moto si
impara camminando. Così, ad esempio, la Lenovo, che oggi è tra i
colossi dell’informatica, è nata grazie all’iniziativa di 11
scienziati nel novembre del 1984, la loro prima sede fu la guardiola
dismessa all’ingresso dell’Accademia delle Scienze di Pechino.
Il
principio di decentrare le responsabilità e promuovere incentivi
serviva a rompere con il clima parassitario e improduttivo che vigeva
precedentemente nelle imprese statali e nel rinvigorirle.
Nel
maggio del 1979 vennero coinvolte nelle politica di modernizzazione
le prime otto grandi imprese pubbliche. Quindi, all’interno della
svolta, oltre a favorire l’iniziativa privata e l’investimento
straniero (a partire da quello delle comunità cinesi all’estero)
vi era anche il rilancio del settore pubblico. Un elemento, insieme a
quello del colore politico del potere e dei suoi obiettivi strategici
e ideali, che pone il fenomeno cinese in netta rottura con quanto
proposto dal neoliberismo e dal Washington Consensus.
L’obiettivo,
come già richiamato, era dato dalla necessità di realizzare in
tempi rapidi un imponente sviluppo delle forze produttive e di
aumentare progressivamente il benessere dell’intera popolazione.
La
III Sessione plenaria del Comitato centrale eletto al XII Congresso
del PCC nel 1984 ha fornito un bilancio dell’esperienza cinese e
tracciato necessità e motivi delle 4 modernizzazioni (agricoltura,
industria, difesa, scienza) volute da Deng. Tornare al documento può
aiutare a comprendere motivazioni e spirito della strategia cinese
del socialismo di mercato. In particolare può risultare istruttivo
il capitolo “La riforma è tesa all’affermazione di una struttura
socialista dinamica” [7].
Deve
essere notato un aspetto della politica economica cinese che in
Occidente non è abbastanza compreso: le diseguaglianze e disparità
che in Cina si sono venute a realizzare sull’onda delle riforme,
tra gruppi sociali e tra regioni, rispondono a una logica processuale
del tutta opposta alla crescita del fenomeno delle diseguaglianze che
viviamo in Occidente. Mentre da noi sotto l’impulso di scelte
macroeconomiche importate da oltreoceano si assiste a un
trasferimento di ricchezza dal basso al vertice della piramide
sociale, cioè a un impoverimento della stragrande maggioranza della
popolazione e questa politica passa dalla fine delle politiche
redistributive, tramite un uso distorto della leva fiscale, tramite
lo smantellamento dello stato sociale, tramite la precarietà nei
contratti di lavoro, etc… in Cina negli stessi decenni si è
assistito a un generale innalzamento della qualità della vita, a una
crescita che ha beneficiato tutti, anche se in misura diseguale. E’
grazie alla miracolosa crescita degli ultimi trent’anni che la Cina
ha strappato milioni di persone dalla povertà. La Cina è cresciuta
proprio perché non ha copiato il modello Usa, se lo avesse fatto
sarebbe andata gambe all’aria, come hanno fatto tutte le nazione
che hanno inoculato il morbo del neoliberismo.
Il
fine della politica di apertura e le linee guida della cooperazione
internazionale restano le stesse manifestate da Deng all’Onu nel
1974, quando non era ancora il leader incontrastato del paese:
“Contare
sulle proprie forze non significa affatto ripiegarsi su se stessi e
rifiutare l’aiuto esterno. Noi riteniamo da sempre che è benefico
e necessario per lo sviluppo dell’economia nazionale dei diversi
paesi di procedere, sulla base del rispetto della sovranità di
ciascuno Stato, della eguaglianza e dei vantaggi reciproci come pure
in funzione dei bisogni di ciascuno, a degli scambi economici e
tecnici allo scopo di completarsi reciprocamente” [8].
La
Cina assume questo orientamento tenendo come propria bussola i
principi della coesistenza stabiliti a Bandung nel lontano 1955. Come
ha ribadito recentemente il suo presidente Xi jinping durante il
meeting di Davos, la Cina ribadisce la sua fiducia nella cooperazione
e nell’integrazione internazionale sulla base dei principi di
Bandung della difesa della sovranità, del riconoscimento di modelli
diversi di sviluppo per diversi paesi, della cooperazione sud-sud
basata su mutuo beneficio (win-win). Un’impostazione antitetica a
quella dell’egemone statunitense.
La
sfida per la Cina resta aperta e complicata, ma i cinesi sono
orgogliosi della strada percorsa in questi 30 anni. Oggi, pur tra
mille problemi, la Cina è la fabbrica del mondo. Un pilastro del
nuovo equilibrio multipolare che cerca di arginare l’egemonismo
statunitense e che erode gli spazi del Washington Consensus. A
partire dalle relazioni con la Russia e dalla costruzione di legami
economici strettissimi con altri paesi in via di sviluppo che
disintermediano l’FMI e mettono in crisi la centralità degli
scambi del Sud del mondo con la Triade dei paesi capitalistici più
avanzati, riducendo la dipendenza delle periferie e semiperiferie
dell’economia mondiale dai tradizionali centri di potere del nord
del mondo.
Proprio
per questo le relazioni tra Usa e Cina nel prossimo futuro saranno da
tenere attentamente sotto controllo; dal loro sviluppo dipenderà
buona parte dell’assetto delle relazioni internazionali.
NOTE
1
Per un’interpretazione del processo di globalizzazione mi permetto
di rinviare a: S. A. Puttini, Il secolo lungo delle guerre
imperialiste; in: “MarxVentuno”, nn.1-2, 2016.
3
R. Palmieri, L’economia cinese verso gli anni ’80. Sviluppo,
socialismo e democrazia; Torino, Einaudi, 1978, p. 26
4
Ibidem, p. 35
5
Ibidem, p. 62
6
Wu Xiaobo, Miracolo cinese; op. cit., p. 16
7
Il testo è riportato in appendice a: S. Ginzberg, Il nuovo corso
cinese; Roma, Editori Riuniti, 1985.
8
R. Palmieri, op. cit., p. 222.
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