«Una delle qualità fondamentali dei bolscevichi […], uno dei punti fondamentali della nostra strategia rivoluzionaria è la capacità di comprendere ad ogni istante quale è il nemico principale e di saper concentrare tutte le forze contro questo nemico».
(Rapporto al VII Congresso dell’Internazionale Comunista)
Togliatti e la lotta per la pace ieri e oggi
1. Democrazia e
pace?
Conviene prendere le
mosse dalla guerra fredda. Per chiarire di quali tempi si trattasse
mi limito ad alcuni particolari. Nel gennaio del 1952, per sbloccare
la situazione di stallo nelle operazioni militari in Corea, il
presidente statunitense Harry S. Truman accarezzava un’idea
radicale che trascriveva anche in una nota di diario: si poteva
lanciare un ultimatum all’Unione Sovietica e alla Repubblica
popolare cinese, chiarendo in anticipo che la mancata ottemperanza
«significava che Mosca, San Pietroburgo, Mukden, Vladivostock,
Pechino, Shangai, Port Arthur, Dalian, Odessa, Stalingrado e ogni
impianto industriale in Cina e in Unione Sovietica sarebbero stati
eliminati» (Sherry 1995, p. 182).
Non si trattava di un sogno, raccapricciante quanto si voglia ma senza contatti con la realtà: in quegli anni l’arma atomica veniva ripetutamente brandita contro la Cina impegnata a completare la rivoluzione anticoloniale e a conseguire l’indipendenza nazionale e l’integrità territoriale. La minaccia risultava tanto più credibile a causa del ricordo, ancora vivido e terribile, di Hiroshima e Nagasaki: le due bombe atomiche lanciate sul Giappone agonizzante ma con lo sguardo rivolto – su questo concordano autorevoli storici statunitensi (Alperovitz 1995) – anche o in primo luogo all’Unione Sovietica. Del resto, a essere minacciati non erano solo l’Unione Sovietica e la Repubblica popolare cinese. Il 7 maggio 1954, a Dien Bien Phu, in Vietnam, un esercito popolare guidato dal partito comunista sconfiggeva le truppe di occupazione della Francia colonialista. Alla vigilia della battaglia, il segretario di Stato statunitense Foster Dulles si era così rivolto al primo ministro francese Georges Bidault: «E se vi dessimo due bombe atomiche» (da utilizzare, s’intende, immediatamente contro il Vietnam?) (Fontaine 1968, vol. 2, p. 118).
Nonostante non
indietreggiassero neppure dinanzi alla prospettiva dell’olocausto
nucleare pur di contenere la rivoluzione anticoloniale (essenziale
elemento costitutivo della rivoluzione democratica), nonostante tutto
ciò, in quegli anni gli Stati Uniti e i loro alleati propagandavano
la NATO da loro fondata come un contributo alla causa della
democrazia e della pace. È in questo contesto che va collocato il
discorso nel marzo 1949 pronunciato da Togliatti alla Camera dei
deputati, in occasione del dibattito relativo all’adesione
dell’Italia all’Alleanza Atlantica:
«La principale
delle vostre tesi è che le democrazie, come voi le chiamate, non
fanno le guerre. Ma, signori, per chi ci prendete? Credete veramente
che non abbiamo un minimo di cultura politica o storica? Non è vero
che le democrazie non facciano guerre: tutte le guerre coloniali del
XIX e XX secolo sono state fatte da regimi che si qualificavano come
democratici. Così gli Stati Uniti fecero una guerra di aggressione
contro la Spagna per stabilire il loro dominio in una parte del mondo
che li interessava; fecero la guerra contro il Messico per
conquistare determinate regioni dove vi erano sorgenti notevoli di
materie prime; fecero la guerra per alcuni decenni contro le tribù
indigene dei pellerossa, per distruggerle, dando uno dei primi esempi
di quel crimine di genocidio che oggi è stato giuridicamente
qualificato e dovrebbe in avvenire essere perseguito legalmente».
Non si doveva
neppure dimenticare «la ‘crociata delle 19 nazioni’, come venne
chiamata allora da Churchill» contro la Russia sovietica, ed era
peraltro sotto gli occhi di tutti la guerra della Francia contro il
Vietnam, in quel momento in pieno svolgimento (TO, 5; 496-97).
Dunque, ben lungi
dall’essere sinonimo di pace, le democrazie borghesi si erano rese
e continuavano a rendersi responsabili di guerre non poche volte di
carattere genocida. In ogni caso, agli occhi del leader del comunismo
italiano, prestar fede alla tesi per cui la democrazia borghese
sarebbe al riparo dalle pulsioni belliche, significava essere
sprovvisti di «cultura politica o storica». Sennonché, tale
cultura dileguava realmente alcuni decenni dopo. Al momento dello
scoppio della prima guerra contro l’Irak, mentre il Partito
comunista italiano si avviava a sciogliersi, un suo illustre filosofo
(Giacomo Marramao) dichiarava a «l'Unità» del 25 gennaio 1991:
«Nella storia non è mai accaduto che uno Stato democratico facesse
guerra a un altro Stato democratico».
Il tono di tale
dichiarazione non ammette repliche o dubbi. Mi permetto tuttavia di
citare Henry Kissinger, a cui si possono rimproverare molte cose ma
non la mancanza di «cultura politica o storica»:
«Quando scoppiò la
prima guerra mondiale, in Europa la maggior parte dei paesi (compresi
Gran Bretagna, Francia e Germania) erano governati da istituzioni
essenzialmente democratiche. Tuttavia, la prima guerra mondiale –
una catastrofe dalla quale l’Europa non si è mai ripresa del tutto
– fu entusiasticamente approvata da tutti i parlamenti
(democraticamente eletti)» (Kissinger 2011, pp. 425-26).
In realtà, la
guerra non ha risparmiato neppure quelle che amano autocelebrarsi
come le più antiche democrazie del mondo. Gran Bretagna e Stati
Uniti sono stati in guerra dal 1812 al 1815. E in tale occasione è
stato persino uno dei Padri fondatori della repubblica nordamericana,
e cioè Thomas Jefferson, a invocare contro la Gran Bretagna una
«guerra eterna» e persino totale, una guerra che poteva concludersi
solo con lo «sterminio (extermination) di una o dell’altra parte».
Non si tratta solo di una vicenda ormai remota. Ancora tra le due
guerre mondiali, per qualche tempo gli Stati Uniti continuarono a
considerare la Gran Bretagna come il nemico più probabile. Il piano
di guerra da loro approntato nel 1930 e firmato dal generale Douglas
MacArthur contemplava persino il ricorso ad armi chimiche .
2. Le guerre
coloniali
Rileggiamo la
dichiarazione di Marramao del 1991: essa ritiene inesistenti (a
torto) le guerre tra le democrazie mentre fa consapevole astrazione
dalle guerre coloniali di cui sono protagoniste le cosiddette
democrazie. Sono guerre le guerre coloniali? Pur di assolvere le
democrazie dovremmo mettere le guerre coloniali sul conto dei popoli
coloniali, colpiti in quanto arretrati e barbari?
A partire dal 1935
Togliatti era chiamato a fronteggiare l’aggressione dell’Italia
fascista all’Etiopia (o Abissinia). Mussolini dichiarava di voler
contribuire alla diffusione della civiltà europea: era necessario
farla finita con una «schiavitù millenaria» e con lo «pseudo
Stato barbarico e negriero», cioè schiavista, diretto dal «Negus
dei negrieri», dal leader degli schiavisti (Mussolini 1979, pp.
292-96). La propaganda del regime non si stancava di insistere: non
potevano più essere tollerati gli «orrori della schiavitù»; a
Milano il cardinale Schuster benediceva e consacrava l'impresa che «a
prezzo di sangue apre le porte d'Etiopia alla fede cattolica e alla
civiltà romana», e, abolendo «la schiavitù, rischiara le tenebre
della barbarie» (Salvatorelli, Mira, 1972, vol. 2, pp. 254 e 294).
Nonostante fosse condotta mediante l'impiego massiccio di iprite e
gas asfissianti e il massacro su larga scala della popolazione
civile, la guerra era celebrata come un’operazione civilizzatrice e
umanitaria e non priva di elementi democratici, dato che aboliva la
schiavitù. Siamo portati a pensare alle sedicenti operazioni
umanitarie dei giorni nostri.
Come reagiva
Togliatti a tale campagna? Nell’agosto 1935, nel suo Rapporto (La
lotta contro la guerra) al VII Congresso dell’Internazionale
Comunista, egli osservava:
«Per intieri
decenni, gli indigeni dell’Africa sono stati sottomessi a un regime
non soltanto di sfruttamento e di schiavitù, ma di vero e proprio
sterminio fisico. Gli anni di crisi hanno accresciuto gli orrori del
regime coloniale instaurato dagli europei nell’immenso continente
nero. D’altra parte, i fascisti, nella guerra condotta in Libia dal
1924 al 1929, hanno mostrato in modo non equivoco quali sono i metodi
fascisti di colonizzazione. Anche in questo campo, il fascismo ha
dimostrato di essere la forma più barbara di dominio della
borghesia. La guerra dell’Italia in Libia è stata condotta, dal
principio alla fine, come una guerra di sterminio delle popolazioni
indigene» (TO, 3.2; 760).
Da sempre
tendenzialmente genocide, anche quando sono scatenate da paesi a
ordinamento liberale e democratico, le guerre coloniali diventano con
il fascismo compiutamente e consapevolmente genocide.
Per un altro verso,
Togliatti riconosceva che «l’Abissinia è un paese economicamente
e politicamente arretrato». È vero, «non vi si ritrova ancora
nessuna traccia di un movimento nazionale rivoluzionario e neppure di
un semplice movimento democratico»; era ancora largamente presente
il «regime feudale». Occorreva allora appoggiare o per lo meno non
contrastare il sedicente intervento civilizzatore e umanitario? Nulla
di tutto questo. Al contrario Togliatti si dichiarava «pronto a
sostenere la lotta di liberazione del popolo abissino contro i
briganti fascisti» (TO, 3.2; 761-2); e ciò in considerazione non
solo delle infamie proprie dell’espansionismo e del dominio
coloniale ma anche del fatto che la lotta anticolonialista, anche se
condotta da paesi e popoli ancora al di qua della modernità, è
comunque parte integrante del processo rivoluzionario mondiale che
mette in crisi l’imperialismo (e il capitalismo).
Disgraziatamente,
anche questa lezione di Togliatti è andata smarrita. Nel 2011, la
NATO è intervenuta massicciamente contro la Libia di Gheddafi. Per
dirla con un filosofo autorevole ben lontano dal comunismo: «Oggi
sappiamo che la guerra ha fatto almeno 30.000 morti, contro le 300
vittime della repressione iniziale» rimproverata al regime che
l’Occidente era deciso a rovesciare (Todorov 2012). A invocare o ad
avallare l’intervento in questa guerra, definita neocoloniale anche
da numerosi studiosi, giornalisti e organi di stampa, sono state
rispettivamente Susanna Camusso, segretario generale della CGIL, e
Rossana Rossanda, figura storica del «quotidiano comunista»
italiano «il manifesto» (cfr. Losurdo 2014, cap. 1, § 10).
3. Una visione
«barocca» della lotta antimperialista
Com’è noto,
Togliatti era uno dei grandi protagonisti della svolta che nel 1935
spingeva l’Internazionale Comunista a individuare nel nazi-fascismo
il nemico principale e a promuovere contro di esso la politica del
fronte unito e del fronte popolare. Non era agevole per i comunisti
assumere questa posizione. La propaganda trotskista non si stancava
di denunciarla come un tradimento dell’anticolonialismo per il
fatto che inseriva i due più grandi imperi coloniali del tempo
(quello britannico e quello francese) tra i nemici secondari e
persino tra i potenziali alleati dell’Unione Sovietica.
Le resistenze alla
nuova linea politica provenivano anche da altre direzioni. Si prenda
Carlo Rosselli. Negli ultimi suoi anni di vita, prima di essere
assassinato dai sicari di Mussolini nel giugno 1937, il leader del
liberalsocialismo non era molto lontano dai comunisti, guardava con
simpatia alla «gigantesca esperienza russa» di «rivoluzione
socialista» e di «organizzazione socialista della produzione»
(Rosselli 1988, p. 381). Sia detto tra parentesi ma con assoluta con
chiarezza: il liberalsocialismo di Carlo Rosselli era ben diverso dal
liberalsocialismo che successivamente ha caratterizzato Norberto
Bobbio!
E, tuttavia, almeno
agli inizi Rosselli esprimeva riserve sulla svolta
dell’Internazionale Comunista, e le esprimeva in nome
dell’ortodossia rivoluzionaria: «La tesi marxista tradizionale è
stata accantonata e si è scivolati sempre di più verso la tesi
della “guerra democratica”. Il conflitto attuale non sarebbe più
il portato di un conflitto imperialistico, ma di un conflitto tra
Stati pacifisti (lo Stato proletario) e il fascismo, soprattutto il
fascismo tedesco». I partiti comunisti, almeno «nei paesi alleati
della Russia, saranno ridotti all’union sacrée» (Rosselli
1989-92, vol. 2, pp. 328-29). E cioè, agitando la bandiera
dell’unità antifascista, i comunisti facevano proprie le parole
d’ordine patriottarde da loro condannate in occasione della prima
guerra mondiale.
Questo modo di
argomentare perdeva di vista o non comprendeva le radicali novità
intervenute nel quadro internazionale. Era lo stesso esponente
liberalsocialista a scrivere, il 9 novembre 1934, che «la caduta del
regime sovietico costituirebbe una tremenda iattura che dobbiamo
concorrere ad evitare» (Rosselli 1988, p. 304). Rispetto al 1914,
era intervenuta una nuova contraddizione, quella tra capitalismo e
socialismo. E questo era solo un aspetto. Vent’anni prima, dopo
aver definito la prima guerra mondiale come una «guerra fra i
padroni di schiavi, per il consolidamento e il rafforzamento della
schiavitù» coloniale, Lenin aveva aggiunto: «L’originalità
della situazione sta nel fatto che, in questa guerra, i destini delle
colonie vengono decisi dalla lotta armata sul continente» (LO, 21;
275 e 277): ad avere l’iniziativa erano soltanto i «padroni di
schiavi», le grandi potenze colonialiste e imperialiste. Ciò non
era più vero alla vigilia e in occasione della seconda guerra
mondiale: promossa dalla rivoluzione d’ottobre, era già iniziata
la rivoluzione anticolonialista mondiale; gli schiavi coloniali si
erano lasciata alle spalle la condizione di passività e
rassegnazione. E cioè, accanto alla contraddizione
inter-imperialista, caratteristica della prima guerra mondiale,
agivano sia la contraddizione tra capitalismo e socialismo sia la
contraddizione tra le grandi potenze colonialiste da un lato e gli
schiavi coloniali in rivolta dall’altro. E quest’ultima
contraddizione diventava tanto più acuta a causa della pretesa delle
potenze imperialiste all’offensiva (Germania hitleriana,
imperialismo giapponese, Italia fascista) di riprendere e
radicalizzare la tradizione coloniale, assoggettando e schiavizzando
anche popoli di antica civiltà (quali la Russia e la Cina). A
rischiare l’assoggettamento coloniale o neocoloniale era persino un
paese come la Francia. Lenin l’aveva in qualche modo previsto. Nel
1916, mentre l’esercito di Guglielmo II era alle porte di Parigi,
il grande rivoluzionario russo da un lato ribadiva il carattere
imperialista del conflitto mondiale allora in corso, dall’altro
richiamava l’attenzione su un possibile capovolgimento: se il
gigantesco scontro fosse terminato «con vittorie di tipo napoleonico
e con la soggezione di tutta una serie di Stati nazionali capaci di
vita autonoma [...], allora sarebbe possibile in Europa una grande
guerra nazionale» (LO, 22; 308). È lo scenario che si verificava in
buona parte del mondo tra il 1939 e il 1945: le vittorie di tipo
napoleonico conseguite da Hitler in Europa e dal Giappone in Asia
finivano in entrambi i casi col provocare guerre di liberazione
nazionale. Ignorando la molteplicità delle contraddizioni e il loro
intreccio, nell’ottobre 1934 Rosselli definiva la «fase storica
che attraversiamo» come «la fase del fascismo, delle guerre
imperialistiche e della decadenza capitalistica» (Roselli 1988, p.
301). Se nel rinvio alla «decadenza capitalistica» è forse
implicito un accenno all’emergere della Russia sovietica, in ogni
caso il quadro qui tracciato ignora del tutto la rivoluzione
anticoloniale e le guerre di resistenza e di liberazione nazionale.
Forse, a spiegare le
resistenze alla svolta del 1935 non era solo la difficoltà a
comprendere le novità intervenute nella situazione internazionale.
Proprio perché caratterizzato dall’ambizione di fornire una
lettura unitaria della totalità sociale e storica, il marxismo viene
talvolta letto (e distorto) come una chiave di lettura che semplifica
e appiattisce la complessità dei processi storici e sociali. Gramsci
(1975, p. 1442) ha richiamato l’attenzione sulla «deviazione
infantile della filosofia della prassi» che, ignorando il ruolo
delle idee e delle ideologie, nutre la «convinzione barocca che
quanto più si ricorre a oggetti “materiali” tanto più si è
ortodossi» e fedeli seguaci del materialismo storico. È una pagina
memorabile già sul piano stilistico, oltre che su quello filosofico:
i sedicenti campioni dell’ortodossia sono sbeffeggiati quali
seguaci di una «convinzione barocca»! Questa disgraziatamente può
manifestarsi anche a un diverso livello: nell’analisi dei rapporti
internazionali non mancano coloro che ritengono di essere campioni
tanto più conseguenti dell’antimperialismo quanto più lungo è
l’elenco da loro stilato dei paesi imperialisti, tutti messi sullo
stesso piano!
Va da sé che tale
visione barocca era del tutto estranea a Lenin. Questi, nel 1916, nel
distinguere il colonialismo classico dal neocolonialismo, fa notare
che quest’ultimo si fonda non sull’«annessione politica» bensì
su «quella economica» e a tale proposito adduce l’esempio, oltre
che dell’Argentina, anche del Portogallo, il quale ultimo «è di
fatto un “vassallo” dell’Inghilterra» (LO, 23; 41-42). Il
grande rivoluzionario non ignorava certo che il Portogallo era
anch’esso detentore di un impero coloniale (contro il quale,
ovviamente, la lotta doveva continuare); tuttavia, l’aspetto
principale (da non perdere mai di vista) era l’asservimento
neocoloniale del Portogallo, entrato in qualche modo a far parte, in
ogni caso sul piano economico, dell’Impero britannico. D’altro
canto, abbiamo visto Lenin nel 1916 ipotizzare l’assoggettamento
neocoloniale inflitto dalla Germania di Guglielmo II a un paese come
la Francia, che pure a sua volta deteneva un vasto impero coloniale.
È questa lezione di
Lenin che Togliatti aveva alle spalle allorché criticava quella che
si potrebbe definire la visione barocca dell’antimperialismo:
«Una delle qualità
fondamentali dei bolscevichi […], uno dei punti fondamentali della
nostra strategia rivoluzionaria è la capacità di comprendere ad
ogni istante quale è il nemico principale e di saper concentrare
tutte le forze contro questo nemico» (TO, 3.2; 747).
È subito da
aggiungere che non si tratta di una dichiarazione isolata e sia pure
di straordinaria efficacia. Occorre tener presente che nel momento in
cui Togliatti enunciava la svolta di Salerno, in Italia capo del
governo era ancora Pietro Badoglio, che non a caso portava il titolo,
fra gli altri, di duca di Addis Abeba: era stato partecipe dei deliri
e dei crimini imperiali del fascismo. E, tuttavia, questo infame
capitolo di storia passava in secondo piano rispetto all’urgenza
della lotta di liberazione nazionale contro il regime di occupazione
all’Italia imposto dal Terzo Reich con la complicità di Mussolini.
4. Togliatti, Stalin
e la guerra fredda
Siamo ora in grado
di comprendere l’atteggiamento assunto da Togliatti dopo lo scoppio
della guerra fredda. Forse l’anno per lui più imbarazzante era il
1952. Era l’anno in cui cadevano due dichiarazioni di Stalin fra
loro difficilmente compatibili. Intervenendo brevemente al XIX
Congresso del PCUS e denunciando la subalternità degli alleati o
vassalli europei e occidentali di Washington, il leader sovietico
chiamava i partiti comunisti a risollevare la bandiera
dell’indipendenza nazionale e delle libertà democratiche «buttata
a mare» dalla borghesia dei loro paesi. In termini sensibilmente
diversi Stalin si esprimeva, sempre l’anno prima della sua morte,
scrivendo Problemi economici del socialismo in URSS (§ 6): piuttosto
che rassegnarsi all’egemonia incontrastata esercitata dagli Stati
Uniti, le altre potenze capitalistiche l’avrebbero sfidata; più
acute della stessa contraddizione tra capitalismo e socialismo, le
contraddizioni inter-imperialistiche avrebbero prima o dopo provocato
una nuova guerra mondiale, com’era avvenuto nel 1914 e nel 1939; e
tutto ciò a conferma dell’inevitabilità della guerra nel
capitalismo.
Com’è noto, le
cose sono andate in modo esattamente opposto rispetto alle previsioni
formulate da Problemi economici del socialismo in URSS: a disgregarsi
è stato non il campo imperialista bensì quello socialista; il
pericolo più acuto di guerra mondiale si è verificato non in
conseguenza della gara per l’egemonia tra le grandi potenze
capitalistiche ma della pretesa degli Stati Uniti di contenere e
ricacciare indietro socialismo e rivoluzione anticoloniale (si pensi
alla crisi del 1962 che non a caso vede il suo epicentro a Cuba); il
controllo esercitato da Washington sui suoi alleati e vassalli non è
dileguato e semmai si è ulteriormente rafforzato, come dimostrano la
fine ingloriosa dell’avventura anglo-francese del 1956 a Suez (con
l’estendersi del dominio statunitense anche in Medio Oriente) e il
venir meno della sfida gollista in Francia. È evidente l’errore
logico contenuto nei Problemi economici del socialismo in URSS: dalla
premessa dell’inevitabilità della guerra nel capitalismo non
scaturisce in alcun modo la conclusione che lo scontro tra le potenze
imperialistiche sia sempre all’ordine del giorno, quasi che tale
scontro non comporti mai, o solo per un breve periodo, la distinzione
tra vincitori e vinti. Ad esempio, dopo la sconfitta di quello che
Lenin definisce l’«imperialismo napoleonico» (LO, 22; 308), per
quasi un secolo l’imperialismo britannico è rimasto in pratica
senza rivali. E a maggior ragione senza seri rivali in campo
imperialista sono rimasti gli USA dopo la fine della seconda guerra
mondiale, che ha visto la disfatta di Germania, Giappone e Italia ma
anche il dissanguarsi e l’indebolirsi in modo grave di Gran
Bretagna e Francia. Resta il fatto che nel 1952 Stalin delineava due
scenari contrapposti: il primo, con lo sguardo rivolto all’Europa
del tempo, metteva in stato d’accusa la borghesia per la sua
capitolazione nei confronti della politica di guerra e di
sopraffazione perseguita da Washington; con lo sguardo rivolto
soprattutto al futuro, il secondo scenario denunciava la natura
intrinsecamente guerrafondaia delle diverse borghesie, messe tutte
sullo stesso piano.
Nel suo Rapporto del
10 novembre 1952 al Comitato centrale del PCI, Togliatti invitava a
non ricavare «conseguenze sbagliate» dalla tesi dell’inevitabilità
della guerra (ribadita da Stalin nei Problemi economici del
socialismo in URSS) e a non perdere di vista il compito concreto e
immediato della lotta per salvare la pace in quel momento minacciata
dalla politica aggressiva messa in atto dagli Stati Uniti contro il
campo socialista e contro la rivoluzione anticoloniale (TO, 5; 707).
È per questo che il leader del comunismo italiano faceva riferimento
in primo luogo e quasi esclusivamente all’altro intervento di
Stalin, quello che invitava i comunisti a difendere l’indipendenza
nazionale e la stessa democrazia politica messa in pericolo
dall’ondata maccartista che minacciava di travalicare l’Atlantico
e di investire anche l’Italia e l’Europa occidentale.
Per la verità
Togliatti aveva cominciato a elaborare questa linea politica già
prima dell’intervento di Stalin al XIX Congresso del PCUS. Nel suo
Rapporto al VII Congresso del PCI, svoltosi dal 3 all’8 aprile
1951, egli aveva denunciato l’imperialismo statunitense, impegnato
a «turbare tutto il processo di sviluppo e trasformazione di una
democrazia italiana» e aveva rivendicato una politica di
«indipendenza dell’Italia, di indipendenza della nostra patria da
chiunque voglia sottoporre la nostra economia e la nostra vita
politica ai suoi interessi e a quelli di un imperialismo straniero»
(TO, 5; 591 e 601). Numerosi indizi inducono a ritenere che sia stato
Togliatti a influenzare Stalin che dalla tribuna del XIX Congresso
invitava i comunisti occidentali a risollevare la bandiera della
democrazia e dell’indipendenza nazionale lasciata cadere dalla
borghesia. Certo, successivamente, nel Rapporto al Comitato centrale
del PCI del 10 novembre 1952, Togliatti insisteva con ancora più
forza, puntano il dito contro i «reazionari delle nostre parti»,
contro i reazionari italiani ed europei:
«Il compagno Stalin
ha strappato loro la maschera, ha messo in luce come essi abbiano
buttato a mare tutto quello che ci poté essere nel passato
nell’azione dei gruppi borghesi liberali e democratici, hanno
buttato a mare la bandiera della libertà e dell’indipendenza dei
popoli e posto quindi a noi il compito di raccogliere queste bandiere
e portarle avanti, di essere i patrioti del nostro paese e in questo
diventare forza dirigente della nazione» (TO, 5; 705).
Alla luce delle
considerazioni già svolte si può però dire che, citando Stalin,
Togliatti citava anche e forse in primo luogo se stesso. La linea che
emergeva era chiara ma non nuova: occorreva in primo luogo combattere
contro coloro che intendevano «strozzare la libertà e vendere
l’indipendenza del paese», che erano pronti a tollerare la
trasformazione dell’Italia «in una colonia asservita a un
imperialismo straniero»; occorreva colpire e neutralizzare i «gruppi
dirigenti dei paesi assoggettati agli Stati Uniti d’America» (TO,
5; 705-6). L’obiettivo perseguito da quest’ultimo paese era così
definito: era
«la conquista del
dominio sul mondo intiero […]; l’assoggettamento economico,
politico e militare, quindi di tutta una serie di paesi che fino a
ieri erano paesi indipendenti e anche di capitalismo sviluppato come
la Francia e l’Italia; la preparazione di un attacco contro
l’Unione Sovietica, contro la Cina, contro i paesi di democrazia
popolare. In concreto, per preparare le forze necessarie a questo
attacco e realizzare i suoi obiettivi, l’imperialismo americano ha
organizzato basi militari nel mondo intiero, invia le proprie truppe
e la fa stanziare in paesi che fino a ieri erano indipendenti e che
mai avrebbero tollerato l’occupazione di truppe straniere» (TO, 5;
708).
Sarebbe un grave
errore leggere questo testo come una banale tirata propagandistica.
Siamo invece in presenza di una riflessione teorica e politica: a
definire l’imperialismo non è soltanto l’ostilità nei confronti
del campo socialista e della rivoluzione anticoloniale; proprio
perché a caratterizzarlo è anche la gara per l’egemonia,
l’imperialismo può comportare l’assoggettamento, coloniale o
semicoloniale, di «paesi indipendenti e anche di capitalismo
sviluppato come la Francia e l’Italia», e persino di un paese come
la Francia (che nel 1952 aveva a disposizione un largo impero
coloniale). La contraddizione tra paesi «di capitalismo sviluppato»
non è necessariamente ed esclusivamente una contraddizione
inter-imperialistica, può anche essere la contraddizione tra un
imperialismo particolarmente potente e aggressivo e una potenziale
colonia o semicolonia. Sarebbe un inammissibile abbellimento
dell’imperialismo pensare che esso rifugga a priori dalla
trasformazione di un paese «di capitalismo sviluppato» in colonia o
semicolonia. Togliatti conosceva bene la polemica di Lenin contro
Kautsky: «è caratteristica dell’imperialismo […] la sua smania
non soltanto di conquistare territori agrari [come pretendeva
Kautsky], ma di metter mano anche su paesi fortemente industriali»,
anche perché questo può indebolire l’«avversario» (LO, 22,
268).
Sulla base di un
preciso bilancio storico e teorico, al fine di sventare il pericolo
che l’Italia fosse trascinata dall’imperialismo statunitense in
una guerra contro l’Unione Sovietica o contro la Cina popolare,
Togliatti faceva appello alla mobilitazione la più ampia possibile:
«Il movimento di cui l’Italia ha bisogno deve essere un movimento
delle grandi masse del popolo, a qualunque partito, a qualunque
gruppo sociale appartengano, per la salvezza della pace. Anche i
cittadini oggi più lontani da noi possono e debbono essere attirati
al lavoro per questa causa». E dunque: «A noi, partito della classe
operaia, spetta, in questo momento come nei momenti più gravi del
passato, riconoscere e difendere gli interessi di tutta la nazione»
(TO, 5; 602 e 578). Era la rinuncia alla lotta di classe? Pronta era
la risposta a questa possibile obiezione: «No, non esiste contrasto
tra una politica nazionale e una politica di classe del partito
comunista» (TO, 5; 590). Togliatti conosceva troppo bene Che fare?
per appiattirsi su una lettura tradunionistica della lotta di classe.
Soprattutto, in Unione Sovietica egli aveva potuto seguire
direttamente l’epica resistenza di Mosca, Leningrado, Stalingrado
contro il tentativo del Terzo Reich di rinverdire e radicalizzare la
tradizione coloniale in Europa orientale, riducendo l’intero popolo
sovietico alla condizione di schiavi al servizio della sedicente
razza dei signori. Togliatti aveva ben compreso che la Grande guerra
patriottica era una delle più grandi lotte di classe non solo del
Novecento ma della storia mondiale.
Vale la pena di
notare che nel novembre del 1938, nel momento in cui l’imperialismo
giapponese cercava di sottoporre a un barbaro dominio coloniale e di
schiavizzare il popolo cinese nel suo complesso, Mao Zedong
teorizzava, in tali circostanze, l’«identità fra la lotta
nazionale e la lotta di classe». Come la Grande guerra patriottica,
anche la Guerra di resistenza contro l’imperialismo giapponese è
da annoverare tra le più grandi lotte di classe non solo del
Novecento ma della storia mondiale (Losurdo 2013, cap. VI, §§ 7-8).
Quasi certamente Togliatti ignorava il testo appena citato del leader
comunista cinese; tanto più significativo è il fatto che egli
giunga alle medesime conclusioni a partire dall’analisi concreta
della situazione concreta.
5. L’imperialismo
USA e i crescenti pericoli di guerra
Sia chiaro: non si
tratta di abbandonarsi al gioco delle analogie. Anche per comprendere
il quadro politico dei giorni nostri dobbiamo procedere all’analisi
concreta della situazione concreta. È un compito che resta
largamente da assolvere. Tuttavia, possiamo già definire alcuni
punti fermi.
Va da sé che non
dobbiamo stancarci di denunciare il ruolo infame di paesi come la
Germania e l’Italia nello smembramento e nella guerra contro la
Jugoslavia, o il ruolo infame dell’Italia nella guerra contro la
Libia e della Germania nel colpo di Stato in Ucraina; per non parlare
del ruolo infame della Francia prima di Sarkozy e poi di Hollande
nella guerra contro la Libia e contro la Siria. Ma tutte queste
infamie neocoloniali e altre ancora sono state rese possibili dalla
strapotenza militare e dal ruolo egemonico degli USA, che talvolta le
hanno promosse in modo più o meno diretto. E, tuttavia, nel guardare
al pericolo di guerra su larga scala che si profila all’orizzonte
non possiamo non tener conto dei profondi mutamenti intervenuti
rispetto al passato.
Alla vigilia della
prima e della seconda guerra mondiale c’erano due coalizioni
militari contrapposte; ai giorni nostri c’è in pratica una sola
gigantesca coalizione militare la (NATO) che si espande sempre di più
e che continua a essere sotto il ferreo controllo statunitense. Alla
viglia della prima e della seconda guerra mondiale i principali paesi
capitalistici si accusavano reciprocamente di scatenare la corsa al
riarmo; ai giorni nostri, invece, gli Stati Uniti criticano i loro
alleati perché non dedicano maggiori risorse al bilancio militare,
perché non accelerano a sufficienza la politica di riarmo.
Chiaramente, la guerra a cui si pensa a Washington non è la guerra
contro la Germania, la Francia o l’Italia, ma quella contro la Cina
(il paese scaturito dalla più grande rivoluzione anticoloniale e
diretto da uno sperimentato partito comunista) e/o la Russia (che con
Putin ha avuto il torto, dal punto di vista della Casa Bianca, di
scuotersi di dosso il controllo neocoloniale cui si era piegato o
adattato Eltsin). E questa guerra su larga scala, che potrebbe
persino varcare la soglia nucleare, gli Stati Uniti sperano
all’occorrenza di poterla condurre con la partecipazione
subalterna, al loro fianco e ai loro ordini, di Germania, Francia,
Italia e degli altri paesi della NATO.
È dunque contro il
pericolo di una guerra scatenata dalla superpotenza che, unica al
mondo, continua a ritenersi la «nazione eletta da Dio», dalla
superpotenza che da un pezzo aspira a garantire a se stessa «la
possibilità di un primo colpo [nucleare] impunito» (Romano 2014, p.
29), dalla superpotenza che ha installato anche nel nostro paese basi
militari e armi nucleari direttamente o indirettamente controllate da
Washington, è contro questo pericolo di guerra concreto che siamo
chiamati a lottare. E potremo affrontare questo pericolo crescente
con tanta più efficacia quanto più sapremo tener conto, adattandola
ovviamente alla situazione odierna, della grande lezione di Palmiro
Togliatti.
Riferimenti
bibliografici
Gar Alperovitz 1995
The Decision to Use
the Atomic Bomb and the Architecture of an American Myth, Knopf, New
York
André Fontaine 1968
Histoire de la
guerre froide (1967); tr. it., di Rino Dal Sasso, Storia della guerra
fredda. Dalla guerra di Corea alla crisi delle alleanze, il
Saggiatore, Milano
Antonio Gramsci 1975
Quaderni del
carcere, ed. critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino
Henry Kissinger 2011
On China, The
Penguin Press, New York
Vladimir I. Lenin
1955-70
Opere complete,
Editori Riuniti, Roma (a questa edizione si rinvia direttamente nel
testo, facendo precedere dalla sigla LO l’indicazione del volume e
della pagina)
Domenico Losurdo
2013
La lotta di classe.
Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari
Domenico Losurdo
2014
La sinistra assente.
Crisi, società dello spettacolo, guerra, Carocci, Roma
Benito Mussolini
1979
Scritti politici, a
cura di Enzo Santarelli, Feltrinelli, Milano
Sergio Romano 2014
Il declino
dell’impero americano, Longanesi, Milano
Carlo Rosselli 1988
Scritti politici, a
cura di Zeffiro Ciuffoletti e Paolo Bagnoli, Guida, Napoli
Carlo Rosselli
1989-92
Scritti dell’esilio,
a cura di Costanzo Casucci, Einaudi, Torino
Luigi Salvatorelli,
Giovanni Mira 1972
Storia d’Italia
nel periodo fascista (1964), Oscar Mondadori, Milano, 2 voll.
Michael S. Sherry
1995
In the Shadow of
War. The United States Since the 1930s,Yale University Press, New
Haven and London
Tzvetan Todorov 2012
La guerra
impossibile, in «la Repubblica» del 26 giugno, pp. 1 e 29
Palmiro Togliatti
1973-84
Opere, a cura di
Ernesto Ragionieri, Editori Riuniti, Roma (a questa edizione si
rinvia direttamente nel testo, facendo precedere dalla sigla TO
l’indicazione del volume e della pagina)
NOTE
* Il saggio di
Domenico Losurdo, che qui pubblichiamo, è stato già tradotto (da
Maria Lucilia Ruy) su «Principíos», la rivista teorica del Partito
Comunista del Brasile (PCdoB), e in questi giorni esce anche
(tradotto da Hermann Kopp) su «Marxistische Blätter», la rivista
teorica del Partito Comunista Tedesco. La lezione di Palmiro
Togliatti è quanto mai attuale e preziosa per condurre la lotta per
la pace, che oggi più che mai s’impone.
Per una più ampia
documentazione relativa ai problemi trattati rinviamo al libro
apparso in questi giorni: D. Losurdo, Un mondo senza guerre. L’idea
di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente,
Carocci, Roma, 2016. Si veda in particolare il cap. 10 (Democrazia
universale e «pace definitiva»?).
Nessun commento:
Posta un commento