martedì 14 marzo 2017

Marx rivisitato (2): capitale, lavoro e sfruttamento*- Riccardo Bellofiore

*Da:   http://www.dialetticaefilosofia.it/   (pubblicato in Il terzo libro del Capitale di Marx, a cura di Marco L. Guidi, “Trimestre”, XXIX, n. 1-2, 1996, pp. 29-86)  
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/01/marx-rivisitato-capitale-lavoro-e.html 


   Lavoro astratto, scambio e produzione capitalistica

[…] Secondo Marx, le merci si scambiano perché già eguali prima del loro confrontarsi sul mercato.

Le merci hanno cioè un valore di scambio, si pongono in certi rapporti relativi tra di loro, perché sono valori assoluti, prima della metamorfosi finale con il denaro, che pure è la loro destinazione essenziale. Dietro il valore assoluto Marx rinviene, appunto, nient’altro che lavoro astratto oggettivato [18].

Il modo di esposizione all’inizio del Capitale dà l’apparenza di svolgersi secondo un processo logico che va dal valore di scambio al valore al lavoro; e, perciò, di una progressiva espunzione dalle merci di tutte le caratteristiche diverse da quella di essere meri prodotti di lavoro.

Come è stato mille volte osservato, se si ragiona secondo questa procedura, non si vede perché oltre al lavoro, elemento attivo della produzione, non dovrebbe rimanere anche la natura, elemento passivo.

Quest’ultima, d’altra parte, entra nei processi produttivi come natura trasformata: include perciò, oltre alle quantità di lavoro passato coagulato nei mezzi di produzione, anche la scienza, la tecnica e l’innovazione. Non si vede allora perché anche questi ulteriori elementi non debbano essere considerati creatori del valore. Sarebbe inoltre, in questo caso, decisiva l’obiezione di Böhm- Bawerk: oltre all’essere prodotti di lavoro, le merci possiedono tutte la caratteristica dell’utilità – esistono, semmai, merci che non sono esito di processi di lavoro.

Il fatto è che la sequenza marxiana non va letta dal valore al lavoro ma in senso inverso, dal lavoro al valore [19]. La domanda che si pone Marx è in sostanza questa: quale è la condizione del lavoro in quella situazione sociale particolare in cui la società non si costituisce nel momento in cui gli esseri umani producono, ma posteriormente, nello scambio di prodotti in quanto merci?

Qual è, dunque, la condizione del lavoro quando gli individui, nel momento della sua erogazione, sono reciprocamente indifferenti, immediatamente separati, e la loro connessione sociale è demandata al meccanismo impersonale del mercato – alle cose – invece che essere implicita già nella stessa attività?

Quando, insomma, la socialità di ciò che hanno prodotto si realizza post factum, e si incarna in un potere d’acquisto generale, indifferente a ogni determinazione specifica, il denaro?

La risposta di Marx è che in quella situazione storicamente determinata dove lo scambio è generale, il lavoro è realmente “astratto” dagli individui che lo prestano. I lavori immediatamente privati di individui asociali che si confrontano sul mercato possono divenire sociali soltanto rovesciandosi nel proprio opposto, annullando cioè le particolarità determinate, concrete e utili che li distinguono: divenendo, appunto, lavoro astratto, senza qualità.

In forza di questo processo, il lavoro è reso generico, qualitativamente identico; i suoi prodotti sono per questo equivalenti, e perciò quantitativamente comparabili. Il lavoro astratto, sostanza del valore, è quindi il lavoro oggettivato nelle merci.

È un lavoro alienato, esito di una separazione dei soggetti dalla dimensione sociale del loro agire produttivo, che è ormai solo mediata.

Ed è un lavoro caratterizzato da una inversione, o ipostasi reale: perché, nella situazione in cui la società si costituisce nello scambio, cioè al livello del lavoro morto, il produttore, il lavoratore, soggiace al dominio impersonale del meccanismo economico, quindi del prodotto, del lavoro ormai da lui separato.

I diversi lavoratori adesso sembrano – e in effetti sono – semplici appendici del lavoro che hanno prestato. Il lavoro è astratto in quanto alienato: i lavoratori sono separati dalla dimensione sociale della loro attività, che esiste soltanto al momento dello scambio effettivo.

In questo ragionamento, dunque, l’astrazione del lavoro è frutto dell’alienazione che si produce nello scambio. Il ricercatore è legittimato a isolare il lavoro come sostanza del valore in quanto i lavori concreti sono oggetto di un processo di eguagliamento-astrazione nella realtà dello scambio. L’astrazione di cui si sta discutendo è, insomma, un’astrazione reale, non mentale, secondo l’autore del Capitale.

Ma Marx va oltre: afferma, cioè, che l’astrazione-alienazione del lavoro oggettivato prodotta dallo scambio ha a sua volta un presupposto, l’astrazione-alienazione del lavoro vivo. La sequenza logica marxiana diviene allora questa: dato che l’attività stessa è alienata, dato quindi che il lavoro è realmente astratto in quanto lavoro effettuato in vista dello scambio di merci, che conta soltanto in quanto generico e non per le sue caratteristiche utili, nel prodotto in quanto merce deve riscontrarsi la medesima alienazione.

Il lavoro astratto sostanza del valore è perciò un lavoro oggettivato qualitativamente spogliato di ogni relazione con la natura e con la scienza, solo quantitativamente determinato, perché la stessa prestazione lavorativa è stata a sua volta ridotta alla dimensione dell’astrazione.

In queste circostanze il lavoro è, a un tempo, tutto e niente. Tutto in quanto diviene capitale e assoggetta a sé i lavoratori concreti. Niente, in quanto il lavoratore individuale viene svuotato dall’astrazione. L’una e l’altra dimensione del lavoro astratto sono, per Marx, percepibili sperimentalmente nella produzione: nel possibile antagonismo di classe, il primo; nei caratteri della condizione lavorativa, la seconda.

Ma che tipo di produzione è quella in cui il lavoro vivo diviene astratto? La produzione di valore di cui tratta Marx all’inizio del Capitale è forse quella di produttori indipendenti in una “società mercantile semplice”? Nient’affatto. Nello svolgimento del suo discorso Marx mostra come la situazione di scambio generalizzato delle merci può darsi soltanto là dove domina il modo capitalistico di produzione.

L’astrazione del lavoro nello scambio è perciò la conseguenza non dell’alienazione della condizione tipica di un mitico lavoro “naturale”, ma della soggezione del lavoro vivo del salariato al capitale [20]. Più precisamente: il valore è l’oggettivazione di quel lavoro che è presente in potenza nella forza-lavoro del salariato; il lavoro in atto del salariato si rivela ora come il lavoro astratto nel farsi della sua oggettivazione, cioè valore in potenza.

Una volta che il “presupposto” di uno scambio generalizzato di merci viene, dall’interno dell’analisi, a rivelarsi come “posto” dal capitale – una volta, dunque, che la categoria di lavoro astratto assume una seconda determinazione: da lavoro alienato di produttori nello scambio, a lavoro vivo del salariato – corre evidentemente l’obbligo di ridefinire quei lavori privati il cui opporsi l’un l’altro sul mercato dà luogo all’astrazione del valore.

Se l’equivoco del marxismo, a vario titolo, engelsiano, secondo cui si tratterebbe di produttori proprietari dei mezzi di produzione in una società di scambio generale ma senza capitale è, appunto, nient’altro che un equivoco [21], che cosa corrisponde a quei lavori privati? Si tratta, a noi pare, degli “operai collettivi”: dei processi di lavoro capitalistici organizzati dai molti capitali singoli.

Abbiamo qui una sorta di antevalidazione sociale dei lavori privati individuali, coordinati nelle diverse imprese in reciproca competizione come fossero un lavoratore unico: per così dire, una scommessa sulla socialità (solo mediata) di questo lavoratore collettivo da parte dei capitalisti imprenditori; scommessa che, oltre alla sanzione finale del mercato, soggiace anche a una sanzione iniziale, costituita dal finanziamento, quindi dalla “fiducia”, del capitalista monetario all’inizio del circuito capitalistico [22].

Se le cose stanno così, d’altra parte, si deve ammettere che nel valore alla Marx è presente sin dall’inizio, come tratto essenziale della realtà capitalistica, la concorrenza (dinamica) di un capitale in opposizione agli altri capitali. La conferma è facile da trovare. Nella stessa analisi del valore come si configura nel primo libro del Capitale – dunque prima ancora di passare alla determinazione di prezzi di produzione diversi dai valori di scambio – Marx tiene conto della lotta di concorrenza all’interno del ramo di produzione, e distingue il valore “sociale” della merce, che nel terzo libro diverrà il valore “di mercato”, dal suo valore “individuale”.

La possibilità di abbassare il secondo al di sotto del primo (che è quello al quale si suppone le merci vengono effettivamente scambiate) così come la necessità di farlo (per non essere espulsi dal mercato) sono la base della sistematica caccia all’extra-plusvalore che dà ragione del carattere endogeno, incessante e squilibrato dello sviluppo capitalistico. Questo tipo di concorrenza infrasettoriale permane evidentemente anche nelle situazioni in cui i prezzi che regolano gli scambi obbediscono a regole diverse e non si identificano con i valori di scambio, cioè quando la concorrenza intersettoriale fa emergere una tendenza all’eguaglianza del saggio del profitto.

Tiriamo le fila del discorso fatto sin qui. Abbiamo individuato la presenza di due diverse, ma non contraddittorie, accezioni del lavoro astratto come sostanza del valore: per un verso, il lavoro in quanto risultato (lavoro morto, ormai oggettivato nella merce); per l’altro verso, il lavoro in quanto attività (lavoro vivo, o lavoro in atto, estratto dalla forza-lavoro). Va tenuto, d’altronde, presente, che il cuore della critica all’economia politica sta proprio nella sottolineatura della natura nient’affatto scontata della traduzione della capacità lavorativa, mera potenza di erogazione di lavoro astratto, in effettiva prestazione di lavoro vivo da parte del salariato. Non è possibile cioè ritenere che, all’atto della contrattazione sul mercato del lavoro, sia definito con certezza lo “sforzo” lavorativo effettivo.

Altrettanto problematico è poi, in Marx, il salto dal lavoro in atto, cioè dal valore in potenza, a una effettiva creazione di valore di pari ammontare. Non è perciò neanche possibile ritenere che la produzione crei i propri sbocchi. Nella dialettica tra, da un lato, il lavoro morto nell’oggetto – a cui è riducibile tanto il capitale anticipato (costante e variabile) quanto il plusvalore prodotto (nuovo capitale in potenza) – e, dall’altro lato, il lavoro vivo del salariato – unico elemento non merce e non valore che è possibile discernere nel processo capitalistico di produzione, e quindi unico acquisto esterno per la classe capitalistica e unica possibile sorgente del valore e del capitale – sta tutto il segreto della teoria marxiana del valore.

Privato di questa dialettica, Marx diviene davvero, scientificamente e politicamente, del tutto inutile.

Prima di procedere oltre, può essere opportuno mettere in evidenza come il discorso teorico marxiano, quale lo si è qui ricostruito, riprende in forma originale la riflessione aristotelica sulla “potenza”. Si trova in Aristotele la distinzione tra, da un lato, la “possibilità” come pura pensabilità, il semplice “poter essere” (endecesqai), e, dall’altro lato, la “possibilità concreta” o potenza (dunamiV), intesa invece come una “realtà in quanto capace di divenire, e cioè di rendere esplicita una forma implicita, raggiungendo con ciò un superiore grado di perfezione” [23](energeia) la forma che da tale potenza si sviluppa.

Secondo alcuni interpreti, in Aristotele l’“essere in atto” continua pur sempre a essere inteso come superiore all’“essere in divenire”, in quanto non ha bisogno di svilupparsi ulteriormente; non così, peraltro, nella ripresa cristiana di questa problematica, dove vale semmai l’inverso [24].

L’analisi marxiana della forma lavoro e della forma-valore può essere riletta in questi medesimi termini. La forza-lavoro è potenza di lavoro; il lavoro vivo è capacità lavorativa in atto, e insieme valore in potenza. Il valore, a sua volta, è atto del precedente, in quanto lavoro astratto in fieri, e allo stesso tempo denaro in potenza. Il denaro è la “forma del valore” pienamente sviluppata, e capitale in potenza. Diviene capitale in atto, cioè assoluta capacità di autoaccrescimento della ricchezza astratta, attraverso la duplice relazione col lavoro: di scambio (mercato del lavoro), e di sfruttamento (processo di lavoro come processo di valorizzazione).

Assumendo il carattere dell’astratta generalità, il lavoro del singolo diviene capace di espansione illimitata, rovesciandosi però nella forma dell’indifferenza, e quindi dell’alienazione. Analogamente, la ricchezza materiale può accrescersi senza soste – e tanto più quanto più i valori d’uso assumono la forma adeguata a farsi supporto di quella ricchezza generica, il valore, che è mezzo e fine a se stesso. 

È quanto svilupperemo nelle sezioni che seguono. 

   La sussunzione formale del lavoro al capitale: i profitti originari 

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