*Da:
http://www.dialetticaefilosofia.it/
(pubblicato
in Il terzo libro del Capitale di Marx, a cura di Marco L. Guidi,
“Trimestre”, XXIX, n. 1-2, 1996, pp. 29-86)
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/01/marx-rivisitato-capitale-lavoro-e.html
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[…] Secondo Marx,
le merci si scambiano perché già eguali prima del loro confrontarsi
sul mercato.
Le merci hanno cioè
un valore di scambio, si pongono in certi rapporti relativi tra di
loro, perché sono valori assoluti, prima della metamorfosi finale
con il denaro, che pure è la loro destinazione essenziale. Dietro il
valore assoluto Marx rinviene, appunto, nient’altro che lavoro
astratto oggettivato [18].
Il modo di
esposizione all’inizio del Capitale dà l’apparenza di svolgersi
secondo un processo logico che va dal
valore di scambio al valore al lavoro; e, perciò, di una progressiva
espunzione dalle merci di tutte
le caratteristiche diverse da quella di essere meri prodotti di
lavoro.
Come è stato mille
volte osservato, se si ragiona secondo questa procedura, non si vede
perché oltre al lavoro, elemento attivo della produzione, non
dovrebbe rimanere anche la natura, elemento passivo.
Quest’ultima,
d’altra parte, entra nei processi produttivi come natura
trasformata: include perciò, oltre alle quantità
di lavoro passato coagulato nei mezzi di produzione, anche la
scienza, la tecnica e l’innovazione. Non
si vede allora perché anche questi ulteriori elementi non debbano
essere considerati creatori
del valore. Sarebbe inoltre, in questo caso, decisiva l’obiezione
di Böhm- Bawerk: oltre
all’essere prodotti di lavoro, le merci possiedono tutte la
caratteristica dell’utilità – esistono, semmai,
merci che non sono esito di processi di lavoro.
Il fatto è che la
sequenza marxiana non va letta dal valore al lavoro ma in senso
inverso, dal lavoro al valore
[19]. La domanda che si pone Marx è in sostanza questa: quale è la
condizione del lavoro in quella
situazione sociale particolare in cui la società non si costituisce
nel momento in cui gli esseri umani
producono, ma posteriormente, nello scambio di prodotti in quanto
merci?
Qual è, dunque, la
condizione del lavoro quando gli individui, nel momento della sua
erogazione, sono reciprocamente indifferenti, immediatamente
separati, e la loro connessione sociale è demandata al meccanismo
impersonale del mercato – alle cose – invece che essere implicita
già nella stessa attività?
Quando, insomma, la
socialità di ciò che hanno prodotto si realizza post factum, e si incarna in un potere
d’acquisto generale, indifferente a ogni determinazione specifica,
il denaro?
La risposta di Marx
è che in quella situazione storicamente determinata dove lo scambio
è generale, il lavoro
è realmente “astratto” dagli individui che lo prestano. I lavori
immediatamente privati di individui
asociali che si confrontano sul mercato possono divenire sociali
soltanto rovesciandosi nel
proprio opposto, annullando cioè le particolarità determinate,
concrete e utili che li distinguono:
divenendo, appunto, lavoro astratto, senza qualità.
In forza di questo
processo, il lavoro è reso generico, qualitativamente identico; i
suoi prodotti sono per questo equivalenti, e perciò
quantitativamente comparabili. Il lavoro astratto, sostanza del
valore, è quindi il lavoro oggettivato nelle merci.
È un lavoro
alienato, esito di una separazione dei soggetti dalla dimensione
sociale del loro agire produttivo, che è ormai solo mediata.
Ed è un lavoro
caratterizzato da una inversione, o ipostasi reale: perché, nella
situazione in cui la società si costituisce nello scambio, cioè al
livello del lavoro morto, il produttore, il lavoratore, soggiace al
dominio impersonale del meccanismo economico, quindi del prodotto,
del lavoro ormai da lui separato.
I diversi lavoratori
adesso sembrano – e in effetti sono – semplici appendici del
lavoro che hanno prestato. Il lavoro è astratto in quanto alienato:
i lavoratori sono separati dalla dimensione sociale della loro
attività, che esiste soltanto al momento dello scambio effettivo.
In questo
ragionamento, dunque, l’astrazione del lavoro è frutto
dell’alienazione che si produce nello scambio. Il
ricercatore è legittimato a isolare il lavoro come sostanza del
valore in quanto i lavori concreti sono
oggetto di un processo di eguagliamento-astrazione nella realtà
dello scambio. L’astrazione di
cui si sta discutendo è, insomma, un’astrazione reale, non
mentale, secondo l’autore del Capitale.
Ma Marx va oltre:
afferma, cioè, che l’astrazione-alienazione del lavoro oggettivato
prodotta dallo scambio ha a sua volta un presupposto,
l’astrazione-alienazione del lavoro vivo. La sequenza logica marxiana diviene allora questa: dato che l’attività stessa è
alienata, dato quindi che il lavoro è realmente astratto in quanto
lavoro effettuato in vista dello scambio di merci, che conta soltanto
in quanto generico e non per le sue caratteristiche utili, nel
prodotto in quanto merce deve riscontrarsi la medesima alienazione.
Il lavoro astratto
sostanza del valore è perciò un lavoro oggettivato qualitativamente
spogliato di ogni relazione con la natura e con la scienza, solo
quantitativamente determinato, perché la stessa prestazione
lavorativa è stata a sua volta ridotta alla dimensione
dell’astrazione.
In queste
circostanze il lavoro è, a un tempo, tutto e niente. Tutto in quanto
diviene capitale e assoggetta a sé i
lavoratori concreti. Niente, in quanto il lavoratore individuale
viene svuotato dall’astrazione.
L’una e l’altra dimensione del lavoro astratto sono, per Marx,
percepibili sperimentalmente
nella produzione: nel possibile antagonismo di classe, il primo; nei
caratteri della condizione
lavorativa, la seconda.
Ma che tipo di
produzione è quella in cui il lavoro vivo diviene astratto? La
produzione di valore di cui tratta
Marx all’inizio del Capitale è forse quella di produttori
indipendenti in una “società mercantile semplice”? Nient’affatto. Nello svolgimento del suo
discorso Marx mostra come la situazione
di scambio generalizzato delle merci può darsi soltanto là dove
domina il modo capitalistico di
produzione.
L’astrazione del
lavoro nello scambio è perciò la conseguenza non dell’alienazione
della condizione tipica di un mitico lavoro “naturale”, ma della
soggezione del lavoro vivo del salariato al capitale [20]. Più
precisamente: il valore è l’oggettivazione di quel lavoro che è
presente in potenza nella forza-lavoro del salariato; il lavoro in
atto del salariato si rivela ora come il lavoro astratto nel farsi della sua oggettivazione, cioè valore in potenza.
Una volta che il
“presupposto” di uno scambio generalizzato di merci viene,
dall’interno dell’analisi, a
rivelarsi come “posto” dal capitale – una volta, dunque, che la
categoria di lavoro astratto assume una
seconda determinazione: da lavoro alienato di produttori nello
scambio, a lavoro vivo del
salariato – corre evidentemente l’obbligo di ridefinire quei
lavori privati il cui opporsi l’un
l’altro sul mercato dà luogo all’astrazione del valore.
Se l’equivoco del
marxismo, a vario titolo, engelsiano, secondo cui si tratterebbe di
produttori proprietari dei mezzi di produzione in una società di
scambio generale ma senza capitale è, appunto, nient’altro che un
equivoco [21], che cosa corrisponde a quei lavori privati? Si tratta,
a noi pare, degli “operai collettivi”: dei processi di lavoro
capitalistici organizzati dai molti capitali singoli.
Abbiamo qui una
sorta di antevalidazione sociale dei lavori privati individuali,
coordinati nelle diverse imprese in reciproca competizione come
fossero un lavoratore unico: per così dire, una scommessa sulla
socialità (solo mediata) di questo lavoratore collettivo da parte
dei capitalisti imprenditori; scommessa che, oltre alla sanzione
finale del mercato, soggiace anche a una sanzione iniziale,
costituita dal finanziamento, quindi dalla “fiducia”, del
capitalista monetario all’inizio del circuito capitalistico [22].
Se le cose stanno
così, d’altra parte, si deve ammettere che nel valore alla Marx è
presente sin dall’inizio, come
tratto essenziale della realtà capitalistica, la concorrenza
(dinamica) di un capitale in opposizione agli
altri capitali. La conferma è facile da trovare. Nella stessa
analisi del valore come si configura
nel primo libro del Capitale – dunque prima ancora di passare alla determinazione di
prezzi di produzione diversi dai valori di scambio – Marx tiene
conto della lotta di concorrenza
all’interno del ramo di produzione, e distingue il valore “sociale”
della merce, che nel terzo libro
diverrà il valore “di mercato”, dal suo valore “individuale”.
La possibilità di abbassare il secondo al di sotto del primo (che è quello al quale si suppone le merci vengono effettivamente scambiate) così come la necessità di farlo (per non essere espulsi dal mercato) sono la base della sistematica caccia all’extra-plusvalore che dà ragione del carattere endogeno, incessante e squilibrato dello sviluppo capitalistico. Questo tipo di concorrenza infrasettoriale permane evidentemente anche nelle situazioni in cui i prezzi che regolano gli scambi obbediscono a regole diverse e non si identificano con i valori di scambio, cioè quando la concorrenza intersettoriale fa emergere una tendenza all’eguaglianza del saggio del profitto.
La possibilità di abbassare il secondo al di sotto del primo (che è quello al quale si suppone le merci vengono effettivamente scambiate) così come la necessità di farlo (per non essere espulsi dal mercato) sono la base della sistematica caccia all’extra-plusvalore che dà ragione del carattere endogeno, incessante e squilibrato dello sviluppo capitalistico. Questo tipo di concorrenza infrasettoriale permane evidentemente anche nelle situazioni in cui i prezzi che regolano gli scambi obbediscono a regole diverse e non si identificano con i valori di scambio, cioè quando la concorrenza intersettoriale fa emergere una tendenza all’eguaglianza del saggio del profitto.
Tiriamo le fila del
discorso fatto sin qui. Abbiamo individuato la presenza di due
diverse, ma non contraddittorie,
accezioni del lavoro astratto come sostanza del valore: per un verso,
il lavoro in quanto risultato
(lavoro morto, ormai oggettivato nella merce); per l’altro verso,
il lavoro in quanto attività (lavoro
vivo, o lavoro in atto, estratto dalla forza-lavoro). Va tenuto,
d’altronde, presente, che il cuore della
critica all’economia politica sta proprio nella sottolineatura
della natura nient’affatto
scontata della traduzione della capacità lavorativa, mera potenza di
erogazione di lavoro astratto, in
effettiva prestazione di lavoro vivo da parte del salariato. Non è
possibile cioè ritenere che,
all’atto della contrattazione sul mercato del lavoro, sia definito
con certezza lo “sforzo” lavorativo
effettivo.
Altrettanto
problematico è poi, in Marx, il salto dal lavoro in atto, cioè dal
valore in potenza, a una effettiva creazione di valore di pari
ammontare. Non è perciò neanche possibile ritenere che la
produzione crei i propri sbocchi. Nella dialettica tra, da un lato,
il lavoro morto nell’oggetto – a cui è riducibile tanto il
capitale anticipato (costante e variabile) quanto il plusvalore
prodotto (nuovo capitale in potenza) – e, dall’altro lato, il
lavoro vivo del salariato – unico elemento non merce e non valore
che è possibile discernere nel processo capitalistico di produzione,
e quindi unico acquisto esterno per la classe capitalistica e unica
possibile sorgente del valore e del capitale – sta tutto il segreto
della teoria marxiana del valore.
Privato di questa
dialettica, Marx diviene davvero, scientificamente e politicamente,
del tutto inutile.
Prima di procedere
oltre, può essere opportuno mettere in evidenza come il discorso
teorico marxiano, quale lo
si è qui ricostruito, riprende in forma originale la riflessione
aristotelica sulla “potenza”. Si
trova in Aristotele la distinzione tra, da un lato, la “possibilità”
come pura pensabilità, il semplice “poter
essere” (endecesqai), e, dall’altro lato, la “possibilità
concreta” o potenza (dunamiV), intesa
invece come una “realtà in quanto capace di divenire, e cioè di
rendere esplicita una forma implicita,
raggiungendo con ciò un superiore grado di perfezione”
[23](energeia) la forma che da tale potenza si sviluppa.
Secondo alcuni
interpreti, in Aristotele l’“essere in atto” continua pur
sempre a essere inteso come superiore all’“essere in divenire”,
in quanto non ha bisogno di svilupparsi ulteriormente; non così, peraltro, nella ripresa cristiana di questa problematica, dove vale
semmai l’inverso [24].
L’analisi marxiana
della forma lavoro e della forma-valore può essere riletta in questi
medesimi termini. La forza-lavoro è potenza di lavoro; il lavoro
vivo è capacità lavorativa in atto, e insieme valore in potenza. Il
valore, a sua volta, è atto del precedente, in quanto lavoro
astratto in fieri, e allo stesso
tempo denaro in potenza. Il denaro è la “forma del valore”
pienamente sviluppata, e capitale in
potenza. Diviene capitale in atto, cioè assoluta capacità di
autoaccrescimento della ricchezza astratta,
attraverso la duplice relazione col lavoro: di scambio (mercato del
lavoro), e di sfruttamento
(processo di lavoro come processo di valorizzazione).
Assumendo il
carattere dell’astratta
generalità, il lavoro del singolo diviene capace di espansione
illimitata, rovesciandosi però nella forma
dell’indifferenza, e quindi dell’alienazione. Analogamente, la
ricchezza materiale può accrescersi
senza soste – e tanto più quanto più i valori d’uso assumono la
forma adeguata a farsi supporto di
quella ricchezza generica, il valore, che è mezzo e fine a se
stesso.
È quanto svilupperemo nelle
sezioni che seguono.
La sussunzione
formale del lavoro al capitale: i profitti originari
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