giovedì 2 marzo 2017

L'etica degli Stoici*






Ogni essere vivente fin dalla nascita tende spontaneamente alla propria conservazione, scegliendo le cose consone alla propria natura: questo è il punto di partenza dell'etica stoica, che riconosce però all'uomo la capacità di approfondire questo livello istintivo grazie all'opera del logos. Questo è in grado di riconoscere l'ordine dell'universo e di perseguire quindi il bene supremo nel volontario adeguamento al fato. Vivere secondo natura significa in conclusione per l'uomo vivere secondo il logos, sopprimendo tutte le passioni (piacere e dolore, desiderio e paura) che turbano l'esercizio della ragione. Tutto ciò che non tocca questa razionalità è «indifferente»: vita e morte, salute e malattia, ricchezza e povertà; laddove possibile tuttavia le cose consone alla propria natura vengono preferite, e sono anzi il presupposto di quelle azioni «convenienti» che costituiscono la normale vita sociale degli uomini. 


  

Il primo impulso

L'etica stoica condivide con molte tendenze dell'etica antica sia uno stretto legame con il problema della felicità, sia una fondazione (per lo meno nella formulazione datale da Crisippo) nell'osservazione della realtà naturale. Il punto di partenza consiste infatti nell'osservare quale sia il «primo impulso» (próte hormé) nella natura dell'uomo e dei viventi in generale. Già le testimonianze evidenziano come questo punto di partenza sia determinato in polemica con Epicuro:
Affermano che il primo impulso per l'animale è tendere a conservare sé stesso, perché la natura fa sì che l'animale si appropri di sé fin dal principio (oikeióuses autó tes phýseos ap'archés), come dice Crisippo nel primo libro Sui fini, dove dice che il «primo proprio» (próton oikéion) per ogni animale è la sua costituzione e la coscienza di essa. Infatti non sarebbe verosimile né che la natura facesse alienare un animale da sé, né che dopo averlo fatto non lo facesse né alienare né appropriare. Resta dunque da dire che dopo averlo costituito lo faccia appropriare a sé stesso: così infatti respinge le cose dannose e cerca quelle appropriate.
Ciò che alcuni [gli Epicurei] dicono, che il primo impulso degli animali vada verso il piacere, mostrano che è falso. Affermano infatti che il piacere, se mai esiste, è un prodotto successivo, quando la natura, dopo aver cercato le cose adatte, lo fornisce in sé e per sé alla costituzione: e in questo modo gli animali appaiono lieti e le piante fioriscono.
In nulla, affermano, la natura differisce riguardo alle piante e riguardo agli animali, perché pur senza impulso e sensazione amministra anche le prime, e d'altra parte in noi alcune cose avvengono in modo vegetativo. Ma poiché agli animali in più si aggiunge l'impulso, servendosi di esso vanno verso le cose proprie. Dunque per questi vivere secondo natura corrisponde a farsi guidare dall'impulso, mentre, dato che il logos è dato agli esseri razionali per una più perfetta costituzione, vivere secondo natura diventa per essi esattamente vivere secondo logos. Infatti questo si aggiunge come artefice dell'impulso (SVF III.178).

Il passo è della massima importanza, perché tratteggia in breve i passaggi fondativi essenziali dell'etica stoica. Il punto di partenza è costituito dall'osservazione che ogni animale prova anzitutto, fin dalla nascita, un istinto di «appropriazione» (oikéiosis, lat. conciliatio). Il significato di questo termine (come si è visto nella definizione generale dell'impulso) implica un movimento di accettazione e di desiderio nei confronti di qualcosa che si sente consono a sé. Ma che cos'è che viene anzitutto «appropriato»? Gli stoici affermano che l'oggetto dell'appropriazione è anzitutto il proprio stesso essere, a partire dal corpo: un animale anzitutto si rende conto della struttura del proprio organismo e impara a cercare ciò che gli giova e a fuggire ciò che lo danneggia. In una parola, si tratta dell'istinto di sopravvivenza.
Tale dato però non viene semplicemente osservato, ma anche dimostrato. Esistono solo tre possibilità: che un vivente si appropri di sé, che si alieni da sé, che né si appropri né si alieni. Le ultime due possibilità sono da escludere perché non si può pensare che la natura (si intenda: una natura intelligente, la provvidenza divina), dopo aver portato alla luce un proprio prodotto sia indifferente od ostile alla sua sorte: in entrambi i casi infatti non avrebbe neppure prodotto quell'essere. Insomma, già la nascita di un vivente mostra che da parte della natura c'è una preoccupazione positiva nei suoi confronti, che si esprime appunto attraverso quell'istintivo amore di sé e della propria vita che lo accompagna fin dalla nascita come prima tendenza. Ciò detto, è anche dimostrato che il piacere di Epicuro non può svolgere questa funzione: esso non è mai un obiettivo primario, ma piuttosto qualcosa che si aggiunge quando la sopravvivenza è assicurata.

Dall'impulso al logos
Il passo ulteriore consiste nel notare che la preoccupazione della natura è la stessa ai vari livelli, per esempio anche nei confronti delle piante: la presenza dell'impulso negli animali aggiunge un ulteriore tramite della cura della natura, che si esprime appunto attraverso la ricerca delle cose «appropriate». Ma allora, come nell'animale «vivere secondo natura» significa «vivere secondo l'impulso», nell'uomo significherà «vivere secondo il logos». È solo questo livello successivo che specifica l'istinto di appropriazione dell'uomo. Un'ulteriore testimonianza offre qualche precisazione sul significato di tale livello:
Prima di tutto c'è l'appropriazione dell'uomo verso quelle cose che sono secondo natura. Ma appena l'uomo acquisisce l'intelligenza o piuttosto la nozione (che quelli chiamano énnoia) e vede l'ordine e per così dire la concordia delle cose da fare, la stima molto più di tutte quelle cose che per prime amava, e con la conoscenza e la ragione giunge a concludere che qui è collocato quel sommo bene dell'uomo che va lodato e cercato per sé stesso. E questo è posto in ciò che gli stoici chiamano homología [coerenza] (SVF III.188).
Due elementi vanno notati: anzitutto, l'uso della ragione non è nell'uomo dato fin dal primo momento dell'esistenza. È dunque naturale che la sua esperienza concreta prenda le mosse dallo stesso identico istinto di appropriazione che contraddistingue tutti gli animali. L'uso del logos gli permette però di compiere un passo impossibile agli animali: scoprire l'ordine che anima l'universo intero, e passare dall'impulso di conservazione di sé alla «coerenza», cioè alla volontà di conformarsi al logos universale di cui si è parte. In altre parole, si potrebbe dire che l'istinto di autoconservazione viene reso universale: non è più solo la propria vita che va conservata, ma l'armonia e la razionalità del cosmo. La formula in cui gli stoici riassumevano il fine della vita morale, «vivere coerentemente con la natura» (homologouménos te phýsei zén), o anche solo «vivere coerentemente», implica dunque una spiccata dimensione intellettuale che ne rivela il legame di filiazione con l'etica socratica.
Alcuni esempi possono chiarire come in concreto si realizzi questo passaggio all'universale. Il primo riguarda il caso, molto importante per il pensiero stoico, dei rapporti tra gli uomini. Essi possono essere agevolmente spiegati quando si prendano le mosse dal sentimento di affetto dei genitori verso i figli, che non è altro che una specificazione dell'originario istinto di autoconservazione:
Credono che sia importante comprendere che avviene per natura che i figli siano amati dai genitori; da questo inizio cerchiamo l'inizio della comune società del genere umano. Ciò che per primo va compreso è la figura e le membra del corpo, che da sé dichiarano che la natura ha avuto una ragione di crearle. Ma queste non potrebbero neppure andar d'accordo con se stesse se la natura non volesse che fossero create e non si curasse di amare gli esseri creati. E anche negli animali si può osservare la forza della natura: quando osserviamo la sofferenza nel procreare e nell'allevare i piccoli, ci sembra di udire la voce della natura stessa. Dunque, come è evidente che noi per natura fuggiamo il dolore, così appare che siamo spinti dalla natura stessa ad amare quelli che abbiamo generato.
Da ciò nasce che anche la comune preoccupazione degli uomini per gli uomini sia naturale, cosicché è necessario che un uomo non sembri estraneo ad un altro uomo per il fatto stesso che è un uomo (SVF III.340).
Come è evidente, è soltanto l'opera del logos che può trasformare ed estendere un impulso originariamente diretto solo verso la prole in una comune solidarietà verso tutti i propri simili (ciò che secondo gli stoici era impossibile partendo dalla ricerca del piacere). Qui si connette anche l'idea di un «diritto naturale», che gli stoici sostengono con forza propugnando anche, seppure in maniera un po' astratta, un ideale di cosmopolitismo: i sapienti sono coloro che riconoscono di essere cittadini dell'unica «città di Zeus», che è governata da un'unica legge che si identifica con il logos universale.
Un secondo esempio mostra come l'opera del logos sul «primo impulso» può condurre anche a risultati apparentemente contrari al dato di partenza. Si tratta in particolare del caso del suicidio, che viene denominato «uscita razionale dalla vita» (éulogos exagogé) e diventa caratteristico del sapiente stoico, nella teoria e anche nella prassi. Per esso venivano individuati diversi motivi che lo rendevano degno di essere scelto: «Affermano che il sapiente ragionevolmente uscirà dalla vita sia per la patria, sia per gli amici, e anche se cade in dolori troppo acuti o in menomazioni [mentali] o in malattie incurabili» (SVF III.757). Insomma, in tutti i casi in cui sia impossibile esercitare la propria esistenza razionale, o quando essa dev'essere sacrificata per un bene maggiore della propria vita, il suicidio è coerente. In questo caso l'istinto di sopravvivenza passa in secondo piano di fronte ad esigenze maggiori o più profonde che solo il logos può scoprire (donde l'affermazione paradossale che solo per il sapiente, ma non per lo stolto, può essere conforme a natura togliersi la vita).
Il fatto che la vita «coerente con la natura» sia per l'uomo quella «secondo il logos» giustifica il forte accento che viene posto sulla conoscenza nella definizione della virtù. Se essa in generale viene concepita come una «disposizione coerente» dell'uomo, le singole virtù (delle quali le «principali» sono desunte dalla Repubblica di Platone) vengono intese, in maniera non dissimile dal Socrate presentato da Platone, come «scienze» rivolte ai singoli ambiti: «la saggezza (phrónesis) è la scienza delle cose da fare, da non fare, e né da fare né da non fare ... ; la moderazione (sophrosýne) è la scienza delle cose da scegliere, da fuggire, e né da scegliere né da fuggire; la giustizia (dikaiosýne) è la scienza in grado di attribuire a ciascuno secondo il valore; il coraggio (andréia) è la scienza delle cose temibili, non temibili, e né temibili né non temibili» (SVF III.262). Non meraviglia dunque che, benché avversata dall'ortodossia stoica rappresentata da Crisippo, sia nata in seno alla scuola stoica la teoria secondo cui la virtù fosse unica, solo con differenti campi di applicazione.
Il primato assegnato alla dimensione intellettuale è solo in parte paragonabile con l'analoga tendenza di Platone o di Aristotele. Esso infatti non individua una particolare forma di vita accessibile solo a pochi, ma piuttosto un criterio di vita aperto a tutti e capace di porre nella giusta luce qualsiasi aspetto della vita umana. Gli stoici rifiutavano quindi l'alternativa tra «vita attiva» e «vita contemplativa», sostenendo il primato della «vita razionale», cioè la vita secondo il logos, che le comprende entrambe (SVF III.687). A questa luce si comprende il quadro idealizzato del sapiente: solo egli agisce sempre bene ed è quindi l'autentico esperto di politica, economia, religione, arte e così via. Il problema della partecipazione alla vita politica veniva in particolare risolto affermando che il sapiente «è possibile che partecipi alla vita politica seguendo il logos» (SVF III.690).
Una concezione così unitaria e rigorosa della virtù conduceva però a concepire il sapiente come una sorta di caso limite, forse mai esistente in realtà. La situazione veniva ulteriormente aggravata dall'idea secondo cui tutte le azioni cattive, così come quelle buone, si equivalgono fra loro, e chi è poco distante dalla virtù non è meno stolto di chi lo è molto («chi è sotto la superficie del mare di un cubito non affoga meno di chi è sommerso di cinquecento braccia», SVF III.539). Per tentare di bilanciare queste conseguenze, che rischiavano di far diventare «per nessuno» un ideale originariamente «per tutti», Crisippo introdusse l'idea del «progresso» (prokopé): colui che nota progressi nella sua esperienza (maggiore razionalità, vittoria sulle passioni) in realtà ha già varcato i confini della virtù, pur non avendone ancora consapevolezza (SVF III.541). Una vera revisione della posizione tradizionale si ebbe però solo più tardi con Panezio, che abbandonò le speculazioni sul sapiente ideale per concentrarsi sulle azioni «convenienti» effettivamente accessibili ad ogni uomo.

Le passioni
L'impianto intellettualistico dell'etica stoica conduce ad una importante conseguenza, che soprattutto nell'immagine più diffusa del sapiente stoico rimase la più evidente: l'uomo virtuoso è colui che ha soppresso ogni passione. Evidentemente tale conseguenza viene resa necessaria anche dalla concezione dell'anima, nella quale come abbiamo visto non viene individuata nessuna parte specificamente responsabile dei moti passionali: essi hanno luogo nell'hegemonikón. Ma quando esso è guidato dalla ragione non vi rimane evidentemente più spazio per le passioni:
Bisogna anzitutto osservare che l'animale razionale per natura è capace di seguire il logos e di agire obbedendo al logos come ad un comandante. Spesso però viene portato anche altrove, attratto o respinto da qualcosa, spinto per lo più a disobbedire al logos. E secondo questo movimento ci sono entrambe le definizioni [della passione]: «movimento contro natura che avviene irrazionalmente» ed «eccesso negli impulsi». Infatti questo «irrazionale» va inteso come «disobbediente al logos» e «allontananto dal logos», e secondo questo movimento ed abitualmente diciamo che qualcuno è spinto e si muove irrazionalmente senza un giudizio del logos. Non diamo queste connotazioni se uno si muove erroneamente trascurando qualcosa secondo il logos, ma soprattutto secondo il movimento che traccia, non essendo nella natura dell'animale razionale muoversi così secondo l'anima, ma secondo il logos (SVF II.462).
Proprio la necessità dell'annullamento delle passioni diede tuttavia origine ad una loro analisi psicologica molto dettagliata. Di esse quattro specie primarie venivano individuate: «desiderio (epithymía) e paura (phóbos) anticipano, l'uno ciò che appare buono, l'altra ciò che appare cattivo; ad esse si aggiungono piacere (hedoné) e dolore (lýpe), il piacere quando otteniamo ciò che desideriamo o sfuggiamo a ciò che temiamo, il dolore quando manchiamo ciò che desideriamo o incappiamo in ciò che temiamo» (SVF III.378). Tutte queste forme vengono ricondotte a giudizi precipitosi riguardo a ciò che è buono e cattivo, e sono quindi destinate a scomparire nel sapiente.
Ciò però ovviamente non significa che nel sapiente scompaia anche l'impulso. In riconoscimento di ciò, si trova in Panezio la tesi che in connessione con giudizi equilibrati nel saggio sono presenti «buoni sentimenti» (eupátheiai, lat. constantiae), che sono la controparte positiva delle passioni: al desiderio corrisponde la volontà (bóulesis), alla paura la cautela (eulábeia), al piacere la gioia (chará). Solo al dolore non corrisponde evidentemente nulla, perché il sapiente è colui che si adegua al logos universale e dunque non può fallire nella sua volontà (SVF III.438). In questo modo si comprende anche che le passioni, eccezion fatta per il dolore, non necessariamente sono fondate su giudizi oggettivamente errati (si può per esempio provare piacere di una cosa buona): è solo la loro intensità che è sempre da respingere, proprio perché impedisce di distinguere il vero dal falso (e infatti è possibile provare piacere anche di una cosa cattiva, mentre di essa è impossibile provare gioia). Tale riflessione, pure se coerente con le premesse dello stoicismo antico, facilmente poteva essere accusata di ricadere, dopo averla formalmente respinta, nella prescrizione aristotelica di moderare piuttosto che sopprimere le passioni.

Fato e libertà
Il fatto che nell'uomo la vita secondo natura si identifichi con una vita secondo il logos permette di riformulare il fine della vita umana anche come una «obbedienza» al fato. Si tratta ovviamente di una obbedienza di tipo formale, perché l'uomo, anche se non virtuoso, è comunque soggetto alla legge del cosmo. La virtù consiste tuttavia nell'adeguarvisi spontaneamente e volentieri, così da raggiungere il «buon scorrimento della vita» (éuroia bíou) identificato con la felicità. Questo aspetto dell'etica stoica, che mette in primo piano le intenzioni piuttosto che l'effettivo contenuto delle proprie azioni, viene bene espresso da alcuni celebri versi di Cleante:
Conducimi, o Zeus e tu, destino,
là dove da voi è stabilito,
perché vi seguirò senza esitazione; e se non volessi,
diventato malvagio, nondimeno vi seguirò.
I fati conducono chi vuole, trascinano chi non vuole.
[Ducunt volentem fata, nolentem trahunt] (SVF I.527).
Questa riformulazione dell'essenza della moralità solleva un gravissimo problema: se ogni cosa è predeterminata dal fato, c'è ancora uno spazio per il libero arbitrio? e senza quest'ultimo, che senso ha condurre un discorso etico, in cui certe azioni vengono lodate o biasimate? La risposta degli stoici non può che essere complessa. Da una parte, il libero arbitrio nel senso in cui lo intendeva Aristotele, cioè capacità di scegliere tra due opzioni opposte, viene negato: esso introdurrebbe infatti nel cosmo un principio di indeterminazione che si opporrebbe alla sua struttura razionale. Ciò però non significa negare che esistono azioni che dipendono dall'uomo, e che quindi possono essere oggetto di lode e di biasimo (SVF II.1002). Ecco una testimonianza che analizza abbastanza dettagliatamente la questione:
Tolto all'uomo il potere di scegliere e di agire fra due opposti, ammettono comunque che dipende da noi ciò che avviene secondo il nostro impulso. Poiché, affermano, le nature delle cose che sono e divengono sono varie e differenti ..., da ciascuna di esse seguono eventi secondo la propria natura: dalla pietra effetti secondo la natura della pietra, dal fuoco secondo quella del fuoco, dall'animale secondo quella dell'animale, e nessun effetto che segue dalla natura propria di ciascun ente può, affermano, essere diverso, bensì ciascuno avviene obbligatoriamente, secondo una necessità non coercitiva, ma dipendente dal fatto che ciò che ha una certa natura non può, date delle circostanze che è impossibile che non gli accadano, avere altro movimento da quello che ha. E infatti la pietra, se viene gettata da una rupe, non può non cadere in basso, se nulla glielo impedisca. ... Affermano poi che quello che vale per gli esseri inanimati vale anche per gli animali. In effetti, per gli animali c'è un certo movimento secondo natura, ed è quello secondo l'impulso: infatti ogni animale, in quanto animale dotato di movimento, attua il movimento secondo l'impulso, il quale dunque avviene ad opera del fato tramite l'animale (SVF II.979).
L'idea fondamentale consiste quindi nel precisare che il fato non è una forza che costringe il comportamento umano dall'esterno, ma piuttosto una legge universale che si esprime anche attraverso la natura propria dell'uomo, che è fatta di impulsi e razionalità. Il fatto che l'uomo possieda il logos (così come l'animale in genere possiede l'impulso) non toglie poi che questo logos sia parte della legge universale del cosmo che è appunto il fato. Ciò chiarisce meglio perché è veramente libero solo l'uomo virtuoso: solo lui è in sintonia con quella stessa legge che infallibilmente avviene, e dunque non si sente mai costretto da essa (diversamente da ciò che avviene ad un animale o ad uno stolto, il cui impulso può andare frustrato).
Due celebri obiezioni stimolarono ulteriormente lo stoicismo ad affrontare il problema della compatibilità tra fato e impegno etico. La prima obiezione va sotto il nome di «ragionamento pigro» (lógos argós, lat. ratio ignava) e suona così:
Se è deciso dal fato che tu guarisca dalla malattia, sia che tu vada dal medico, sia che tu non vada, guarirai. Ma anche se è deciso dal fato che tu non guarisca dalla malattia, sia che tu vada dal medico, sia che non vada, non guarirai. Ma o è deciso dal fato che tu guarisca dalla malattia o è deciso dal fato che tu non guarisca. Dunque è inutile che tu vada dal medico (SVF II.957).
Insomma, ogni azione sarebbe inutile visto che l'esito è in ogni caso predeterminato dal fato. Alcune altre formulazioni del «ragionamento pigro» si ispirano alla mitologia greca, dove in effetti il fato compare come una forza che porta a compimento il suo intento benché l'uomo tenti di sfuggirle (si pensi ad Edipo che uccide involontariamente il padre malgrado si sia fatto di tutto per evitare tale destino che era stato rivelato.) A questa obiezione Crisippo rispose con la teoria dei «confatali» (synheimarména, lat. confatalia):
Che il mio mantello non vada distrutto non è deciso dal fato in assoluto, ma insieme con il fatto che sia conservato, e che quel tale si salvi dai nemici insieme con il fatto che egli fugga i nemici, e il generare figli insieme con il fatto che si voglia andare con una donna. ... Molte cose infatti non possono avvenire senza che anche noi vogliamo ed esercitiamo in esse impegno e cura, poiché insieme con questo è deciso dal fato che avvengano (SVF II.998).
Insomma, il «ragionamento pigro» dimentica che il fato non è una forza che determina in assoluto gli esiti delle azioni, ma che determina tramite l'uomo agente l'esito dell'azione. Ogni atto è quindi «confatale» al suo risultato.
Una seconda obiezione è molto più complessa. Essa riguarda la fondazione logica dell'idea di fato e venne espressa da un logico della scuola dialettica, Diodoro Crono, sotto forma del cosiddetto «ragionamento dominatore» (kyriéuon lógos), così chiamato evidentemente perché ritenuto inoppugnabile. In esso si parte dalla costatazione che tre proposizioni sono incompatibili:
Il «ragionamento dominatore» sembra che sia stato investigato partendo da alcuni presupposti. C'è infatti conflitto reciproco tra queste tre proposizioni: (a) «tutto ciò che è veramente avvenuto è necessario», (b) «al possibile non segue l'impossibile», (c) «c'è del possibile che né è vero né lo sarà». Osservando questo conflitto, Diodoro si servì della credibilità delle prime due per stabilire che «non c'è nulla di possibile che né è vero né lo sarà» (SVF II.283).
L'esatto motivo della incompatibilità delle tre proposizioni non viene esplicitamente indicato, ma può essere ricostruito così: immaginiamo che lunedì è possibile che il giorno dopo piova, e martedì di fatto non piova (proposizione c); mercoledì si potrà affermare che martedì ha necessariamente piovuto, in quanto il passato non può essere cambiato (proposizione a); ma allora lunedì era possibile che martedì accadesse una cosa impossibile: e questa conclusione è contro la proposizione b. Come riferisce la testimonianza, Diodoro risolse la contraddizione negando la proposizione c, affermando cioè che solo ciò che poi effettivamente avviene è «possibile». Ma in questo modo il concetto di possibilità viene di fatto vanificato, negando contemporaneamente uno dei presupposti dell'etica: il fatto che l'uomo abbia la capacità, tramite il logos, di non assentire ad impulsi che giudica irrazionali, ma ai quali potrebbe assentire.
La medesima testimonianza che riferisce il «discorso dominatore» ci informa anche sul modo in cui gli stoici lo respinsero. In perfetto accordo con le premesse di Diodoro, per reintrodurre l'idea di possibilità era sufficiente negare l'una o l'altra delle due premesse:
Del resto uno potrebbe conservare le due affermazioni: «c'è del possibile che né è vero né lo sarà», «al possibile non segue l'impossibile», ma: «non tutto ciò che è veramente avvenuto è necessario», così come sembrano aver ritenuto Cleante e i suoi discepoli, coi quali per lo più concordò Antipatro. Ma altri [Crisippo e i suoi discepoli] conserveranno le altre due: «c'è del possibile che né è vero né lo sarà», «tutto ciò che è veramente avvenuto è necessario», ma: «al possibile segue l'impossibile». Ma non c'è modo di conservare tutte e tre le proposizioni, perché prese assieme si contraddicono (SVF II.283).
La soluzione di Cleante è più facile da intendere: essa sostiene che il fatto che qualcosa sia avvenuto non la rende affatto più necessaria di quanto fosse prima: viene così resa su un piano propriamente logico la risposta che Aristotele aveva formulato sul piano metafisico (curiosamente, si tratta di un argomento sviluppato in questi identici termini da Kierkegaard (1813-1855) nelle sue Briciole di filosofia). La soluzione di Crisippo suppone osservazioni più complesse: essa può probabilmente essere interpretata nel senso che la catena delle cause effettua trasformazioni tali da rendere effettivamente non possibile qualcosa che prima non lo era. L'esempio di Crisippo era l'implicazione «Se Dione è morto, egli è morto»: essa è evidentemente corretta, ma mentre la premessa è possibile, la conseguenza non lo è perché in caso di morte non ci sarà più un «egli» di cui dire che è morto (SVF II.202).

Preferiti e convenienti
Dopo che il logos è intervenuto ad universalizzare l'originario istinto di conservazione, continua quest'ultimo a svolgere un qualche ruolo nella moralità? Si tratta di una questione molto delicata nel sistema stoico, soprattutto perché essa viene a toccare aspetti molto rilevanti della vita quotidiana, che sono per lo più determinati non da esplicite scelte razionali, ma piuttosto da tendenze innate. La soluzione stoica consiste da una parte nel considerare moralmente «indifferenti» (adiáphora) tutte le cose che sono oggetto di impulso naturale, dall'altra nel riconoscere che di esse alcune sono «preferibili» (proegména):
Dicono indifferente ciò che non incide né sulla felicità né sull'infelicità. Secondo questo significato dicono indifferenti salute e malattia e tutte le cose corporee e la maggior parte delle cose esterne, perché non contribuiscono né alla felicità né all'infelicità. Ciò di cui è possibile servirsi sia bene sia male sarebbe infatti indifferente: e della virtù ci si serve sempre bene, del vizio male, ma della salute e delle cose che riguardano il corpo è possibile servirsi ora bene ora male, e per questo sarebbero indifferenti.
Degli indifferenti dicono poi che alcuni sono preferiti, altri respinti, altri ancora né preferiti né respinti: e preferiti sono quelli che hanno sufficiente valore (axía), respinti quelli che hanno un sufficiente disvalore, mentre né da preferire né da respingere cose come lo stendere o piegare un dito e tutto ciò che vi somiglia. E vengono classificati tra i preferiti la salute, la forza, la bellezza, la ricchezza, la fama e simili, tra i respinti malattia, povertà, sofferenza e cose analoghe (SVF III.122).
Il «valore» dei preferiti consiste, come precisano altri testi, nell'essere conformi alla propria natura, come è rivelata nel primo impulso. Ciò non toglie che di essi è possibile un uso anche cattivo e che quindi non sono mai «beni». In caso di contrasto quindi tra un bene e un preferito, il sapiente non esiterà a scegliere il primo. Che cosa accade tuttavia quando si deve scegliere tra cose indifferenti senza sapere quale di essa in futuro si riveli «buona», ovvero conforme al logos e al fato? Per risolvere tale problema, gli stoici introdussero l'idea di una «scelta con riserva»:
Finché le cose avvenire mi sono ignote, di volta in volta sceglierò i mezzi più adatti per ottenere le cose conformi a natura: infatti lo stesso dio mi ha fatto capace di scegliere tali cose. Ma se ora sapessi che è stabilito dal fato che io mi ammali, dirigerei pure il mio impulso su ciò. E infatti il piede, se avesse la mente, avrebbe l'impulso ad infangarsi (SVF III.191).
Il senso dell'ultima osservazione è: se il piede potesse riflettere alla sua funzione all'interno del corpo, capirebbe che può adempierla solo accettando di sporcarsi di fango; allo stesso modo, se ogni uomo conoscesse perfettamente la sua funzione all'interno dell'universo, vorrebbe quelle cose, anche contrarie alla sua natura individuale (come la malattia), che tuttavia svolgono una funzione complessivamente positiva nell'universo. In mancanza di una conoscenza perfetta del fato, l'uomo dunque non può fare altro che scegliere provvisoriamente le cose che la natura gli suggerisce, essendo però pronto ad accogliere come «bene» ciò che la provvidenza gli assegna. Da qui si comprende anche il ruolo che (specialmente nello stoicismo più tardo) svolgerà la riflessione sulla morte, l'unico evento futuro del quale si possa essere certi e quindi infallibilmente voluto dal fato.
In corrispondenza della divisione degli oggetti in «preferibili» e «buoni», un'analoga distinzione può essere tracciata tra le azioni:
Il tema del conveniente (kathékon) è conseguente al discorso sui preferiti. Il conveniente è definito «ciò che è conseguente alla vita e che una volta compiuto ha una giustificazione logica», il non conveniente in maniera opposta. Questo si estende anche agli animali privi di ragione, perché anch'essi compiono qualcosa conseguente alla propria natura; ma negli animali razionali così si specifica: «ciò che è conseguente alla condotta di vita». Dei convenienti alcuni li dicono «perfetti», e sono chiamati anche «azioni rette» (katorthómata). Azioni rette sono gli atti conformi a virtù, come essere saggi e agire giustamente. Ma non sono azioni rette quelle che non sono tali, che dunque non vengono chiamate neppure convenienti perfetti, ma «medi», come sposarsi, fare ambasciate, dialogare e cose simili (SVF III.494).
Le parole per indicare le diverse azioni furono entrambe coniate dagli stoici. Il termine «conveniente» (kathékon) significa letteralmente «ciò che tocca» e venne usato per primo da Zenone; la traduzione latina officium, più vicina all'italiano «dovere», evidenzia il fatto che in questa categoria rientrano tutti i comportamenti che sono appropriati al proprio stato (di persona, di padre, di marito, di cittadino ecc.), e che quindi è giusto compiere finché non confliggano con un bene. Il termine «azione retta» (katórthoma, lat. actio recta) venne creato da Crisippo e significa «ciò che è perfettamente riuscito»: solo i sapienti possono dunque compierla, perché consapevoli del bene. La distinzione tra azioni convenienti e rette non risiede quindi necessariamente nel loro contenuto esterno, perché la rettitudine può essere conferita o tolta anche solo da una considerazione razionale:
Spesso il dovere non viene compiuto conformemente al dovere e ciò che non è conveniente talvolta viene operato convenientemente. Per esempio, la restituzione di un deposito, quando non avviene in base ad un sano giudizio, ma per danneggiare chi riceve o per evitare il rifiuto di un credito maggiore, è un'azione conveniente che non viene compiuta in modo conforme al dovere. Ma che il medico non dica la verità al malato, quando abbia deciso di salassare o amputare o cauterizzare per il vantaggio del malato, affinché prevedendo il dolore non fugga la cura o per la debolezza non vi rinunci; oppure che il sapiente menta ai nemici per la salvezza della patria, nel timore che la verità rafforzi le posizioni nemiche, è un'azione non conveniente che viene compiuta in modo doveroso (SVF III.513).
Tali considerazioni, se da una parte aprono la strada al concetto di «intenzione» che tanta parte avrà nelle storia dell'etica, dall'altra dànno anche ragione dello spirito con il quale lo stoicismo antico riprese alcuni aspetti del cinismo che tanto scandalo dovevano suscitare presso i contemporanei e i posteri. I più citati e contestati sono l'«approvazione» dell'incesto e dell'antropofagia: gli stoici intendevano dire che in un contesto di assoluta sapienza (dunque in un'ipotetica «città dei saggi») anche atti naturalmente ripugnanti possono, almeno in alcune circostanze, avere la loro giustificazione razionale.
D'altra parte, non meraviglia che più tardi, soprattutto ad opera di Panezio, l'attenzione si concentrò proprio sulla dottrina dei convenienti, che è in grado di dare realistiche indicazioni di comportamento lasciando sullo sfondo l'ideale della perfetta e forse irraggiungibile razionalità. Fu questo stoicismo mitigato, coniugato con le esigenze della humanitas, che ebbe la maggiore influenza nella storia della cultura europea grazie alla diffusione operata da Cicerone e da Seneca. 


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