domenica 9 maggio 2021

Scienza, salute e crisi pandemica: il contributo degli scienziati marxisti - Juan Duarte

Da: https://www.lavocedellelotte.it - Juan Duarte, Professore all’Università di Buenos Aires e curatore, per La Izquierda Diario e Ediciones IPS, di importanti lavori su scienza, salute e crisi pandemica.

Vedi anche: Ernesto Burgio: La prima pandemia dell’Antropocene - Terza Lez. Pandemia e Capitalismo del XXI secolo 

Leggi anche: Un anno di covid - Marco Bersani  

Il cosiddetto problema ambientale - Carla Filosa 

L’ecomarxismo di James O’Connor - Riccardo Bellofiore 

Natura, lavoro e ascesa del capitalismo*- Martin Empson  

Cinque risposte su marxismo ed ecologia*- John Bellamy Foster 


Qui il video della lezione: https://www.youtube.com/watch?v=I4Rux1a2fAQ


Riproduciamo di seguito una versione scritta dell’intervento di Juan Duarte, professore all’Università di Buenos Aires e curatore, per La Izquierda Diario e Ediciones IPS, di importanti lavori su scienza, salute e crisi pandemica, 

nell’ultimo appuntamento del seminario virtuale su “Pandemia e capitalismo nel XXI secolo curato dai compagni dell’Università Popolare Antonio Gramsci. 



In questa breve presentazione cercherò di mostrare alcuni possibili contributi da un punto di vista dialettico marxista per comprendere la complessità che mette in gioco la pandemia del covid-19 e per elaborare aspetti programmatici per affrontarla da una prospettiva anticapitalista e socialista. Per questo, illustrerò il lavoro di recupero e ricreazione della tradizione marxista nella scienza, ecologia e salute che abbiamo fatto come Ediciones IPS e La Izquierda Diario, concentrandoci sui contributi dei biologi marxisti Richard Lewontin e Richard Levins, e dell’equipe di Rob Wallace.

L’emergere e lo sviluppo della pandemia di coronavirus non solo ha dato origine a una crisi sanitaria, economica e sociale globale, nel contesto di una precedente crisi ecologica e climatica, ma ha anche messo in discussione le opinioni scientifiche predominanti nel campo della salute. Come sottolineano Richard Lewontin e Richard Levins, possiamo dire che la scienza ha un doppio carattere: da un lato è lo sviluppo generico della conoscenza umana, ma dall’altro è un prodotto specifico, sempre più mercificato, dell’industria capitalista della conoscenza.

sabato 8 maggio 2021

"Da Smith a John Stuart Mill: la missione civilizzatrice del capitale." - Riccardo Bellofiore

Da: Casa della Cultura Via Borgogna 3 Milano - Riccardo Bellofiore, Docente di Economia politica all’Università degli Studi di Bergamo, i suoi interessi sono la teoria marxiana, l’approccio macromonetario in termini circuitisti e minskyani, la filosofia economica, e lo sviluppo e la crisi del capitalismo. (Economisti di classe: Riccardo Bellofiore & Giovanna Vertova - https://www.riccardobellofiore.info)


1° incontro del ciclo di lezioni aperte al pubblico IL LAVORO NELLA RIFLESSIONE ECONOMICO-POLITICA del Corso di perfezionamento in Teoria critica della società. promosso da Casa della cultura e Università degli Studi Milano-Bicocca Intervengono anche Ferruccio Capelli e Vittorio Morfino

                                                                           

venerdì 7 maggio 2021

Covid19: ecco i brillanti risultati dei fanatici del Pil - Marco Bersani

Da: https://www.attac-italia.org - marco bersani, filosofo, dirigente pubblico e fondatore di Attac (https://www.attac-italia.org

Leggi anche: Un anno di covid - Marco Bersani 

La prima pandemia dell’Antropocene - Ernesto Burgio

Riflessioni comparative sulla pandemia - Alessandra Ciattini

Corpo biologico e corpo politico sono diventati la stessa cosa - Francesco Fistetti

Vedi anche: PERCHÉ NON TI FANNO RIPAGARE IL DEBITO - Marco Bersani 

Ernesto Burgio: La prima pandemia dell’Antropocene - Terza Lez. Pandemia e Capitalismo del XXI secolo 



Quindici mesi di pandemia dovrebbero essere sufficienti per fare un bilancio ragionato e intellettualmente onesto sull’efficacia delle misure messe in campo per affrontarla e sulla visione di società che le ha determinate.

Se non per altre ragioni, almeno per dare un significato agli oltre 120.000 morti (ad oggi) che nel nostro Paese si sono verificati.

Come è chiaro a tutt* l’impostazione che ha guidato la strategia per affrontare la crisi pandemica nel nostro Paese – e in gran parte dei molti altri – è stata quella della “mitigazione”, oggi ribattezzata da Draghi del “rischio calcolato”.

Di fatto, una visione della società fanaticamente orientata sul PIL, che ha comportato misure di forti restrizioni delle libertà personali, di compressione dei diritti delle fasce non produttive della popolazione (la chiusura delle scuole) e di tutte le attività economiche in qualche modo legate al tempo libero delle persone, allo scopo di tenere continuativamente aperte tutte le attività industriali e commerciali (mai chiuse anche durante il primo lockdown) per cercare di attenuare il crollo del Pil, da decenni assurto a simbolo divino del benessere sociale.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la generazione anziana è stata falcidiata, l’infanzia e l’adolescenza sono state sottoposte a traumi i cui effetti si misureranno solo nei prossimi anni, la povertà e la precarietà sono aumentate esponenzialmente, mentre la pandemia è ben lungi dall’essere sotto controllo.

Almeno questo incommensurabile disastro sanitario e sociale è riuscito a raggiungere l’obiettivo desiderato da Confindustria e dai suoi alfieri governativi? Nient’affatto, l’economia è a rotoli e il crollo del Pil sfiora il 9%.

Si poteva fare altrimenti? C’è chi lo ha fatto e i risultati sono inequivocabili.

Non parliamo qui -anche se prima o poi andrà pure fatto- di paesi dove lo Stato, invece di porsi unicamente al servizio dell’economia di mercato, ha deciso di esercitare un ruolo diretto nel contrasto alla pandemia, con risultati fondamentali dal punto di vista del contenimento della stessa e della tutela della salute dei propri abitanti: da Cuba, con 675 decessi su 11 milioni di abitanti, a Taiwan, con 12 morti su 23 milioni di persone, dal Vietnam con 35 decessi su 96 milioni di abitanti alla stessa Cina, con 4846 morti su una popolazione di 1,4 miliardi.

Perché rispetto a queste realtà la discussione si arenerebbe subito sul tema dell’autoritarismo o meno di questi paesi.

E allora proviamo a confrontare la strategia scelta dall’Italia e da molti altri con quella di quei Paesi che, in contesti economici e politici simili, hanno invece scelto l’opzione “Covid free” senza badare agli immediati interessi delle imprese e delle lobby finanziarie.

La rivista Lancet ha appena pubblicato uno studio[1] che ha messo a confronto i paesi OCSE, all’interno dei quali Australia, Corea del Sud, Islanda, Giappone e Nuova Zelanda hanno adottato la strategia “Covid free” rispetto a tutti gli altri che hanno preferito la cosiddetta strategia di mitigazione.

Dal confronto emergono tre dati molto interessanti e, per certi versi, anche sorprendenti:

* il primo dato riguarda la salute pubblica, da cui emerge che i decessi per milione di abitante nei paesi che hanno scelto l’opzione “Covid free” sono stati di 25 volte inferiori a quelli registrati nel gruppo degli altri Paesi;

* il secondo dato riguarda l’economia, e qui “casca l’asino”, perché nel gruppo dei paesi “Covid free” la crescita del Pil è tornata ai livelli pre-pandemia già nel gennaio 2021, mentre permane negativa per il gruppo degli altri Paesi;

* il terzo dato riguarda le restrizioni alle libertà personali e sociali, ed è ancora più sorprendente, essendo l’argomento spesso utilizzato per giustificare le aperture delle attività produttive: le misure di blocco rapide, utilizzate dai gruppo di Paesi “Covid free” sono state molto più brevi di quelle adottate dal gruppo degli altri paesi.

La conclusione è evidente: i Paesi che hanno messo al primo posto la tutela della salute e, su questo obiettivo, hanno costruito una sorta di patto sociale con i propri cittadini, sono riusciti a tutelare la vita dei propri abitanti e, contemporaneamente, hanno evitato il crollo del sistema economico e l’adozione di una prolungata restrizione delle libertà personali e sociali, mentre i Paesi che hanno orientato le loro scelte sulle immediate esigenze dettate dal mercato e dai grandi interessi economici non possono che constatare il proprio fallimento su tutti e tre i versanti.

Continuiamo ad essere certi di essere nelle mani del “governo dei migliori”?

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giovedì 6 maggio 2021

Stefano G. Azzarà: "IL VIRUS DELL'OCCIDENTE" - a cura di Elena Fabrizio

Stefano G. Azzarà insegna Storia della filosofia politica all’Università di Urbino. È segretario alla presidenza dell’Internationale Gesellschaft Hegel-Marx. Dirige la rivista “Materialismo Storico”(materialismostorico - http://materialismostorico.blogspot.com). È impegnato in un confronto tra le grandi tradizioni filosofico-politiche della contemporaneità: liberalismo, conservatorismo, marxismo.




                                                                                           

Leggi anche la recenzione al libro di Stefano Azzarà "Il virus dell’Occidente. Universalismo astratto e sovranismo particolarista di fronte allo stato d’eccezione" a cura di Elena Fabrizio (http://www.dialetticaefilosofia.it/public/pdf/71recensione_azzar_.pdf).

martedì 4 maggio 2021

- PRIMO MAGGIO: CONTRO IL LAVORO (Genealogia di una festa) -

 Da: https://www.facebook.com/riccardo.bellofiore.3 - ***Editoriale del "Il Manifesto", primo maggio 1971. 


Editoriale non firmato del manifesto quotidiano del 1 maggio 1971, redatto da Lucio Magri. Mi permetto di evidenziare con l’asterisco alcune parti, visto che è facile scivolare nella non comprensione di un testo esemplare nella sua costruzione. Che i riformisti non possano intenderlo lo si capisce bene. Il problema oggi è che non lo intendono gli “alternativi”. Per questo ci vorrebbe una sinistra *di classe*, contro il lavoro *salariato*. (R. Bellofiore) 

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Il primo maggio non è la festa del lavoro, come dice e vuole la liturgia del movimento operaio riformista o clericale. È la festa contro il lavoro: contro il lavoro *per ciò che esso è e sarà sempre in una società capitalistica*, in una società divisa in classi, in una società mercantile. 

Questo i proletari non ci mettono molto a capirlo. E infatti, il solo modo che hanno di celebrare la loro giornata è quello di non lavorare. Il primo maggio è nato ed è vissuto per lunghi anni come uno sciopero, come uno scontro. 

Non è una distinzione formale, una sottigliezza ideologica. Il problema del lavoro e dell’atteggiamento verso di esso è sempre stato il nodo profondo del marxismo: la vera discriminazione tra marxismo rivoluzionario e revisionismo. 

Qual è il problema per i revisionisti? Quello di dare al lavoro la giusta remunerazione e di fondare una nuova civiltà del lavoro: chi non lavora non mangia. Qual è il problema per i rivoluzionari? Quello di *abolire* il lavoro *salariato*, cioè, *oggi*, il lavoro stesso, per costruire una civiltà fondata sulla libera e collettiva attività creatrice e su rapporti non mercificati fra gli uomini: a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità. Qui sta tutta la differenza tra socialismo come società capitalistica meno diseguale e più opulenta, e socialismo come *rovesciamento del capitalismo dalle fondamenta*. 

Non si tratta, per il marxismo, di una ingenuità anarchica, del mito del buon selvaggio. Nessuno più di Marx ha fatto del lavoro il centro motore della storia, l’uomo stesso è il prodotto del suo lavoro. Ma proprio col suo lavoro l’uomo ha dominato la natura, ne ha decifrato le leggi, ha trasformato se stesso fino al punto in cui può rovesciare la storia e liberarsi dal lavoro *come prima e ultima schiavitù, come qualcosa di estraneo a lui, di accettato per la necessità della sopravvivenza*. 

Il capitalismo è il momento storico in cui questa contraddizione e la possibilità di superarla maturano insieme. Da un lato il lavoro diventa, come lavoro salariato, fino in fondo e per tutti una realtà *esterna*, senza senso e contenuti, una alienazione insopportabile; dall’altro esso ha ormai prodotto un livello di forze produttive, prima fra tutte la capacità razionale dell’uomo, che consente il salto ad un ordine sociale in cui il lavoro, *per ciò che è stato fin qui*, sia soppresso. Soppresso *non* per lasciar posto ad un ozio stupido e al faticoso `tempo libero’ — che è solo *l’altra faccia del lavoro alienato* — ma ad un complesso di libera attività collettiva e di riposo creativo di una nuova capacità. Di tale attività, la produzione materiale dei mezzi di sussistenza può diventare un sottoprodotto naturale, progressivamente affidato alle macchine, che non giustifica assolutamente più né lo sfruttamento economico né la dominazione politica. Questa è l’essenza della rivoluzione comunista, della soppressione della proprietà privata, delle classi e dello stato. *Ribellione alla condanna biblica: tu lavorerai con fatica*. 

Non è un caso che questo nucleo radicale del marxismo sia stato dimenticato o sia rimasto minoritario nel movimento operaio. Gli operai, come tutti gli uomini, possono porsi solo i problemi che sono effettivamente in grado di risolvere. Solo nella nostra epoca, della piena maturità del capitalismo e della sua degenerazione imperialistica, le grandi masse dell’occidente che hanno avuto dallo sviluppo capitalistico tutto ciò che potevano avere pagandolo con lo sfruttamento, e le grandi masse dell’oriente che dal capitalismo potrebbero avere solo fame e guerra, possono porsi realmente il problema del comunismo. Cioè il problema non solo di maggiore consumo e di lavoro sicuro, ma di *un diverso significato del lavoro e del consumo*. 

Qual è, se non questo, il senso profondo delle lotte di massa di operai, studenti, intellettuali degli ultimi anni? Qual è, se non questo, il significato universale della rivoluzione culturale cinese? 

Certo, tutto ciò può anche alimentare spinte ingenuamente neoanarchiche, l’illusione che si possa abolire il capitalismo d’un colpo; *ribellarsi alla logica della produzione e `rifiutare il lavoro' con un atto di ribellione soggettivistica e distruttiva*; o usare delle macchine e degli uomini *così come sono* per una organizzazione comunista della società, *senza una lunga e faticosa trasformazione delle une e degli altri, senza una società di transizione, e dunque senza organizzazione, violenza, sacrificio, invenzione, educazione*. 

Ma ciò che oggi importa, come importava per Lenin, è cogliere in queste spinte `ingenue’ il nucleo di verità che oggi è maggiore di ieri, e senza del quale non è più possibile sfuggire all’egemonia ideale del capitalismo. 

Questo vogliamo ricordare il primo maggio: per riscoprirne fino in fondo il significato di festa politica, di festa rivoluzionaria. 

domenica 2 maggio 2021

Essere, pensiero e linguaggio - Felice Cimatti

Da: Filosofia Roccella Scholé - Felice Cimatti è un filosofo italiano. Laureato in filosofia alla Sapienza, con una tesi sui linguaggi animali, relatore Tullio De Mauro, correlatore Alberto Oliverio, insegna Filosofia del Linguaggio e Filosofia italiana contemporanea all'Università della Calabria ad Arcavacata di Rende. Ha condotto e conduce, per Rai Radio 3[2], i programmi radiofonici Fahrenheit, dedicato ai libri e alle idee, e Uomini e Profeti (https://www.raiplayradio.it/programmi/uominieprofeti).

                                                                             

“Elogio degli uccelli”

Amelio filosofo solitario, stando una mattina di primavera, co’ suoi libri, seduto all’ombra di una sua casa in villa, e leggendo; scosso dal cantare degli uccelli per la campagna, a poco a poco datosi ad ascoltare e pensare, e lasciato il leggere; all’ultimo pose mano alla penna, e in quel medesimo luogo scrisse le cose che seguono. 

sabato 1 maggio 2021

Epidemie, storia, capitalismo. Passi indietro e passi avanti. - Roberto Fineschi

https://www.sinistrainrete.info - Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2020, a cura di Stefano G. Azzarà, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0 (http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico) -  Roberto Fineschi è un filosofo italiano. Ha studiato filosofia a Siena, Berlino e Palermo. Membro del comitato scientifico dell’edizione italiana delle Opere di Marx ed Engels (Marx. Dialectical Studies). 


 1. Pare che le epidemie siano un qualcosa di tipicamente umano, un tutt’uno con la vita associata. Quando nell’antica Mesopotamia sono nate le prime civiltà si è creato il contesto ideale perché esse prosperassero e si diffondessero. La vita comune di ingenti masse di individui che mangiano, bevono, espletano le proprie necessità fisiologiche, producono nello stesso luogo creò presupposti mai esistiti in precedenza per cui condizioni igieniche estreme e contiguità massiccia favorirono malattie e contagi; a ciò va aggiunta la convivenza promiscua con animali di vario tipo dai quali e ai quali trasmettere germi, bacilli ed ogni altra forma di vita potenzialmente nociva. La domesticazione umana, animale e ambientale va all’unisono con infezioni e malattie. Si calcola che, anche al tasso naturale di crescita, la popolazione mondiale dal 10.000 a.C al 5.000 a.C avrebbe dovuto almeno raddoppiare, invece, alla fine del periodo, essa era aumentata di appena un 25%, passando da 4 a 5 milioni, nonostante condizioni che in teoria avrebbero dovuto implicare anche più di una duplicazione (rivoluzione neolitica). Nei cinquemila anni successivi aumentò invece di una ventina di volte. Si ipotizza che, proprio a causa di epidemie e di un plurimillenario processo di adattamento della specie alle nuove condizioni di vita, l’espansione della popolazione sia stata drasticamente rallentata. Epidemiologicamente, si trattò con tutta probabilità del periodo più mortifero della storia umana. Sembra che le popolazioni mesopotamiche avessero già l’idea del contagio per trasmissione e che adottassero misure analoghe a quella della quarantena. 

Con la vita urbana, l’aumento di densità abitativa fu dalle dieci alle venti volte superiore a quanto mai fosse stato sperimentato dall’homo sapiens. Le malattie storicamente nuove, conseguenza della nuova pratica sociale, furono: colera, vaiolo, orecchioni, morbillo, influenza, varicella e, forse, malaria. Sono tutte collegate all’urbanizzazione e all’agricoltura. Dei millequattrocento agenti patogeni umani conosciuti, ottocento-novecento circa hanno avuto origine in organismi non umani ed hanno visto nell’essere umano l’ospite finale. La lista di malattie che condividiamo con vari animali, da polli a maiali, da cani a pecore è impressionante. Alcune delle trasformazioni biologiche furono conseguenza di trasformazioni intenzionali, come la coltivazione, ma altre semplicemente frutto dell’istituzione della domus e della vita associata1.

venerdì 30 aprile 2021

Ernesto Burgio: La prima pandemia dell’Antropocene - Terza Lez. Pandemia e Capitalismo del XXI secolo

Da: Università Popolare Antonio Gramsci  - Ernesto Burgio, pediatra e ricercatore, esperto di epigenetica e biologia molecolare. Presidente del comitato scientifico della Società Italiana di Medicina Ambientale e membro del consiglio scientifico dell’Istituto di Ricerca sul Cancro e Ambiente di Bruxelles. Author profile


                                                                            

                                                         Le lezioni precedenti: Pandemia e Capitalismo del XXI secolo -Alessandra Ciattini e Beniamino Caputo 


giovedì 29 aprile 2021

mercoledì 28 aprile 2021

Il significato dell’uomo in Marx e in Husserl - Enzo Paci

Da: http://www.rifondazione.it/formazione - Enzo Paci è stato un filosofo e accademico italiano, tra i più espressivi rappresentanti della fenomenologia e dell'esistenzialismo in Italia.

Vedi anche: "Husserl e la Lebenswelt" - Carlo Sini

"Fenomenologia ed esistenzialismo - Husserl"- Paolo Vinci

Stefano Bancalari - Edmund Husserl, "La crisi delle scienze europee" https://www.youtube.com/watch?v=226l_CRUMrM

"La frattura fenomenologica e la nuova antropologia"- Aldo Masullo


Si sa che uno dei temi fondamentali del marxismo è la lotta contro la riduzione della forza lavoro a merce. Questa lotta è anche lotta contro la divisione del lavoro feticizzata.1 «La forma capitalistica della produzione» scrive Marx nel primo volume del Capitale «è diametralmente antitetica a quei fermenti di rivoluzione di cui la meta è l’abolizione della vecchia divisione del lavoro.»2

Il lavoro nella società capitalistica – secondo l’espressione di Engels – riduce l’uomo a un accessorio della macchina. L’uomo è costretto a essere «uomo parziale» mentre il comunismo vuol realizzare per l’uomo la possibilità di diventare «un individuo totalmente sviluppato». Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx aveva già chiarito molto bene questo punto. Il capitalismo costringe il lavoratore, che è un uomo concreto, che non è uomo soltanto nel tempo del lavoro, ma in tutte le ore della sua vita, e resta uomo concreto anche quando lavora, a vivere come se fosse un lavoratore astratto. L’economia capitalistica ha bisogno di considerare l’uomo come un’astrazione.

Ma l’economia non è per Marx una scienza indipendente dallo sviluppo storico della società. Perciò quello che avviene in una società data non è qualcosa di definitivo e di scientificamente necessario. In una situazione storica diversa, mutando l’organizzazione della società e costituendosi una società nella quale il lavoratore non è più contrapposto alla società stessa – nella quale dunque società e individui sono veramente integrati – mutano, insieme alla società, anche le leggi dell’economia. 

È per questo che Marx ha intrapreso il suo lavoro di critica dell’economia politica: per far vedere che dietro le pretese leggi eterne dell’economia capitalistica si nascondeva la struttura della società borghese. 

Tutti noi sappiamo che il sottotitolo del Capitale è Critica dell’economia politica.

Questa critica è necessaria, e sempre di nuovo necessaria alla praxis, al movimento di emancipazione del proletariato, di tutte le società umane che in modi e gradi diversi sono asservite al capitale. In queste società gli uomini non sono uomini concreti, non possono realizzare se stessi come uomini concreti.

martedì 27 aprile 2021

Kant: "Critica del giudizio" - Antonio Gargano

Da: AccademiaIISF - Antonio Gargano è un filosofo italiano. Docente presso l'Università degli studi "Suor Orsola Benincasa", Scienze della Formazione.

                                                     Prima parte: 
                                                                            

                                                                                a seguire la seconda parte: https://www.youtube.com/watch?v=lkt-1_89zb8 

lunedì 26 aprile 2021

La Comune di Parigi e gli intellettuali contemporanei - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it
Alessandra Ciattini (Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni) insegna Antropologia culturale alla Sapienza di Roma. Collabora con https://www.unigramsci.it 



Molti, fra gli intellettuali contemporanei, non capirono il significato reale della Comune di Parigi lasciandosi guidare da pregiudizi antipopolari.


A testimoniare che quello della Comune di Parigi è da sempre, e soprattutto in Italia, un argomento poco trattato, è l’assenza, a 50 anni dalla sua prima pubblicazione, della traduzione del principale libro su questo tema, scritto da Paul Lidsky nel 1970 (Les écrivains contre la Commune, F. Maspéro) e ripubblicato nel 2010. A parere di scrive, all’interno di questo enorme evento storico, risulta di estremo interesse indagare l’atteggiamento che personaggi assai noti in quel tempo hanno assunto dinanzi all’insurrezione del popolo di Parigi e alla sua brutale sconfitta. A un primo sguardo, infatti, le reazioni degli intellettuali francesi sono state tutte molto simili fra loro, con qualche eccezione che citerò, ed esprimono sentimenti di disprezzo e di odio che ancora sorprendono.

Autori come Théophile Gautier, Maxime du Camp, George Sand, Gustave Flaubert, Edmond de Goncourt etc. condannano senza appello la Comune, accusata di aver costituito un governo abbietto basato sul crimine e la follia, guidato da individui irresponsabili ed esaltati. A distanziarsi da questa posizione inaccettabile, si citano autori come Jules Vallès (fondatore de “Le Cri du peuple”, membro del Consiglio della Comune e che dopo la settimana di sangue riuscì a fuggire), Paul Verlaine, Arthur Rimbaud e con una postura più moderata Victor Hugo e Emile Zola

Fra gli intellettuali favorevoli alla Comune e che hanno lavorato per essa aggiungiamo il grande pittore Gustave Courbet. Repubblicano, rifiuta la Legion d’onore offertagli da Napoleone III, viene eletto nel Consiglio della Comune dove si occupa di proteggere le opere d’arte di Parigi anche in virtù della sua elezione a presidente della Federazione degli artisti. Dopo la sconfitta della Comune viene arrestato e condannato per aver autorizzato l’abbattimento della colonna di Place Vendôme retta da Napoleone I e simbolo di militarismo. Il suo progetto era quello di fondare una fratellanza artistica pacifica, di far godere a tutti l’arte, impedendone la commercializzazione.

domenica 25 aprile 2021

I diari dell'aprile 1945 nel racconto di Ascanio Celestini


Tratto dalla trasmissione RAI "La storia siamo noi"
                                                                          
                                                                              

sabato 24 aprile 2021

I fondamenti filosofici della società virale: Nietzsche e Hayek dal neoliberalismo al Covid-19 - Paolo Ercolani

Da: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/index Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2020, I fondamenti filosofici della società virale: Nietzsche e Hayek dal neoliberalismo al Covid-19, a cura di Paolo Ercolani, pp. 305-325, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0 - 
Paolo Ercolani (www.filosofiainmovimento.it) insegna storia della filosofia e teoria e tecnica dei nuovi media all’Università di Urbino. E’ iscritto all’ordine nazionale dei giornalisti ed autore di numerosi articoli per testate nazionali. Collabora all’inserto culturale del Corriere della sera («La Lettura»), è redattore de «Il rasoio di Occam» («MicroMega») e della rivista Critica liberale.

Marx, il liberalismo e la maledizione di Nietzsche*- Paolo Ercolani 

"Il Dio cattivo" - L'insurrezione della Nuova Umanità - Paolo Ercolani 

RIVOLUZIONE DIGITALE - Roberto Finelli e Pietro Montani in dialogo. 


L’emergenza sanitaria, seguita alla comparsa del virus denominato Covid-19, ha prodotto due effetti sostanziali: il primo concerne l’esperienza traumatica, fondamentalmente a livello psicologico, di un fenomeno che ha scardinato le sicurezze dell’uomo odierno rispetto alla sua capacità di padroneggiare (o perlomeno controllare) quell’ecosistema biologico di cui è ospite e non padrone; il secondo riguarda la vera e propria crisi sociale che, in più contesti, ha rivelato fino in fondo le storture del modello neoliberista, ormai dominante nello scenario internazionale almeno a partire dalla data simbolica del 1989.

Nel primo caso, per esprimersi in termini freudiani, possiamo parlare dell’ennesima «ferita narcisistica» subìta da un soggetto, l’uomo, soventemente invaso da un irrealistico delirio di onnipotenza, che in questa situazione di emergenza sanitaria si è tradotto nell’individuazione di «verità» alternative e nella negazione dell’emergenza stessa, a fronte dell’individuazione «paranoica» di complotti e trame segrete1. 

Nel secondo caso, che poi è quello che qui ci interessa specificamente, possiamo cogliere l’occasione per ricostruire e al tempo stesso mettere in discussione i fondamenti filosofici su cui si fonda il liberismo. Ossia quella teoria che ha plasmato il sistema sociale e valoriale del nostro tempo, imponendo un «ordine» in cui l’umano e il fisiologico sono ridotti a strumento al servizio di scopi che non possono deragliare dal profitto economico e dal progresso tecnologico. Si tratta di un mix, quello che somma emergenza sanitaria e socio-economica, in grado di richiamare alla mente l’«invertebrazione» della società di cui parlava il filosofo spagnolo Ortega Y Gasset, ossia un contesto in cui «la massa rifiuta di essere massa – quindi di seguire la minoranza dirigente – la nazione si disfa, la società si smembra e sopravviene il caos sociale»2.

Vedremo che i due scenari della ferita narcisistica e della crisi sociale sono intimamente connessi3, ma qui concentreremo la nostra analisi sul secondo, cercando di dimostrare come (e quanto) i fondamenti filosofici del liberismo, essendosi imposti sia in termini di ideologia dominante che di prassi consolidata, hanno plasmato l’intero scenario umano e sociale del nostro tempo, fino a determinare quella che chiameremo la «società virale».

Da una società siffatta si può pensare di uscire soltanto a patto di rimettere in discussione proprio i fondamenti filosofici di cui sopra, iniziando dal recupero di un «pensiero forte» che sia in grado di riposizionare l’umano e il sociale al centro dell’agire politico (al posto dell’artificiale e dell’individuale, che oggi lo monopolizzano).

1. Nietzsche e l’«innocenza del divenire»

venerdì 23 aprile 2021

I limiti dell’aziendalismo nella sanità: la necessità di un cambio di paradigma - Domenico Laise, Giuseppe Martino

 Da: https://www.economiaepolitica.it - 

Domenico Laise è stato Professore Associato di Economia e Controllo delle Organizzazioni e di Sistemi di Controllo di Gestione presso la Facoltà di Ingegneria dell'informazione, informatica e statistica dell'Università di Roma 'La Sapienza'. Collabora con https://www.unigramsci.it

Giuseppe Martino è stato Professore a contratto di Economia e Controllo delle Organizzazioni e di Sistemi di Controllo di Gestione presso la Facoltà di Ingegneria dell'informazione, informatica e statistica dell'Università di Roma 'La Sapienza'. Attualmente è Consulente di Direzione e docente in diversi Master universitari di I e II livello. 

Leggi anche: Bio-economia e il mito della decrescita felice*- Domenico Laise 

La robotica come forza autodistruttiva del capitalismo - Marco Beccari

Sull'attualità del pensiero economico di Marx”*- M.Beccari - M.Paciotti 


1. Introduzione

Nel corso di tre decenni, circa, con l’introduzione del D.Lgs. 502/1992, (Riordino della disciplina in materia sanitaria), si è affermata l’idea della “aziendalizzazione” delle strutture sanitarie. In tale lasso di tempo, si è, cioè, consolidata progressivamente la convinzione che assimila l’ospedale ad un’azienda. Come ogni azienda anche l’ospedale deve essere, perciò, gestito, dai manager sanitari, nel rispetto dei criteri dell’economicità, dell’efficienza e dell’efficacia (D.Lgs. 502/1992- Art.3, 1ter). Poiché il legislatore non definisce il significato che attribuisce al criterio dell’economicità e poiché nella letteratura aziendale non esiste una definizione di economicità che gode di largo consenso, qui di seguito si riportano, innanzitutto, le definizioni di tali criteri che verranno usate in questa nota.

La gestione dell’azienda-ospedale è efficiente quando i suoi ricavi (espressione monetaria dei servizi resi) sono superiori o uguali ai costi sostenuti (espressione  monetaria delle risorse impiegate per ottenere tali ricavi). La gestione dell’azienda-ospedale è efficace quando i risultati gestionali ottenuti sono uguali o maggiori degli obiettivi pianificati. L’economicità della gestione dell’azienda-ospedale è, infine, soddisfatta quando sono garantite sia l’efficienza sia l’efficacia.

Si tornerà diffusamente sulla nozione di “economicità” nel seguito, per svilupparla e approfondirla. Qui si è voluto anticiparla esplicitamente, a livello di introduzione, poiché essa è il “perno” intorno al quale ruota l’intera filosofia dell’aziendalizzazione delle strutture sanitarie. Dal mancato rispetto dell’economicità – intesa, erroneamente, solo come efficienza – deriva, difatti, che le aziende sanitarie non efficienti sono anche quelle non economiche, che in quanto tali devono essere “ristrutturate” (efficientate, come talvolta si dice), con tagli di posti letto, con chiusura di interi reparti e, al limite, con la chiusura dell’intero ospedale.

giovedì 22 aprile 2021

Viva la guerra! La seduzione bellica tra '800 e '900

Da: Angelo d'Orsi - Angelo d'Orsi è professore ordinario di Storia del pensiero politico all’Università di Torino. (https://www.facebook.com/angelo.dorsi.7

A contrasto con lo stato di “pace” relativa della “Belle Epoque” – dopo il 1870 – si levarono numerose voci che reclamavano la guerra, il “ritorno del cannone”. In particolare in Italia, oltre ai futuristi e a D’Annunzio, fu un pugno di letterati che nel 1910, riuniti nell’Associazione Nazionalista, iniziarono la campagna per andare in Libia, e quindi si scatenarono nella propaganda per l’intervento nella Grande guerra, iniziata nell’estate 1914 e in cui infine le autorità italiane decisero di portare il Paese nel maggio del ’15. Quella scelta, in contrasto con il sentire diffuso della popolazione, costò 600 mila morti. La diffusione di una ideologia bellicistica, ad opera degli intellettuali, ottenne il triste trionfo. 

                                                                          

“Ci voleva, alla fine un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l’arsura dell’agosto; e una rossa svinatura per le vendemmie di settembre; e una muraglia di svampate per i freschi di ottobre. È finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell’ipocrisia e della pacioseria.” (Giovanni Papini, Amiamo la guerra!, in “Lacerba”, 1914) 

mercoledì 21 aprile 2021

SuperLega: o la concentrazione dei capitali nel calcio - Francesco Piccioni

Da: http://contropiano.org - Francesco Piccioni, redattore editoriale di Contropiano.


Bisognerebbe quasi ringraziare chi ha avuto l’idea di promuovere una “Superlega” nel calcio europeo. 

Scherziamo, ovviamente, ma è la verità.

E’ sempre difficile, a volte “noioso”, spiegare in termini semplici, popolari, con esempi immediatamente illuminanti, cosa significa “concentrazione e centralizzazione dei capitali”, quel processo immanente al processo di accumulazione capitalistica, che porta ai monopoli.

Poi ci pensa un Agnelli di seconda fila – quello messo a dirigere la Juventus, non la Fiat ed evoluzioni successive – a mettere sul piatto la prova evidente, il fatto solare, scatenando la reazione dei capitali “minori” (quelli che hanno gestito fin qui il calcio europeo, pur miliardario) e quella molto meno decisiva dei tifosi di qualsiasi squadra.

Anche in questo caso la pandemia ha accelerato una crisi che covava già da anni. Molti club, di qualsiasi livello, erano pieni di debiti. Frequenti i cambi di proprietà, e ad ogni passaggio di consegne si sono fatti avanti o grandi gruppi multinazionali (per i club più titolati) o avventurieri dall’incerta biografia.

Sia i primi che i secondi cercavano e cercano un modo per rompere la tradizione (“a gestire una squadra si diventa famosi, ma ci rimettono soldi”), “valorizzando” progetti edilizi (“un nuovo stadio!”) e/o scambi impropri (deroghe al piano regolatore, costruzione di centri commerciali, “edilizia in compensazione”, ecc).

Ma alla fin fine, in un mondo che va anch’esso mutando le proprie coordinate fondamentali, il vero business sono i diritti televisivi. I miliardi da investire in strutture, allenatori, calciatori, ecc, vengono di lì.

Ma se il cuore dell’industria calcistica – i suoi proventi principali, per dimensione e certezza (si firmano contratti ad inizio stagione) – è la televisione, si vengono a rompere tutti i legami atavici, territoriali, culturali, economici, sociali, persino politici (do you remember Berlusconi? da presidente del Milan a “nuovo leader della soscietà civile”). E anche quel tanto di condivisione della torta tra club di punta e piccole società.