Molti, fra gli intellettuali contemporanei, non capirono il significato reale della Comune di Parigi lasciandosi guidare da pregiudizi antipopolari.
A testimoniare che quello della Comune di Parigi è da sempre, e soprattutto in Italia, un argomento poco trattato, è l’assenza, a 50 anni dalla sua prima pubblicazione, della traduzione del principale libro su questo tema, scritto da Paul Lidsky nel 1970 (Les écrivains contre la Commune, F. Maspéro) e ripubblicato nel 2010. A parere di scrive, all’interno di questo enorme evento storico, risulta di estremo interesse indagare l’atteggiamento che personaggi assai noti in quel tempo hanno assunto dinanzi all’insurrezione del popolo di Parigi e alla sua brutale sconfitta. A un primo sguardo, infatti, le reazioni degli intellettuali francesi sono state tutte molto simili fra loro, con qualche eccezione che citerò, ed esprimono sentimenti di disprezzo e di odio che ancora sorprendono.
Autori come Théophile Gautier, Maxime du Camp, George Sand, Gustave Flaubert, Edmond de Goncourt etc. condannano senza appello la Comune, accusata di aver costituito un governo abbietto basato sul crimine e la follia, guidato da individui irresponsabili ed esaltati. A distanziarsi da questa posizione inaccettabile, si citano autori come Jules Vallès (fondatore de “Le Cri du peuple”, membro del Consiglio della Comune e che dopo la settimana di sangue riuscì a fuggire), Paul Verlaine, Arthur Rimbaud e con una postura più moderata Victor Hugo e Emile Zola.
Fra gli intellettuali favorevoli alla Comune e che hanno lavorato per essa aggiungiamo il grande pittore Gustave Courbet. Repubblicano, rifiuta la Legion d’onore offertagli da Napoleone III, viene eletto nel Consiglio della Comune dove si occupa di proteggere le opere d’arte di Parigi anche in virtù della sua elezione a presidente della Federazione degli artisti. Dopo la sconfitta della Comune viene arrestato e condannato per aver autorizzato l’abbattimento della colonna di Place Vendôme retta da Napoleone I e simbolo di militarismo. Il suo progetto era quello di fondare una fratellanza artistica pacifica, di far godere a tutti l’arte, impedendone la commercializzazione.
Se il movimento del 1848 aveva suscitato un certo entusiasmo tra gli intellettuali quali Alphonse de Lamartine, che difenderà però il tricolore contro la bandiera rossa, Charles Baudelaire e Victor Hugo, il colpo di Stato di Luigi-Napoleone Buonaparte e la legge del 17 febbraio 1852, che colpisce la libertà di stampa, segna un ripiegamento: le più note penne di Francia adotteranno il principio dell’arte per l’arte o si faranno incantare dall’esotismo e dai viaggi verso l’oriente. In questo contesto, svolge una funzione importante il salotto della principessa Mathilde Bonaparte, cugina dell’imperatore, che accoglie intellettuali di varie tendenze politiche che in alcuni casi esprimono moderate critiche verso il nuovo regime oppure ne vengono direttamente beneficiati, magari con seggio all’Accademia di Francia. Il salotto dà un falso senso di indipendenza ai suoi frequentatori che si limitano a esprimere qualche idea eterodossa sulla funzione dell’arte e della letteratura.
Tuttalpiù essi manifestano la loro virulenta avversione nei confronti del “borghese”, il cosiddetto parvenu, l’arricchito che è privo di gusto, di cultura e di stile senza però mettere in alcun modo in discussione l’ordine economico, ma criticando soltanto la volgarità, la trivialità e la bassezza di coloro che ne stanno al vertice esclusivamente per le ricchezze accumulate.
Per questi personaggi, accomunati dall’aristocraticismo, il popolo costituisce un’altra razza giustamente sottomessa e schiavizzata, simile ai selvaggi studiati dagli etnografi negli angoli più remoti del mondo, e la cui volontà di emergere rappresenta un terribile pericolo in grado di provocare la distruzione della civiltà. A loro parere la populace è una folla volgare e disgustosa che impedisce agli artisti di dedicarsi al loro mestiere, togliendo loro la serenità necessaria e mettendo a rischio le condizioni economiche che consentono loro di consacrarsi all’arte.
Tale punto di vista è espresso assai bene dal disprezzo di Flaubert per l’azione (L’action me devient de plus en plus antipathique) e dall’idea di Gauthier, secondo la quale tutto ciò che è utile è laido.
Emile Zola scrive delle corrispondenze sulle sedute dell’Assemblea di Versailles per due giornali nemici della Comune, nelle quali osserva che il sollevamento del popolo parigino, benché in una certa misura legittimo, è stato suscitato da un gruppuscolo di rivoltosi che approfittano della rabbia legittima di Parigi umiliata dai prussiani, che hanno sconfitto a Sedan un esercito guidato da incapaci. Tuttavia, anche il grande scrittore, fiducioso nell’operato di Adolphe Thiers, si fa coinvolgere nell’opera di depoliticizzazione della Comune che prepara al massacro attuato nella settimana di sangue.
Il viaggiatore e giornalista Maxime du Camp (1822-1894), amico di Flaubert, che partecipò alla spedizione dei Mille, nel suo scritto Les Convulsions de Paris (1889, 4 voll.), ci fornisce una descrizione impietosa dei capi della Comune che a suo parere parlano illegittimamente in nome del popolo: “essi sono rosi dall’ambizione e dall’invidia che li spinge ad odiare i ricchi, sono dei piccoli borghesi squalificati, operai desiderosi di essere padroni, giornalisti senza giornali, medici senza clienti, insegnanti senza discepoli”. Sulla stessa linea si colloca Alphonse Daudet tracciando il ritratto del già ricordato Jules Vallès, che raccontò la sua vita difficile in una trilogia. Scrive Daudet: “sul suo volto si indovina il riso amaro, gli occhi pieni di bile di un uomo che ha avuto un’infanzia disgraziata, di taglia piccola ha indossato abiti ridicoli ricavati da quelli vecchi di suo padre”.
Del resto, nei suoi romanzi Vallès conferma che sono le miserabili condizioni di vita delle classi popolari che le hanno spinte alla rivolta, ma la sua analisi è sociologica e non psicopatologica come quella delineata dagli autori citati. Il suo eroe ha fame, vive in un ambiente insano, sprofondato nella precarietà non riesce nemmeno a pensare, a scrivere come vorrebbe, ad agire, emarginato odia il sistema che lo esclude e che impedisce la sua realizzazione. Questa triste condizione lo rende simile alla sua vicina, un’insegnante non più giovane che per vivere si prostituisce. Nonostante questa tormentosa esperienza, Vallès dichiara di non essere disponibile a nessun compromesso, fermo nelle sue convinzioni. Scrive: “volete un essere gaio, io sono un ribelle e ribelle resto, riprendo il mio posto nel battaglione dei poveri”.
Forse queste considerazioni gettano qualche luce sullo stato d’animo degli intellettuali che per varie vicende personali e politiche non si lasciano corrompere e per questo restano ai margini venendo tranquillamente ignorati, giacché dietro di loro non c’è nessuna forza che li sostiene.
Personaggi come Vallès assomigliano al Julien Sorel di Stendhal o al Lucien de Rubempré di Balzac, giovani che dalla provincia giungono a Parigi per incontrarvi il successo, ma vengono travolti dagli intrighi e dalla corruzione imperante nella capitale francese che impedisce la realizzazione di tutti i loro sogni. La stessa origine ha Eugène Rastignac, altro personaggio della Comedie humaine, probabilmente ispirato alla figura di Thiers, cinico e corrotto che però con operazioni subdole e disinvolte, da liberale negli anni ’30 , riesce a inserirsi nell’alta borghesia parigina arricchendosi e giungendo a rivestire importanti cariche politiche.
Tornando ai caratteri del popolo comunardo, molti autori ostili all’insurrezione ne hanno sottolineato la tendenza all’alcolismo, alla sporcizia, alle pratiche orgiastiche, al saccheggio; tutti aspetti che ne fanno una massa subumana nella quale si collocano anche le donne, trasformate in esseri mostruosi e spesso responsabili di appiccare incendi anche agli edifici più importanti della città (le famose petroleuses) e senza dimenticare gli stranieri che partecipano alla Comune, polacchi, italiani, ungheresi etc., accusati di essere i manovali di un complotto prussiano-giudaico-massonico.
In particolare, seguendo questi stereotipi, Zola non comprende il senso delle misure prese dalla Comune, condanna per esempio la soppressione del lavoro notturno dei fornai o la misura relativa al riconoscimento dei figli naturali. Scrive: “È veramente comico. Si potrebbe credere che questi signori hanno seminato bastardi nella loro giovinezza e ora incaricano la patria di dare una madre a questa numerosa famiglia”.
Di fatto, non critica in senso politico le riforme comunarde di grande rilievo quali l’istruzione pubblica e gratuita per tutti, l’attribuzione dei diritti civili alle donne, la separazione dello Stato dalla Chiesa etc., ma si limita a elaborare insulti sulla base dello stesso stereotipo del comunardo costruito soprattutto da coloro che temono per i loro averi, scrittori e artisti compresi.
Lidsky analizza molto bene il procedimento letterario attraverso il quale gli scrittori operano la depoliticizzazione della Comune e descrivono in forma fortemente negativa i suoi protagonisti. In particolare, essi trasformano i comunardi in tipi psicobiologici, il cui comportamento sarebbe determinato in senso stretto da una loro supposta natura innata, da cui scaturirebbero quei sentimenti esecrabili prima descritti che starebbero alla base del programma comunardo. Si tratta di un determinismo biologico e sociale presente nei romanzi del naturalista Zola, ma che lui stesso aveva criticato.
Un buon esempio di questo modo di procedere è dato da un celebre personaggio di Zola: Laurent, l’amante pigro, vizioso di Teresa Raquin (1869). Così lo descrive: “In fondo era un uomo pigro, dotato di appetiti sanguigni, di desideri persistenti, di gioie facili e durevoli… avrebbe voluto mangiare bene, dormire, soddisfare le sue passioni, senza muoversi, senza avere la sfortuna di incontrare una qualsiasi fatica. Oltre a fare l’impiegato fa anche il pittore ed è l’espressione tipica del cattivo lavoratore; lui e la sua donna sono così descritti da Zola – con le sue parole – “sono personaggi fortemente dominati dai nervi e dal sangue, sprovvisti del libero arbitrio, spinti ad ogni atto dalla fatalità della loro carne… Teresa e Laurent non sono altro che bruti umani”.
Al contrario, se leggiamo i resoconti dell’attività politica della Comune descritti da Vallès, vediamo che essa è scandita da intensi dibattiti, numerose riunioni, discussioni sui programmi, contrasti tra le varie componenti: repubblicana, proudhoniana, socialista, neogiacobina. Egli valorizza l’azione dei consigli operai, collega l’azione politica alla Grande Rivoluzione, mostra che non si tratta di un’occulta cospirazione, ma di decisioni legittimate dal popolo lavoratore. All’operaio degenerato, Vallès contrappone l’operaio socialista Tolain, il quale compra sui lungosenna i libri di Adam Smith e J.B Say e studia le opere dei fondatori delle Rivolta sociale.
Molti autori ricorrono alla nozione di bohème, nome collegato ai gitani che erano giunti in Francia dalla Boemia, per descrivere i comunardi: conducono una vita disordinata, non rispettano le regole, sono anticonformisti, e scapigliati. Paradossalmente gli stessi scrittori e artisti sono spesso loro stessi dei bohèmiens, come Gauthier, George Sand e Flaubert, disprezzano il materialismo borghese, cercano l'ebbrezza nelle droghe, violano tutte le convenzioni che limitano la creatività e non ricercano l’impegno politico.
In una lettera a George Sand, quest’ultimo afferma che il popolo è un eterno minorenne, che la Francia deve essere governata da un’aristocrazia legittima e che l’istruzione pubblica farà aumentare solo il numero degli imbecilli.
Eletto all’assemblea nazionale, victor Hugo, vicino ai repubblicani, protesta quando se ne decide il trasferimento a Versailles. Il 18 marzo, quando la Comune prende il potere, ritorna a Parigi per la morte di suo figlio Charles, ma ben presto si rifugia a Bruxelles da dove segue il tragico svolgersi degli eventi. Non apprezza quelli che a suo dire sono gli eccessi della Comune, ma invita il governo di Thiers alla moderazione. Dopo la sconfitta dei comunardi si dichiara disposto ad accoglierli e dedica a Louise Michel il poema Viro major. Nel 1872 pubblica la raccolta poesie dedicate alla guerra con la Prussia, alla guerra civile e agli avvenimenti della Comune e da senatore si batte per la concessione dell’amnistia ai Comunardi in sintonia con Zola. Amnistia che viene completamente concessa nel 1880.
Quanto a Paul Verlaine, lavorò come addetto stampa della Comune e dopo la sconfitta si nascose per non essere processato. Nel 1872-1873 parte con Arthur Rimbaud, con cui ha una relazione tumultuosa, si ferma a Londra e frequenta i circoli rivoluzionari. Nel 1848 aveva scritto un poema dedicato a quella rivoluzione che completa nel 1872 con versi relativi alla Comune con cui auspica il trionfo del nuovo rivolgimento. Quanto a Rimbaud, non è nemmeno chiaro se il giovanissimo poeta abbia soggiornato a Parigi nel periodo della Comune, come dimostrerebbero alcune lettere inviate da Charlesville, cittadina dove era nato. Tuttavia, anche se non direttamente partecipe al tentativo di democrazia diretta messo in opera dal popolo parigino, il poeta maledetto ha mostrato con i suoi scritti e con la sua vita un’affinità profonda con quell’esperimento politico, benché si sia trattato più di un entusiasmo sentimentale che della condivisione precisa di un progetto politico. Vari poemi sono da lui dedicati alla Comune, come Chant de guerre parisien, L’orgie parisienne del maggio 1871 e Les mains de Marie-Jeanne, dedicato alle donne della Comune.
A conclusione di questa rapida rassegna cito le parole con cui Zola commenta la settimana di sangue: “Le bain de sang que le peuple de Paris vient de prendre était peut être d’une horrible necessité pour calmer certains de ses fièvers. Vous le verrez maintenant grandir en sagesse et en splendeur” (E. Zola, “Le Sémaphore de Marseille”, 3 giugno 1871). Espressioni che parlano da sole.
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