lunedì 12 aprile 2021

Il lato inquieto dello spirito. Osservazioni su alcuni momenti della filosofia dello spirito jenese di Hegel [1] - Carla Maria Fabiani

 Da: http://www.dialetticaefilosofia.it - Carla Maria Fabiani, Università del Salento. Department of Humanities - dialettica.filosofia - FRANCESCO-VALENTINI 

Vedi anche: Dall’essere all’idea. Le articolazioni decisive della "Logica" di Hegel - Paolo Vinci 

A partire da Hegel - G. Cantillo - F. Li Vigni 

Leggi anche: L’ineffabile, l’anima e l’origine. Una riflessione sul Geist hegeliano - Carla Maria Fabiani

- Breve introduzione ai Lineamenti della Filosofia del Diritto di Hegel - Carla Maria Fabiani 



[1] Il male è il niente in sé, il puro sapere di sé – quest’inferno dell’uomo chiuso in se stesso [2] Lo spirito, in quanto assoluto spirito etico, è essenzialmente come il negativo infinito, il togliere la natura in cui esso è divenuto a sé un che di altro, il porre la natura come se stesso, e poi l’assoluto godimento di se stesso, giacché ha ripreso in sé la natura [3]. 


1. Da dove sorge lo spirito. La sua prima natura 

Lo spirito sorge dalla natura: e più precisamente si presenta, in questi due corsi di lezioni tenute da Hegel a Jena tra il 1803-04 e il 1805-06, come l’elemento etereo della coscienza che si emancipa dalla determinazione meramente organica e particolaristica del mondo animale-terrestre. Lo spirito è coscienza, proprio in quanto interiorizza le infinite distinzioni – o le singolarità dell’uno numerico come le chiama Hegel – del mondo animale; le interiorizza concependole. «Questo concetto dello spirito è ciò cui si dà il nome di coscienza» [4]. 

Lo spirito si chiama coscienza; ma a cosa esattamente pensiamo quando diciamo, appunto, coscienza? Al sorgere del mondo umano, al suo levarsi, alla sua preistoria; alla fenomenologia dello spirito umano, il quale, certo, si innalza sul mondo animale dal quale pure proviene, poiché lo comprende (e non viceversa), ne comprende la precipua infinità, interiorizzandola, smaterializzandola nell’etere della sua coscienza. 

«[La coscienza] è l’essere uno della distinzione che è e della distinzione tolta [aufgehobenen].» [5] Hegel considera due piani della medesima realtà: natura (mondo animale) e spirito (mondo dell’uomo). 

Nel mondo animale la singolarità-alterità è irriducibile e costitutiva (ci troviamo di fronte a una serie infinita di molti uno numerici, di individui giustapposti), è l’essenza stessa di questo mondo: l’animale è così e non altrimenti. L’uomo invece è così e altrimenti: è un singolo che pensa la sua singolarità. Esso è la distinzione e al contempo il superamento della distinzione: questo processo avviene nell’elemento etereo della coscienza, nel pensiero. Questo processo è lo spirito, ossia l’uomo che si concepisce; ma ciò non vuol dire che l’uomo non sia anche e innanzitutto animale, natura organica, natura in genere, terra, ecc. Ciò vuol dire semplicemente che il mondo dell’uomo si distingue dal mondo animale (l’essere uno della distinzione che è) superando proprio la fissità della distinzione che caratterizza quel mondo (la distinzione tolta). 

L’essenza della coscienza è di essere immediatamente, in una eterea identità [ätherischen Identität], assoluta unità dell’opposizione. Essa può essere ciò solo perché immediatamente, per quanto è in sé opposta, entrambi i membri dell’opposizione sono essa stessa, sono in essi stessi, in quanto membri dell’opposizione, immediatamente il contrario di se stessi, la differenza assoluta, differenza che si toglie ed è tolta, cioè sono semplici [6]. 

Dunque, in natura, l’unica forma di vita che si mostra capace di interiorizzare, smaterializzandola, l’alterità sussistente è la coscienza umana. Il processo di differenziazione assoluta – la coscienza pensandosi, e cioè vivendo come coscienza, distingue sé da sé – nel quale è immersa essenzialmente la coscienza, è una dimensione di immediata e semplice identificazione di sé con sé. I membri dell’opposizione si sanno tali; sanno di appartenere a un’opposizione ideale, che si toglie. La vita della coscienza è questa dimensione eterea del concepire sé come altro da sé, permanendo tuttavia presso di sé. Non è solo una dimensione mentale; lo è anche. È lo spirito che sorge dalla natura come coscienza. La vita della coscienza che «in quanto suo concetto [als sein Begriff] si è sollevata immediatamente dall’organizzazione animale» [7]. È la coscienza che pensa se stessa. Ma, aggiunge Hegel, siamo noi che, finora, con il nostro conoscere, abbiamo sollevato lo spirito dalla dimensione naturale, nella quale esso sta di fatto come altro da sé: esso dorme nella natura, è “spirito nascosto”. Se volessimo trovare nella dimensione naturale lo spirito, noi non vedremmo nulla. Lo spirito non si cerca e non si vede a occhio nudo. Esso sorge propriamente allorquando il nostro conoscere viene a identificarsi col conoscersi dello spirito stesso. 

Ma come avviene esattamente questo ‘salto’ e cioè questa sorta di personificazione dello spirito? Lo spirito, si è detto, è questa vita dell’essere umano, il quale naturalmente si comporta come coscienza. Eppure, questo suo naturale comportarsi lo porta a negare la stessa dimensione naturale. Negare la dimensione naturale vuol dire, per lo spirito, assumere una forma non immediatamente naturale. 

Questa relazione negativa [negative Beziehung] alla natura è in generale il lato negativo dello spirito, o è il modo in cui esso si organizza in sé come questo negativo; il modo, cioè, in cui diviene totalità della coscienza del singolo; giacché la coscienza in quanto attiva, in quanto nega, toglie l’essere del suo essere-altro, è la coscienza come un lato di se stessa, come coscienza soggettiva [subjectives Bewuβtseyn], ovvero coscienza come singolarità assoluta[8] . 

Il soggettivo – o il lato attivo della coscienza ovvero il singolo che pretende universalità – è propriamente lo spirito; l’attitudine spirituale di negare il naturale, il dato immediato. Questa finalmente è una dimensione tutta umana. È inoltre una dimensione in cui la coscienza esiste come e nella mediazione. Abbiamo cioè abbandonato l’immediatezza della determinazione naturale, per cui l’animale, che lo voglia o no, è determinato, poniamo, come animale selvatico o animale domestico. L’attività della coscienza crea invece le proprie determinazioni. In altre parole, la coscienza come soggetto attivo si determina essa stessa nella realtà, prendendo forma di medio. È una sorta di personificazione dello spirito nella coscienza del soggetto, o meglio nella coscienza di essere soggetto e soggetto attivo. In questo senso allora Hegel può dire che appena la coscienza «pone in se stessa la riflessione che fin qui era la nostra»[9] essa diviene l’idealità della natura, ossia è il divenire dello spirito. 

Lo spirito ha a che fare positivamente con se stesso solo in quanto nega la natura; il negare la natura non corrisponde più a quella eterea e rarefatta dimensione da cui eravamo partiti, una dimensione ancora tutta naturale, tanto che Hegel ci tiene appunto a precisare che là era solo la nostra riflessione che intravedeva lo spirito. Esso invece sorge in quanto tale solo come medio. Nella natura lo spirito dorme. 

Ciò che qui esiste è la notte [die Nacht], l’interno della natura [das Innre der Natur] – un puro Sé [reines Selbst]; in fantasmagoriche rappresentazioni tutt’intorno è notte, improvvisamente balza fuori qui una testa insanguinata, là un’altra figura bianca, e altrettanto improvvisamente scompaiono. Questa notte si vede quando si fissa negli occhi un uomo – si penetra in una notte, che diviene spaventosa [furchtbar]; qui ad ognuno sta sospesa di contro la notte del mondo [die Nacht der Welt] [10] . 

Hegel parla proprio di inconscio, e cioè di una identità inconscia fra spirito e natura, fra io e mondo, tanto che, egli dice più avanti che, a proposito del tempo concettualmente inteso dalla filosofia, in ultima istanza la filosofia «è uomo in generale ― e non appena c’è il punto dell’uomo, c’è il mondo, e non appena c’è il mondo, c’è l’uomo. Un colpo solo li crea entrambi.»[11] Certo, il cammino dello spirito è segnato proprio da una irresistibile e costante tensione verso la differenziazione dalla natura e dal tempo della natura. Il suo risveglio da quella dimensione inconscia e spaventosa – una sorta di incubo o sonno-sogno molto agitato – di fatto si attua nella scissione e, come abbiamo visto, nell’atteggiamento negativo dello spirito verso la natura. «Questa scissione è l’eterno creare, cioè il creare del concetto dello spirito […] esso è la storia del mondo. In questa si toglie il fatto che soltanto in-sé la natura e lo spirito siano un’essenza […] L’uomo non diventa padrone della natura finché non lo è diventato di se stesso. La natura è il divenire lo spirito in sé; perché questo in-sé ci sia, lo spirito deve comprendere se stesso.»[12] 

Dunque lo spirito alberga in due dimensioni o in due aspetti della medesima dimensione: nella natura esso è l’inconscio, quest’unità immediata ma instabile fra natura e natura umana[13], nello spirito (nella natura propriamente umana, potremmo dire) esso è la comprensione di sé e del suo mondo, della sua opera. 

2. Lo spirito di un popolo. La mediazione 

Così che esiste parimenti un grande individuo universale [ein grosses allgemeines Individuum] come lo spirito di un popolo [der Geist eines Volkes] che è in modo assoluto come un essente negli individui, che sono i suoi organi, le sue singolarità, ma proprio perciò è anche come l’opposto ad essi; esiste cioè come oggetto della loro coscienza singola, come un esteriore [aüsseres] in cui essi tanto sono assolutamente uno in lui, quanto si separano e sono per sé. È l’unità universale e l’assoluto medio [absolute Mitte]degli individui […][14]. 

Facciamo ora un passo avanti, tralasciando pur numerose e importanti questioni concernenti la concezione hegeliana della natura[15]; ciò che qui si vuole sottolineare è in effetti il concetto di mediazione

Che cosa esattamente sia, in questo contesto, la mediazione secondo Hegel, può forse risultare chiaro – in tutta la sua complessità – se andiamo a vedere in che veste si presentano i medi, ovvero letteralmente i mezzi mediante i quali la coscienza dell’uomo si comporta consapevolmente come spirito; ossia come coscienza umana consapevole della sua potenziale autonomia e forza negativa nei confronti delle determinazioni naturali (nella fattispecie dei quattro elementi della natura fino all’etere, il quinto elemento). «Quella prima vincolata esistenza della coscienza in quanto medio è il suo essere come linguaggio, come strumento, e come il bene-di-famiglia. Ovvero, come semplice essere-uno, è memoria, lavoro, e famiglia.»[16] La coscienza è qui proprio l’individuo umano attivo nei confronti di altri individui, in un contesto di massima reciprocità, di riconoscimento, ma anche di massimo conflitto. In ogni caso in un contesto per nulla etereo o formale o mentale: qui conta proprio la consistenza materiale, vitale e attiva del mezzo. L’essere umano, in altri termini, è un essere cosciente nella misura in cui è individualmente attivo, o meglio è determinato come individuo fra individui. Allora, il medio del linguaggio fa sì che l’individuo cosciente si distingua dagli altri con cui parla; con lo strumento si distingua da ciò verso cui è attivo per mezzo di esso; nel bene-di-famiglia dai membri della sua famiglia. L’attività della sua coscienza, la sua vita, è mediazione o individuazione. 

Ma, aggiunge Hegel, «Quella prima vincolata esistenza è il suo essere come linguaggio, come strumento, e come possesso; la seconda forma dell’esistenza, però, in quanto popolo» [17]. È un’esistenza vincolata quella dell’individuo, in quanto esso è letteralmente legato all’esteriorità del mezzo (linguaggio, strumento, possesso), affinché possa mantenersi in vita; sebbene certo l’attività di ciascun mezzo sia esercitata in un contesto unitario e interno alla coscienza individuale: nella memoria, nel lavoro e nella famiglia. Ma vi è un livello di coscienza superiore, poiché non vincolato, rispetto a quello puramente individuale. Esso è proprio lo spirito o la coscienza di un popolo. 

Lo spirito del popolo deve diventare eternamente l’opera [Werke], ovvero esso è soltanto in quanto un eterno diventare lo spirito [ein ewiges Werden zum Geiste]. […] e poiché quest’opera comune di tutti è l’opera di essi in quanto essenti-coscienti, essi in ciò si trasformano in un che di esteriore, ma questo esteriore è il prodotto del loro operare [That], è soltanto quale essi lo hanno fatto, […] e in questa esteriorità [Aüsserlichkeit] […] in quanto medio, essi intuiscono se stessi come un popolo [als Mitte schauen sie sich als Ein Volk an] […]. L’assoluto divenire di questa idea dello spirito a partire dalla sua natura inorganica, cioè dalla natura inorganica dello spirito etico [aus seiner unorganischen Natur des sittlichen Geistes], è la necessità del suo agire nella totalità della sua opera. […]. La natura inorganica dello spirito etico non è però ciò che noi chiamiamo generalmente natura […][18] . 

Siamo partiti, per così dire, dal puro etere della coscienza immersa in un sonno-sogno naturale e solo potenzialmente spirituale; dopodiché abbiamo visto come la coscienza si sia destata e individualizzata attivandosi nella natura attraverso potenze (la potenza del linguaggio, dello strumento, del possesso familiare), le quali sono i mezzi attraverso cui l’individualità coscienziale si riconosce come un’unilateralità di un contesto decisamente più ampio[19]. Ma dobbiamo, a questo punto, considerare la mediazione etica o, come dice Hegel, l’opera dello spirito di un popolo, la sua seconda natura. Essa assume un carattere ambivalente a seconda del punto di vista da cui la si consideri. Se ragioniamo in termini di individualità essa è una vera e propria seconda natura, nella quale l’individuo si trova immerso (come l’educazione impartita al bambino dai genitori, per lui è una dimensione data immediatamente, sebbene sia un fatto culturale); se invece la consideriamo come totalità organica e non solo come sostanza etica ma come soggetto, essa è proprio lo spirito, distinto nettamente dalla dimensione naturale. Esso è storia innanzitutto. È la storia moderna che raccoglie dentro di sé l’eredità del Cristianesimo e della Rivoluzione francese. Dal punto di vista della storia della filosofia, Lo spirito delle leggi di Montesquieu e Il principe di Machiavelli costituiscono i due riferimenti a cui Hegel si ispira, e ispira i suoi studenti, muovendo invece una critica esplicita alla Repubblica di Platone, la quale, non comprendendo il principio dell’individualità, non può essere presa come esempio dell’eticità moderna. D’altra parte notiamo un Hegel nettamente aristotelico quando si appresta a criticare la forma di contratto originario da cui la comunità o l’unione statale dovrebbe scaturire: «Aristotele: l’intero è per natura prima delle parti»[20] . 

È proprio invece la mediazione, ovvero il principio dell’individualità, il principio dei tempi moderni, che caratterizza specificamente lo Stato, l’opera etica dello spirito di un popolo[21]: mediazione fra singolarità e universalità, le quali non costituiscono due entità separate ma due orientamenti convergenti del medesimo processo. «La forma universale è questo farsi-universale del singolo, e divenire universale; ma non si tratta di una cieca necessità, bensì di una necessità mediata dal sapere […]. Nel fatto che io ho il mio Sé positivo nella volontà comune consiste l’essere-riconosciuto come intelligenza, come saputo da me, in quanto la volontà comune è posta da me; nel fatto che io in ciò ho il mio Sé negativamente consiste l’essere-riconosciuto come mia potenza, come l’universale che è il negativo di me, […] mediante l’alienazione. […]»[22]. Abbiamo da una parte una totalità organica, il potere dello Stato moderno, nella quale si aliena lo spirito del popolo, come spirito degli individui in quanto tali, che riconoscono di essere solo parte dell’intero; d’altra parte però la loro coscienza non viene annullata (insomma non siamo nell’Atene di Socrate), perché essi sanno che di quell’intero sono gli artefici. Questo è il , di cui parla Hegel, ossia una presa di coscienza, potremmo dire, collettiva e storicamente determinata. Il dei tempi moderni si presenta proprio come l’attività intellettiva e pratica (l’opera etica) dello spirito degli individui riuniti in comunità: lo Stato moderno[23] . 

3. Il lato inquieto dello spirito. La sua seconda natura 

«Nulla è più storico dello spirito hegeliano: esso è greco, romano, cristiano, francese, tedesco: è essenzialmente quell’insieme di fatti di cui si occupa il sesto capitolo della Fenomenologia e che esprimono una cultura, la cultura dell’uomo moderno che, in particolare, ha vissuto l’esperienza della rivoluzione francese. […] l’uomo greco vive libero nella sua città, […]. Tuttavia questa quiete etica viene presto turbata, perché fattori inconsci si risvegliano e la mettono in crisi. L’Antigone sofoclea rappresenta eminentemente questa lacerazione […]. Ha inizio la grande scissione, la grande avventura dello spirito, il cui senso è ricostituire l’unità […]. All’interno di questa avventura ha un ruolo essenziale il mondo della ricchezza, il mondo dell’avere, del valore di scambio, del danaro. Questo mondo è definibile come mondo dell’intelletto […]. Ora mentre il sapere assoluto disaliena l’individuo rendendolo pienamente cosciente di sé, la realtà storica a esso corrispondente, in sostanza lo Stato moderno, non supera il problema della ricchezza. La cultura dell’uomo moderno, la cultura hegeliana che ha avuto ragione delle filosofie della riflessione (questa è almeno la sua persuasione), è in grado di comprendere la logica della ricchezza, ma non di dominarla realmente. Una situazione che potrebbe ricordare l’illusione trascendentale di Kant. Ma risolvere questo problema, risolvere in generale i problemi politici, non è compito del filosofo, almeno non è compito del filosofo hegeliano, a cui spetta conoscere e non cangiare il mondo. Cangiare il mondo è compito dell’uomo d’azione.»[24] 

Prendiamo le mosse da questa breve citazione proprio per introdurre l’ultimo paragrafo del presente lavoro. Il nostro intento è quello di presentare le lezioni di Jena come una sorta di fenomenologia dello spirito, certo diversa da quella del 1807 pubblicata da Hegel, in ogni caso anch’essa da considerarsi come il racconto post festum della “grande avventura” dello spirito, cioè in sostanza della cultura dell’uomo moderno. Un racconto il cui punto di vista non coincide certo con il già vissuto dalla coscienza. Una sorta di autobiografia dello spirito, in cui il soggetto che ha operato, e che solo poi si racconta, è però sempre lo stesso; cambia solo il punto di vista. 

Questo lungo cammino, si è visto, ha alle sue spalle una preistoria dello spirito; una sorta di stato di semicoscienza dello spirito o una dimensione in cui prevale su di esso l’elemento naturale e inconscio ovvero una identità immediata tra spirito e natura, l’antropologia dello spirito. 

Lo spirito in quanto tale presuppone invece ch’esso sia sveglio e cioè si renda autonomo dalla natura, per ciò che riguarda appunto l’elemento della coscienza. Tutto ciò per Hegel costituisce un fattore di emancipazione e di uscita dell’uomo da condizioni di minorità; nel corso di questa lunga e accidentata storia di emancipazione, determinante e decisiva è la potenza del mezzo (linguaggio, strumento, possesso), con il quale l’uomo distingue di volta in volta sé, come coscienza, da ciò che coscienza non è in alcun modo o che impedisce che coscienza vi sia. Altrettanto determinate e decisiva è poi la consapevolezza del principio dell’individualità che l’essere umano acquisisce in comunità: eminentemente, abbiamo visto, in età moderna, nello Stato moderno o nello spirito dei popoli moderni. 

Detto questo, però, proprio per ciò che riguarda la potenza dello strumento, e cioè per ciò che riguarda, potremmo dire, l’aspetto pratico e poi più propriamente etico dell’emancipazione coscienziale, secondo Hegel vi sono o si ripropongono delle forti e irriducibili resistenze, che impediscono una piena spiritualizzazione del mondo dell’uomo. 

α) la divisione del lavoro [ die Vereinzelung der Arbeit] accresce la quantità del prodotto; […] β) Il lavoro diventa sempre più assolutamente morto [todter], diventa lavoro-di-macchina, l’abilità del singolo diventa sempre più infinitamente limitata e la coscienza degli operai di fabbrica viene degradata fino all’estrema ottusità; γ) e la connessione del singolo tipo di lavoro con l’infinita massa dei bisogni nel suo insieme diventa del tutto inafferrabile, e diventa una dipendenza cieca [blinde Abhängigkeit] […]. Il bisogno e il lavoro, sollevati a questa universalità, formano così per sé, in un grande popolo, un immenso sistema di comunanza [System von Gemeinschafftlichkeit] e di dipendenza reciproca; una vita del morto moventesi in sé, che nel suo movimento si muove di qua e di là ciecamente e in modo elementare, e come un animale selvatico [als ein wildes Thier] ha bisogno di un continuo e rigido domino e addomesticamento[25] . 

L’universale [Das Allgemeine] è α) pura necessità rispetto al singolo lavoratore; questo ha la sua inconscia esistenza nell’universale, la società è la sua natura [die Gesellschafft ist seine Natur], dal cui movimento elementare, cieco egli dipende, che spiritualmente e fisicamente lo conserva oppure lo sopprime [aufhebt]. […] Una quantità di gente viene quindi condannata ai lavori di fabbrica e di manifattura, ai lavori delle miniere, e così via; lavori che ottundono completamente […] e tutta questa quantità di gente è abbandonata alla miseria, che in nessun modo può trovare rimedio. Compare l’opposizione della grande ricchezza e della grande miseria […] a chi già ha, a questo vien dato. […] Questa ineguaglianza di ricchezza e miseria, questo bisogno e questa necessità [diese Noth und Nothwendigkeit] diventano la più alta scissione della volontà [die höchste Zerrissenheit des Willens]― interna ribellione e odio[26] . 

Ci troviamo nel mondo della ricchezza, dell’economia politica classica con le sue leggi, ci troviamo, letteralmente, nel mondo del lavoro smithianamente inteso da Hegel. Il riferimento alla Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith è esplicito e assai lungo nel testo[27]. Non peregrino il riferimento e l’analogia del testo di Jena con il fenomeno della plebe della Filosofia del diritto del 1821; ma anche con l’estraneazione del mondo della ricchezza nella Fenomenologia dello spirito (VI capitolo), con la figura del nipote di Rameau, l’intellettuale plebeo e il suo linguaggio della disgregatezza. Da notare come il problema della plebe e quello dell’estraneazione rimangano insoluti, non perché Hegel non voglia, ma piuttosto perché ritiene di non poterli risolvere. Così anche per la «bestia selvaggia» di Jena. 

L’età moderna presenta delle fratture, dei punti critici; la moderna eticità, lo Stato moderno, non sono esenti da problemi che ne affliggono l’interna razionalità. Vi sono delle difficoltà che rendono la società e lo Stato moderni per certi aspetti essenzialmente incoerenti; inoltre, questi aspetti, introducono irrazionalità e soprattutto violenza in un contesto che dovrebbe invece averle escluse definitivamente. Una seconda natura si erge di fronte allo spirito; e non si presenta certo come natura amica, sebbene sia opera dell’uomo stesso. È questa o sembra essere questa l’inquietudine che affligge la coscienza dei popoli moderni. E questo sembra essere il nervo scoperto (scoperto anche da Hegel) della cosiddetta modernità. 

Vogliamo concludere – senza alcuna pretesa di esaustività – rimandando al testo di un autore, Eric Weil, il quale si è occupato di Hegel e specificamente del problema che Hegel ha individuato e così lucidamente, a nostro parere, esposto fin dagli anni di Jena, ma poi, senza sostanziali modifiche, anche nella Filosofia del diritto del 1821. Il brano di Weil si presenta come commento alle parole hegeliane della Filosofia del diritto del 1821. L’interpretazione weiliana dello Stato hegeliano è tale che ci permette di concludere questo nostro intervento sottolineando la piena modernità dello Stato descritto da Hegel; lo Stato hegeliano è moderno proprio perché messo in crisi da fattori generati in seno alla moderna società. Il testo di Weil apre così una linea interpretativa, da noi condivisa, che si libera decisamente di numerosi pregiudizi che hanno spesso accompagnato, senza per altro aiutarci nella comprensione, la lettura dei testi hegeliani: lo statalismo di Hegel, la fine o la chiusura della storia da lui arbitrariamente operata, il logicismo applicato come dall’alto a una realtà ad esso estranea, ecc. Ma leggiamo Weil. 

«Ciò che preoccupa Hegel, è prima di tutto l’apparire di questa folla, di questa massa, di questa plebe che conserva nei riguardi dello Stato il punto di vista del negativo, […] una opposizione […] al fondamento stesso dello Stato. Ora, ed è questo il punto decisivo, la società produce necessariamente questa plebe. […] “Di contro alla natura, nessuno può affermare un diritto. Ma nello stato sociale, ogni difetto assume subito la forma di un torto […].” Giungiamo qui al centro della concezione hegeliana dello Stato: questo torto, commesso dalla società costituita in pseudo-natura (in necessità inconsapevole), che crea la negatività della plebe, non può essere riparato dalla società, appunto perché essa non ha voluto questo torto: in quanto pseudo-natura, essa non vuole, non può volere; perché – ed è la stessa cosa – è senza ragione. […] Della questione inevitabile che si interroga sul da farsi Hegel non si è interessato: non era un economista e nemmeno uomo politico; voleva parlare di ciò che è e di ciò che era possibile (o impossibile). Ma tale ricerca ha prodotto risultati che vanno lontano. […] La guarigione verrà, […] certamente attraverso guerre, […]. Essa verrà anche mediante lo Stato […] dacché, se è insufficiente, esso è e resta la verità dell’epoca. […] Lo Stato hegeliano muore: prova ne è che la filosofia hegeliana dello Stato è stata possibile. […] “Per dire ancora una parola su questo modo di dare ricette (indicanti) come deve essere il mondo, la filosofia, in ogni caso, arriva sempre troppo tardi. Pensiero del mondo, essa appare soltanto all’epoca in cui la realtà (Wirklichkeit) ha ultimato il suo processo di formazione e si è compiuta. […] Quando la filosofia dipinge grigio su grigio, una forma della vita è invecchiata e non si lascia ringiovanire dal grigio sul grigio; essa si lascia solo conoscere; l’uccello di Minerva non prende il suo volo che al calar della notte”. Una forma della vita è invecchiata.»[28]  

4. Riflessioni a margine 

Si aprono ulteriori questioni interpretative che investono innanzitutto il rapporto fra la Filosofia del diritto (o, se si vuole, le filosofie del diritto) e la concezione hegeliana della storia e della storia del mondo (con riferimenti alla ‘mondialità’ come l’autentico stato di natura e quindi alla «guerra» e al Kant della pace perpetua); non da escludere anche la questione se il problema della plebe possa avere una rilevanza specificamente morale (sempre con opportuni riferimenti al soggetto morale di Kant); poi, la questione dell’inconscio, legato sempre in Hegel al naturale e all’uomo prefenomenologico o dell’antropologia. Insieme a tutto questo, la considerazione di come esattamente Hegel abbia restituito nei suoi testi l’eticità e il mondo dell’eticità, proprio in quanto seconda natura. Infine, ma non al margine, si apre la questione del genere, inteso proprio aristotelicamente, come continua produzione degli esseri della medesima specie: la riproduzione del genere umano non sembra essere pienamente garantita dalla società e dallo Stato moderni, stando almeno a come Hegel ce li ha voluti presentare. 

Potremmo, qui solo schematicamente, rinviare ad alcuni luoghi hegeliani che più ci indirizzano verso tali temi, da approfondire però in altra sede. Procediamo per punti. 

1) il sorgere del fenomeno economico-politico della plebe nei Lineamenti (1821) si presenta problematico in quanto potenzialmente sovversivo dell’ordinamento politico in cui Hegel viene a collocarlo – la monarchia ereditario-costituzionale e il sistema costituzionale per ordini (Stände

2) la soluzione o il tentativo di soluzione che Hegel prospetta si risolve in una serie di misure di politica economica al dunque fallimentari: la carità, l’aumento dell’occasione di lavoro, la colonizzazione 

3) la colonizzazione, nella fattispecie, rinvia il problema, proprio a detta di Hegel, in altre regioni del mondo (incombe il “cattivo infinito” in termini logici), ma soprattutto rinvia il problema, a nostro parere, in un quadro di rapporti internazionali che vede l’esercizio delle singole sovranità nazionali potenzialmente, o meglio irreparabilmente conflittuale (la critica alla pace perpetua e al contratto di Kant) 

4) non è un caso che Hegel consideri lo “stato di natura” nozione appropriata per descrivere lo scenario politico internazionale e non quello nazionale: la storia del mondo è tribunale supremo per i singoli Stati e per i singoli popoli, è un mattatoio, in cui, soprattutto con la violenza ossia con la guerra, si decide il destino del singolo stato 

5) in questo senso, con la colonizzazione, il problema dell’antagonismo sociale interno viene, per così dire, proiettato in un quadro mondiale che, invece di risolvere, diremmo che complica il fenomeno economico-politico della plebe 

6) d’altra parte, il punto di vista della plebe è quello di covare odio e rancore[29] ovvero, come Hegel dirà nei Lineamenti, essa ha il «sentimento [Gefühl] del proprio torto» ma non il pensiero o la coscienza di esso 

7) in altre parole, la plebe dei Lineamenti (o il lavoratore degli scritti di Jena) non sorge in un contesto di riconoscimento operante (non vi sono istituzioni politiche che possano riconoscerla, ed è perciò sovversiva); ma, anche dal punto di vista ‘sociologico’, essa rappresenta forze inconsce, inconsapevoli e cieche, ovvero il moderno mondo della ricchezza (pensiamo alla divisione del lavoro smithiana e alla mano invisibile), che, dal punto di vista hegeliano, produce realtà quantitativamente progredite, nelle quali però viene a mancare lo spirito ossia l’intersoggettività: realtà patologiche, esattamente come quelle descritte da Hegel nell’Antropologia sistematica, dove, in sostanza, manca il linguaggio, il Dasein dello spirito, l’intersoggettività-riconoscimento-alterità 

8) allora, si potrebbe pensare a una persistenza o pervasività delle questioni etiche e morali in Hegel con riferimento alla problematica nozione di Gattung, che, in effetti, non ha garantita piena sussistenza né in un quadro nazionale (la plebe è riprodotta come irriproducibile) né mondiale (il genere umano non è il soggetto della storia del mondo, lo è piuttosto il conflitto fra nazioni) 

9) in questo senso, si potrebbe pensare, ma qui solo lo accenniamo, a un Hegel che non intende ‘conciliare’ o conchiudere eticamente o politicamente la storia; viceversa, l’età moderna presenta fratture etiche e morali talmente insanabili, le quali, proprio perciò, rendono urgente una riflessione filosofica totalmente aperta. 

Note

[1] G.W.F. HEGEL, Jenaer Systementwürfe I, Philosophie des Geistes, hrsg. v. K. Düsing u. H. Kimmerle, Hamburg 1975 (ID., Gesammelte Werke, Bd. 6, pp. 265-331); ID., Jenaer Systementwürfe III, Philosophie des Geistes, hrsg. v. R.-P. Horstmann unter Mitarbeit v. J. H. Trede, Hamburg 1976 (ID., Gesammelte Werke, Bd. 8, pp. 185-287). Trad. it.: G.W.F. HEGEL, Filosofia dello spirito jenese, a c. di G. Cantillo, Laterza, Roma-Bari 1984. Prendiamo qui in esame alcuni passi delle lezioni tenute da Hegel a Jena tra il 1803-04 e il 1805-06. Ricordiamo Rosenkranz: “Hegel si lasciò convincere ad andare subito da Francoforte a Jena. In questa città il fermento letterario vero e proprio era ormai terminato. […] Ma l’animazione era cresciuta. […] Per un’esatta concezione del rapporto fra Hegel in veste di docente e Schelling, sarà opportuno indicare quali lezioni siano state tenute da Schelling nel periodo in cui viveva a Jena assieme a Hegel.” (K. ROSENKRANZ, Hegels Leben, Berlin 1844; trad. it.: ID., Vita di Hegel, a c. di R. Bodei, Vallecchi Editore, Firenze 1966, pp. 165 e sgg.). Comprendiamo quanto sia densa e complessa l’attività hegeliana di docente a Jena: il rapporto con Schelling forse è la cifra che segna tutto il soggiorno di Hegel in quella città e che potrebbe costituire il filo conduttore della sua produzione filosofica jenese, fino alla Prefazione del 1807. Ma noi in questa sede vorremmo piuttosto dedicarci all’analisi dei testi sopraindicati, rimandando però il lettore a due testi che ci paiono quanto mai utili per la comprensione testuale e bibliografica della produzione hegeliana giovanile e jenese: F. CHIEREGHIN, Dialettica dell’assoluto e ontologia della soggettività in Hegel. Dall’ideale giovanile alla «Fenomenologia dello spirito», Verifiche, Trento 1980; R. FINELLI, Mito e critica delle forme. La giovinezza di Hegel 1770-1801, Editori Riuniti, Roma 1996. Per le citazioni hegeliane indicheremo prima la pagina del testo tedesco con il riferimento al volume delle GW e poi, dopo il punto e virgola, quella della traduzione in italiano. 

[2] G.W.F. HEGEL, Op. cit., Bd. 8, p.252n; p. 140. 

[3] Ivi, Bd. 6, p. 317; p. 54. 

[4] Ivi, Bd. 6, p. 266; p. 4. 

[5] Ibidem. 

[6] Ivi, Bd. 6, p. 273; p. 11. 

[7] Ivi, Bd. 6, p. 274; p. 12. 

[8] Ivi, Bd. 6, p. 275; p. 13. 

[9] Ivi, Bd. 6, 276; p. 14. 

[10] Ivi, Bd. 8, p. 187; p.71. 

[11] Ivi, Bd. 8, p. 287; p. 174. 

[12] Ibidem. Facciamo qui solo un breve accenno, senza poter entrare nel merito, a un testo di utile e preziosa lettura: F. LI VIGNI, La dialettica dell’etico. Lessico ragionato della filosofia etico-politica hegeliana nel periodo di Jena, Guerini, Milano 1992. L’autrice ci inserisce mirabilmente in una parte della produzione hegeliana a Jena restituendoci la dinamica lessicale e concettuale dei testi hegeliani (non solo le lezioni jenesi sulla filosofia dello spirito ma anche il Naturrechtsaufsatz e il System der Sittlichkeit), sulla cui base poi verrà sviluppata la tematica etico-politica, sia nella Fenomenologia dello spirito (il VI capitolo soprattutto) sia nella Filosofia del diritto (1821), per ciò che riguarda, appunto, i temi e i problemi etico-politici (linguaggio/riconoscimento, lavoro, famiglia, diritto, eticità, ecc.). Convinzione dell’autrice è che vi sia una forte differenza fra la prospettiva indicata da Hegel nel primo corso di lezioni (1803-04) e quella invece sviluppata nel secondo corso (1805-06). In sostanza, nel primo corso, Hegel introdurrebbe la nozione del «per noi», il punto di vista proprio dello spirito, che si distingue e non si amalgama al punto di vista propriamente fenomenologico, cioè al cammino della coscienza, la quale vive e supera le scissioni (fra soggetto e oggetto, singolare e universale, ecc.) costituendosi come medio di esse. In ogni caso, la consapevolezza filosofica dell’intero o della conciliazione non sarebbe la sua specifica prospettiva. Nel secondo corso, invece, Hegel abbandonerebbe, secondo l’autrice, proprio la prospettiva fenomenologica, per approdare a un atteggiamento propriamente idealistico (che ricorda più l’Enciclopedia che la Fenomenologia del 1807), rivolto a seguire il rapporto e quindi l’evoluzione dello spirito chiuso in se stesso. Cadrebbe, con ciò, l’elemento del medio o della coscienza come medio e si avrebbe invece una dimensione coscienziale di esteriorizzazione, di oggettivazione dell’io nella cosa. Tutto questo viene presentato come problema, considerato poi il fatto che, secondo l’autrice, in riferimento proprio a dinamiche etiche ed etico-politiche, le soluzioni hegeliane non sarebbero pienamente soddisfacenti (la rappresentanza cetuale ad esempio non convince). Noi ci proponiamo di approfondire in altra sede eventuali nostre divergenze di lettura, sia a proposito del «per noi» sia della concezione hegeliana degli Stände. In ogni caso, vorremmo solo far notare qui come vi sia da parte di Hegel, in entrambi i corsi, la esplicita consapevolezza che nel mondo della natura ed anche in quello dello spirito, permangano, nonostante tutto, dei residui di incoscienza, di singolarità inconciliata con l’universale, di cieco automatismo, di accidentalità, ecc. Non vedremmo cioè, nella razionalità hegeliana, la pretesa di far tornare i conti a tutti i costi. Una prova, forse, potrebbe proprio consistere nel modo in cui Hegel recepisce, studia e fa studiare ai suoi studenti l’economia politica classica; una seconda natura, il mondo della ricchezza, una natura selvaggia, indomita e indomabile da parte della ragione. Ma di questo più avanti.  

[13] Nella Antropologia, più tardi, Hegel parlerà di anima, anima del mondo e anima individuale. Ebbene, potremmo qui forse solo indicare la stretta analogia che sussiste fra l’anima e l’inconscio, la notte, il sonno-sogno dello spirito, la notte del mondo. È una condizione pre-fenomenologica, pre-istorica, “infima” della coscienza come si dirà nella Logica, anche patologica. Manca il lόgos, e cioè proprio il linguaggio. Manca l’uomo concreto con i suoi bisogni socialmente determinati. Manca infine l’ethos. Eppure, anche in questa sfera immediata dello spirito noi possiamo parlare di ánthropos e cioè possiamo considerare in modo assoluto – cioè con la speculazione e non con l’intelletto – la vita dell’uomo immerso nella dimensione naturale. Per questo tema rimandiamo a F. CHIEREGHIN, L’Antropologia come scienza filosofica in: AA.VV., Filosofia e scienze filosofiche nell’«Enciclopedia» hegeliana del 1817, a cura di F. Chiereghin, Quaderni di verifiche 6, Trento 1995, pp.429-454; per la specifica logica sottesa alla nozione di anima, che ci riporta al Cominciamento della «Scienza della logica», rimandiamo a F. VALENTINI, Le prime categorie della «Logica», in ID., Soluzioni hegeliane, Guerini e Associati, Milano 2001, pp. 143-157; F. CHIEREGHIN, Principio e inizio in Hegel, in AA.VV., Hegel contemporaneo La ricezione americana di Hegel a confronto con la tradizione europea, a cura di L. Ruggiu e I. Testa, Guerini e Associati, Milano 2003, pp. 523-543. 

[14] G. W. F. HEGEL, Op. cit., Bd. 6, pp. 270-271; p. 9. 

[15] Citiamo un testo di F. Chiereghin estremamente significativo in proposito: “Si comprende allora l’importanza decisiva che acquista per Hegel il grande dibattito sulla filosofia della natura che si accende tra la fine del ’700 e gli inizi del 1800 nella cultura filosofica tedesca. La filosofia della natura viene solitamente considerata come episodio storiograficamente rilevante molto più in Schelling, in quanto occasione della rottura con Fichte, che in Hegel, dove viene fatta apparire come l’eredità schellinghiana meno felice e più artificiosa trapassata nel sistema. L’insistenza hegeliana sul tema della filosofia della natura a Jena aiuta invece a togliere quel dibattito dalla sua apparente esotericità e a restituirgli, al di là del suo rilievo meramente culturale, un ruolo eminente per una corretta impostazione dell’analisi della realtà sociale.” (F. CHIEREGHIN, Dialettica dell’assoluto, cit., pp. 63-64). L’estrema rilevanza teoretica, oltre che storiografica, di come Hegel in modo del tutto originale abbia considerato il mondo della natura fin dagli anni di Jena ritorna nel testo sopraccitato di R. Finelli, alle pp. 267 e sgg. Vi sono in effetti almeno due luoghi delle lezioni jenesi sullo spirito, concernenti la natura, che meritano di essere citati e sottolineati. Da una parte abbiamo il riferimento al cieco fare della natura trasformato in un fare conforme a un fine dal lavoro dell’uomo e, di conseguenza, la riconsiderazione della natura come natura umanizzata (universalizzata dalla mano dell’uomo), senza nessuna concessione a note sentimentalistiche, romantiche, mistico-esoteriche: “Un singolo pollo – la sua esistenza razionale consiste nel fatto che esso viene allevato e mangiato. Vento, corrente impetuosa, oceano possente, domato, solcato. Non c’è da far complimenti con esso – misero sentimentalismo che si attiene al singolo”.(G.W.F. HEGEL, Op. cit., Bd. 8, p. 207; p. 91n). Dall’altra la considerazione dello stato di natura come di un’indebita trasposizione di piani che confonde l’esserci dell’uomo con il suo concetto: “Il diritto implica la pura persona, il puro essere-riconosciuto. Gli individui non sono così nello stato-di-natura, bensì immersi nell’esserci. ― Trattandosi dell’uomo, egli è così nel suo concetto, ma nello stato-di-natura egli non è nel suo concetto, bensì, in quanto essere-naturale, nel suo esserci. La questione si contraddice immediatamente: io considero l’uomo nel suo concetto, non nello stato-di-natura. […] Il problema si pone così: che cosa è diritto e che cosa è dovere per l’individuo nello stato-di-natura?” (G.W.F. HEGEL, Op. cit., Bd. 8, p. 214; p. 98n e p. 99). In sostanza, ritiene Hegel, la nozione di stato di natura è a-concettuale; non ci spiega né l’individualità specificamente umana (l’uomo concreto, immerso nel suo sistema di bisogni, dirà poi nel 1821), né il riconoscimento interpersonale, solamente il quale fonda il concetto e l’esistenza del diritto. In ogni caso, lo stato-di-natura per Hegel non può spiegare o fondare nulla di giuridico: all’origine del diritto vi è sì violenza, offesa, offesa mortale, ma non tra singoli irrelati, ma tra uomini, e cioè tra individui che, ricordando Aristotele, sono politici per natura. Ma su tutto questo rimandiamo a G. DUSO, La critica hegeliana del giusnaturalismo nel periodo di Jena, in: AAVV (a c. di G. Duso), Il contratto sociale nella filosofia politica moderna, il Mulino, Bologna 1987, pp. 311-362. 

[16] G.W.F. HEGEL, Op. cit., Bd. 6, p. 277; p. 16. 

[17] Ibidem

[18] Ivi, Bd.6, pp. 315 e sgg. ; pp. 52 e sgg. 

[19] Non tralasciamo la celebre, e oggi assai rivalutata, «lotta per il riconoscimento» [Der Kampf um Anerkennung] di cui Hegel parla a lungo sia nel primo che nel secondo corso di lezioni. Essa si inserisce in un contesto giuridico di uscita dell’uomo dallo stato di natura; dove l’individuo è il membro familiare, legato a un possesso materiale e fortemente intenzionato ad essere riconosciuto dagli altri come singolo in quanto tale. “Nel riconoscere il Sé cessa di essere questo singolo Sé […] e questo movimento toglie appunto il suo stato-di-natura […].” (G. W. F. HEGEL, Op. cit., Bd. 8, p. 215; pp. 99-100). È una dimensione di intersoggettività dialogica e di azione; sebbene la dinamica della lotta riproponga il pericolo di una ricaduta o di una mancata uscita dallo stato di natura. In altri termini, con il riconoscimento, abbiamo a che fare con la specificità dell’individualità umana immersa nella comunità. Potrebbe essere, l’Anerkennung, considerata anche come una dimensione trascendentale dello spirito, della coscienza morale; in ogni caso, corrispondente ad esperienze molto precise della storia dell’uomo. Certamente si presenta come l’esperienza decisiva e assoluta di fronte a cui si trova la coscienza individuale dell’essere umano; una scelta di vita o di morte; una contraddizione dell’agire in cui si imbatte l’individualismo esasperato. Se poi ci riferiamo alla Fenomenologia dello spirito (1807), vediamo che in modo eminente l’età moderna sarà segnata da significative esperienze di riconoscimenti (anche mancati), che porteranno alla dimensione dello spirito assoluto (assoluta intersoggettività). “Questo riconoscimento della singolarità della totalità porta dunque con sé il nulla della morte. Ognuno deve sapere dall’altro se egli sia una coscienza assoluta […]egli deve offenderlo, ed ognuno può sapere dall’altro se egli sia una totalità soltanto in quanto lo spinge fino alla morte; ed altrettanto ognuno si mostra come totalità per sé soltanto in quanto si spinge egli stesso fino alla morte. […] Questo riconoscimento dei singoli è quindi in se stesso una contraddizione assoluta; il riconoscimento non è che l’essere della coscienza come una totalità in un’altra coscienza, ma, in quanto la coscienza come totalità diviene reale, essa toglie l’altra coscienza, e con ciò toglie il riconoscimento stesso; questo non si realizza, ma piuttosto cessa di essere proprio in quanto è. Eppure la coscienza è soltanto in quanto un essere-riconosciuto da un altro e nello stesso tempo è coscienza solo in quanto assoluto uno numerico e come tale deve essere riconosciuta; ciò significa che essa deve volgersi alla morte dell’altro e alla sua propria morte […].” (G.W.F. HEGEL, Op. cit., Bd. 6, pp. 311 e sgg.; pp. 49 e sgg.). Si apre evidentemente su ciò un problema di effettiva realizzazione del riconoscimento, oltre che di corretta interpretazione dei testi hegeliani (il riconoscimento come intersoggettività morale o come stato di natura e di violenza). In questa sede vogliamo solo sottolineare come certamente per Hegel l’esito della lotta per il riconoscimento nella morte non appare soddisfacente; sarebbe una negazione assoluta (una condizione pre-giuridica che semmai corrisponde proprio allo stato di natura), un annullamento che, a stretto rigore, non corrisponde nemmeno alla realtà storica dei tempi moderni, dove, invece, ciò che sembra prevalere è piuttosto la negazione determinata (la negazione che tesaurizza il negato). Tutto ciò in ogni caso qui, nelle lezioni jenesi prese in esame, dà luogo alla mediazione universale dell’opera etica dello spirito di un popolo, dove l’individuo diventa persona. “Questa volontà consapevole è ora la volontà universale. Essa è l’essere-riconosciuto; opposta a sé nella forma della universalità, essa è l’essere, realtà in generale, e il singolo, il soggetto è la persona. La volontà del singolo è la volontà universale, e l’universale è la volontà singola ― eticità in generale, ma immediatamente diritto.” (G.W.F. HEGEL, Op. cit., Bd. 8, p. 221-222; pp. 106-07). Sul tema del riconoscimento rimandiamo segnatamente a L. SIEP, Anerkennung als Prinzip der praktischen Philosophie. Untersuchungen zu Hegels Jenaer Philosophie des Geistes, Albert Verlag, Freiburg-München 1979 e ID., L’individualità nella Fenomenologia dello spirito di Hegel, in AA.VV., Individuo e modernità Saggi sulla filosofia di Hegel, a c. di M. D’Abbiero e P. Vinci, Guerini e Associati, Milano 1995, pp. 43-62. Segnaliamo anche il saggio di R. R. WILLIAMS, Forme mancate di intersoggettività nella concezione hegeliana della coscienza nella Fenomenologia dello spirito, in AA.VV., Hegel contemporaneo La ricezione americana di Hegel a confronto con la tradizione europea, a c. di L. Ruggiu e I. Testa, Guerini e Associati, Milano 2003, pp. 563-586. Sul tema dell’Anerkennung, e più in generale sul tema dell’agire dell’uomo inevitabilmente inserito, secondo Hegel, in un contesto intersoggettivo e contraddittorio dal punto di vista strettamente morale (con riferimenti precisi a Kant), rimandiamo a F. VALENTINI, Soluzioni hegeliane, cit., alle pp. 61-98 e pp. 215-240. Ne citiamo un passo estremamente significativo: “Il punto di approdo di questo processo, ossia l’oggettivazione di questa coscienza di sé dello spirito, è per Hegel il suo tempo, è lo Stato moderno, nel quale non ha più luogo la virtù eroica, non vi ha più luogo la lotta per il riconoscimento, perché il riconoscimento reciproco vi è operante. […] Ma ricordiamo l’aggiunta al § 432 dell’Enciclopedia dove Hegel dice che la lotta per il riconoscimento può aver luogo soltanto «nello stato di natura, dove gli uomini sono soltanto come singoli» e che questa lotta non si ha nella società civile e nello stato «perché qui quel che costituisce il risultato di tale lotta, ossia l’essere riconosciuto, è già presente.» […]”. (F. VALENTINI, cit., p. 227 e p. 227n). Si sottolinea in sostanza che un conto è la lotta per il riconoscimento e un altro conto è il riconoscimento realizzato. Sono due situazioni diverse: la violenza dello stato di natura (il singolo come tale) e la razionalità dello stato di diritto dove propriamente alberga lo spirito (la persona). 

[20] G.W.F. HEGEL, Op. cit., Bd. 8, p.257; p. 144n. 

[21] Sul concetto di opera o di operare (Tun) in Hegel, si rimanda a G. V. DI TOMMASO, Il concetto di operare umano nel pensiero jenese di Hegel, Zonno, Bari 1980. 

[22] G.W.F. HEGEL, Op. cit., Bd. 8, p. 255; pp. 142-143. 

[23] Qui, come poi anche nella Filosofia del diritto del 1821, lo Stato hegeliano è propriamente una monarchia ereditaria che funziona esattamente, attraverso la mediazione degli Stände, come una monarchia costituzionale. 

[24] F. VALENTINI, Soluzioni hegeliane, cit., pp. 115-116. 

[25] G. W. F. HEGEL, Op. cit., Bd. 6, pp. 323 e sgg.; pp. 59 e sgg. 

[26] Ivi, Bd. 8, pp. 243 e sgg.; pp. 128 e sgg. 

[27] Cfr. G. W. F. HEGEL, Op. cit., Bd. 6, pp. 323 e sgg.; pp.59 e sgg.; Bd.8, pp. 225 e sgg.; pp. 110 e sgg. Il mondo della ricchezza è comunque, per Hegel, un mondo di piena emancipazione per l’individuo. Perché è innanzitutto il mondo del lavoro, in cui la “potenza dello strumento” emancipa l’uomo – e qui l’uomo è l’individuo borghese – dalla immediata naturalità del soddisfacimento dei bisogni e dai rapporti di lavoro basati sulla dipendenza personale. Il lavoro e il lavoro borghese è un atto di razionalità e di libertà. La classe dei mercanti è quella proba e progressiva; il denaro smaterializza i rapporti economici, li spiritualizza. Ma appunto è un mondo inquieto, cioè inquieta lo spirito, perché ripropone allo spirito un’altra natura e più precisamente una sorta di natura “cieca”, meccanicistica e ottusa, impermeabile alla ragione, non pienamente domabile, che sfugge al controllo. Il mondo del denaro, della moneta sonante e della stessa organizzazione borghese del lavoro non si riesce proprio a scuotere. Cioè a riformare – con misure di politica economica – o a sovvertire. La seconda natura dello spirito, quella per così dire inquieta o il mondo della ricchezza, e cioè non lo Stato politico in quanto tale (la Costituzione, qui a Jena), è tale proprio perché si autonomizza da chi pure l’ha prodotta, provocando danni all’intera comunità civile e statuale. Inoltre, si può vedere qui come per Hegel la natura in genere (e anche la seconda natura o l’opera etica dello spirito) non sia un’entità altra rispetto allo spirito. Natura e spirito sono piuttosto due situazioni diverse della medesima realtà. Certo i vocaboli sono distinti, ma il processo è uno solo. Vi è uno stadio prespirituale in cui l’uomo primitivo è immerso, mentre l’uomo civilizzato si è emancipato da questa dimensione. Da una parte abbiamo natura e spirito indistinti e cioè abbiamo uomo e mondo uniti in una dimensione di identità immediata e inconscia; questa è la natura in quanto tale, all’interno della quale vi sono distinzioni di piani, ma dove lo spirito è immerso senza godere di vita propria; non parla e non lavora. È una natura antropologica, non spirituale. D’altra parte abbiamo lo sforzo dell’uomo di trascendere se stesso e quindi tale dimensione antropologica. Questo trascendimento è propriamente lo spirito, la storia dell’uomo distinta dalla ‘storia’ della natura o dalla storia del mondo intesa nella prima accezione. Dunque: natura e spirito, possiamo dire, sono la stessa realtà, sono però distinti grazie alla energia e all’attività del secondo che, in quanto coscienza, distingue, distingue sé da sé, sé da altro da sé, ponendo e al contempo superando la posta scissione. 

[28] E. WEIL, Hegel e lo Stato e altri scritti hegeliani, a c. di A. Burgio, Guerini, Milano 1988, pp.129 e sgg. 

[29] Cfr. HEGEL, Filosofia dello spirito jenese, trad. it., p. 58 e ss.; p. 129 e ss 


Nessun commento:

Posta un commento