lunedì 22 marzo 2021

Corpo biologico e corpo politico sono diventati la stessa cosa - Francesco Fistetti

Da: Nuovo Quotidiano di Puglia (Brindisi) - https://www.facebook.com/francesco.fistetti.5 -francesco fistetti insegna Storia della Filosofia Contemporanea, Università di Bari.
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Una breve riflessione su che cosa ci sta insegnando il fenomeno mondiale della pandemia. Essa, come avrebbe detto M. Mauss, non è un episodio congiunturale, ma un "fatto sociale totale". Ma a questa dimensione totale non corrisponde ancora un "pensiero planetario" necessario per abbandonare le illusioni neo-liberiste e cambiare in senso convivialista le nostre forme di vita. 



Ad un anno esatto dal primo lockdown nazionale la situazione sanitaria non solo in Italia, ma in tutta Europa non accenna a migliorare. In Italia abbiamo già superato la soglia delle centomila vittime da Covid-19 e la scarsa disponibilità dei vaccini rende problematica l’accelerazione della campagna per debellare il virus. 

Al di là delle sterili polemiche di casa nostra tra “aperturisti” e “rigoristi” (tra sostenitori del primato dell’economia e sostenitori del primato della salute), ciò che colpisce è che a distanza di un anno è cambiata la percezione collettiva dell’evento che stiamo vivendo a livello globale. Se fino a qualche tempo fa il sentimento dominante era la paura o lo sconcerto di fronte a un fenomeno ignoto che metteva in pericolo la vita delle persone, ora sembra essere subentrato un senso di impazienza, una voglia di ritornare il prima possibile al mondo di ieri. Anche a costo di lasciare per strada coloro che per una ragione o per l’altra non ce la fanno. È come se una componente di darwinismo sociale – riassumibile nell’assunto che è naturale che i più deboli periscano - fosse penetrata di soppiatto nel senso comune senza un’esplicita articolazione linguistica. In altre parole, l’illusione che si possa ritornare alle abituali forme di vita del passato non può che generare impazienza, dal momento che il presente non viene visto nei suoi caratteri di novità, ma assume la forma della mancanza del mondo di prima: rispetto al quale lo stato d’animo predominante è l’attesa del ritorno alla cosiddetta normalità. 

D’altronde, è estremamente difficile per la pubblica opinione, ma anche per i media, riuscire a percepire la pandemia non come una parentesi di breve durata, ma, per usare un’espressione dell’antropologo Marcel Mauss, come un “fatto sociale totale”, cioè come qualcosa che indica molto di più di una malattia denominata Covid-19. 

Si tratta di un fenomeno “totale”, perché tutti gli aspetti della società, nessuno escluso, sono stati investiti e costretti a ridefinirsi sotto l’urto del suo impatto dirompente. Per giunta, è la società planetaria in tutte le sue molteplici dimensioni che è stata squassata come da un ciclone. Infatti, la pandemia in corso ha almeno un doppio volto. 

Giustamente è stato detto che essa ci ammonisce che viviamo in una società mondiale del rischio, per cui ostinarsi a chiudersi nella sovranità degli Stati nazionali nella lotta al virus e rinunciare a strategie di cooperazione, a cominciare dai Paesi dell’Unione Europea, sarebbe un errore fatale. Qui non ci sono né frontiere né muri che il virus non possa attraversare. L’unica frontiera, come ha osservato l’antropologo francese M. Agier, è il corpo umano, perché è esso che viene contagiato. Così, scopriamo che è il corpo, e il contatto tra i corpi, che ci rende interdipendenti, collegati gli uni agli altri e, quindi, potenzialmente solidali nel principio di responsabilità nel momento in cui ci impone di adottare tutte le misure precauzionali come la mascherina e la distanza fisica. In questo caso semplici gesti vitali diventano immediatamente gesti politici: di garanzia del diritto alla vita degli altri. Questa è nel momento attuale la biopolitica numero uno: proteggere gli altri nostri concittadini mediante la responsabilità di ognuno di noi. 

Ma una politica della sicurezza non può esaurirsi in questa assunzione di un’etica individuale a cui ispirare il nostro comportamento di singoli. Occorre un salto di qualità nella percezione del fatto che il corpo biologico è diventato direttamente corpo politico, perché questo cambiamento non è effimero, ma inscritto in un passaggio d’epoca: il passaggio a quello che gli scienziati hanno chiamato Antropocene, in cui la posta in gioco è l’abitabilità del pianeta e le condizioni stesse della sopravvivenza. 

Ecco perché prima o poi bisognerà prendere coscienza che siamo appena ai primi passi di un sapere sociale nuovo che sarà chiamato sempre più a misurarsi con l’incertezza, nonostante la moltiplicazione degli algoritmi che si sforzeranno di anticipare e dare regolarità all’agire umano. L’imprevedibilità nell’era dell’Antropocene fa irruzione nella vita quotidiana sconvolgendone gli schemi e i rituali. Di qui un misto di paura e di impazienza degli attori individuali e collettivi, Stati e soggetti sovranazionali compresi. 

Perciò la politica della sicurezza deve concentrarsi su temi di interesse pubblico e su beni comuni e di sostenibilità ambientale, a cominciare dalla salute pubblica. Su questo terreno il ruolo dell’Europa è cruciale e con essa la rideterminazione del ruolo degli Stati nazionali. Se il Recovery Plan avrà un senso, lo avrà se, a livello di concertazione europea e dei singoli Stati, esso avvierà una transizione di lunga durata nella politica della sicurezza. 

Potenziare gli strumenti e gli istituti della ricerca scientifica, della protezione e della gestione della sicurezza della vita dei popoli europei si rivela d’oggi in poi il compito prioritario perché l’Europa acquisti un’identità politica condivisa. Si tratta di rigenerare i meccanismi ossificati della democrazia imprimendo uno slancio progettuale all’assetto dello Stato e dell’economia in modo da far giocare allo Stato un ruolo strategico nella produzione e tutela dei beni comuni (ricerca, istruzione, cultura, salute, infrastrutture, territori) e nelle politiche di piena e buona occupazione. 

Come ha ricordato Laura Pennacchi in un libro recente, si tratta di prendere coscienza che il prevalere delle dinamiche di finanziarizzazione ha condotto non solo a inseguire profitti di breve periodo (il c.d. “shortermismo”), ma anche a fare dei manager degli attori di se stessi e del capitale finanziario. Il Recovery Plan non pone forse all’ordine del giorno una riforma del capitalismo, analoga a quella che Keynes auspicò ai suoi tempi e che il New Deal di Roosewelt realizzò? Non si parla forse di Green New Deal europeo per indicare una nuova tabella di marcia nell’epoca dell’Antropocene? 

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