La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
venerdì 23 ottobre 2020
Come si muove una pandemia. Il tallone d’Achille della globalizzazione
Esiste una contraddizione fra l'efficienza di una società di mercato e la difesa della vita umana soprattutto in circostanze come le attuali.
È una contraddizione che appare insanabile rimanendo all'interno di un sistema sociale ed economico basato sulla compravendita di merce su scala sempre più vasta ed in tempi sempre più brevi. È come se il virus seguisse la stessa dinamica del denaro, sebbene quest' ultimo, nella sua forma di moneta, non è mai stato indicato come possibile vettore di infezione.
È pur vero che i grandi scambi capitalistici, quelli cioè che avvengono nell'ambito della produzione, non implicano lo spostamento fisico di masse di denaro, che invece mantiene una sua importanza sui mercati dei beni di consumo.
E dunque, i grandi capitalisti si sono arricchiti, e si arricchiscono, durante l'epidemia accumulando profitti, in un certo senso, smaterializzati; al contrario, i puri e semplici consumatori, se esistono, si contagiano mentre vanno al mercato a produrre il profitto degli altri.
Come i puri e semplici comuni mortali, i lavoratori, soprattutto quelli che vanno in fabbrica, alle casse dei supermercati, a fare le pulizie. Ancor più quelli che si svegliano all'alba e sacrificano ore di sonno (fondamentale per le difese immunitarie) per poter portare il pane a casa ed arricchire i capitalisti. Quelli che non possono permettersi di fare 80 Km al giorno con il proprio mezzo, ed affollano treni, metro ed autobus, dove ovviamente la prevenzione dal coronavirus è impossibile.
E gli stessi medici ed infermieri. (il collettivo)
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Osservando i
numeri di questa seconda ondata,
inizia a prendere corpo la consapevolezza che non solo non
#andràtuttobene,
ma probabilmente fermare
l’aumento di contagi sarà semplicemente impossibile.
Nonostante
le misure che, almeno sulla carta, dovrebbero contenere i casi di
Covid-19, il rapporto tra sforzi e risultati sembra essere
inspiegabilmente sfavorevole, come un ingranaggio che gira a
vuoto.
Fino ad ora sono state prese in esame principalmente le
caratteristiche di SARS-CoV-2 da un punto di vista virologico: la sua
letalità, la sua struttura, le modalità di infezione, il quadro
clinico dei malati.
Quelle che tuttavia sono state tralasciate,
o non del tutto comprese, sono le dinamiche di diffusione da un punto
di vista sistemico, che prescindono dalla specifica tipologia di
virus poiché hanno a che fare con il tessuto sottostante sul quale
il virus si muove.
Per capirlo bisogna fare qualche passo
indietro.
Nel
1994 alcuni studenti si resero conto che l’attore Kevin Bacon
poteva essere messo in relazione con qualsiasi altro nome di
Hollywood, con cui aveva lavorato direttamente o attraverso contatti
comuni. Ne venne fuori una specie di gioco chiamato I
sei gradi di separazione di Kevin Bacon,
il cui obiettivo consiste nell’individuare il numero minimo di
passaggi tra Bacon e un attore a caso.
Il sito The
Oracle of Bacon calcola
automaticamente la soluzione, e mostra che, ad esempio, Mario Merola
(personaggio non propriamente hollywoodiano) ha un numero di Bacon
pari a 3.
Qualsiasi
attore professionista, per quanto improbabile o poco conosciuto, ha
un grado di separazione da Bacon inferiore a 6.
Ad
un risultato simile era arrivato molto tempo prima lo psicologo
Stanley Milgram, a seguito di un esperimento in cui chiedeva a
perfetti sconosciuti, presi a caso, di recapitare una lettera
indirizzata ad una persona specifica. Nel caso la conoscessero
personalmente gliela potevano consegnare, altrimenti l’avrebbero
dovuta passare a qualcuno che presumevano potesse conoscerla. Sebbene
intuitivamente sembrasse impossibile che le lettere potessero
arrivare a destinazione, Milgram scoprì che mediamente il
numero di passaggi era di 5,5.
Nel
mondo digitale di Facebook, mentre gli utenti sono cresciuti da
500 milioni nel 2010 agli attuali 2,5 miliardi,
i gradi che li separano sono passati da 4,74 a 3,57.
Evidentemente la rapidità con cui una persona può essere collegata
ad un’altra non è prerogativa di un gruppo ristretto.
Per
qualche ragione, Hollywood, il sistema postale, internet, ma anche le
proteine nelle reazioni intracellulari, le connessioni dei neuroni
nel cervello, la mappa delle tratte aeree, la catena alimentare di
uno stagno e, non da ultimo, la geografia dei contagi durante
un’epidemia, seguono
uno stesso principio organizzativo che forma piccoli
mondi in
cui bastano pochissimi balzi per arrivare da una parte all’altra.
Negli
anni 90 i matematici Watts e Strogatz elaborarono un modello che
spiegasse questo comportamento a partire da una semplice rete sociale
in cui ognuno ha relazioni solo con i propri vicini. Si resero conto
che bastava introdurre una manciata di connessioni casuali che
facessero da ponte tra elementi lontani, per far passare i gradi di
separazione da qualche milione a una decina o meno.
non
è un’anomalia, è la regola in una grande varietà di fenomeni. Ma
c’era ancora qualcosa che mancava.
La modalità con cui pagine
web, persone o città si collegano tra loro presuppone che la rete
non sia statica. I siti web o le città che nascono prima delle altre
sono quelle che nel tempo ottengono più collegamenti, diventano
punti nevralgici, acquisiscono prestigio perché sulla bocca di
tutti, e di conseguenza hanno maggiore probabilità di ricevere
ulteriori link dai nodi neonati.
Fu Albert-László Barabási ad
introdurre il concetto di collegamento preferenziale, aggiungendo una
caratteristica fondamentale del mondo reale: i ricchi diventano
sempre più ricchi.
Queste reti “aristocratiche” sono ad
invarianza di scala, perché il rapporto tra numero di nodi e loro
connessioni segue una legge di potenza. In altri termini, per
una élite di nodi con milioni di collegamenti, c’è una massa di
nodi scarsamente connessi.
La
nostra società è una rete ad
invarianza di scala costituita da quasi 8 miliardi di individui
connessi da relazioni affettive, economiche, professionali,
sessuali. E’
mondo piccolo in cui nessuno rimane isolato, e all’interno del
quale pochissimi superconnettori fungono da collante e mettono in
relazione tutti con tutti.
Cosa
c’entrano le reti con i virus?
Come spiega Malcolm Gladwell
ne Il
punto critico,
un’informazione che sfrutti le proprietà topologiche della rete
per spostarsi attraverso i nodi, raggiunta una massa critica, esplode
trasformandosi da episodio locale a fenomeno globale. Il modo in cui
le persone sono collegate nella rete sociale, insieme al fattore
presa, determina la dinamica di diffusione.
Quando
l’informazione è, ad esempio, un video su YouTube, i meccanismi
del social network possono dare luogo ad un tormentone di portata
planetaria facendogli raggiungere la quota record di 7
miliardi di visualizzazioni,
senza alcuna spiegazione evidente.
Ma quando è un virus, quello
che si ottiene è una pandemia.
Un
errore ingenuo nella comprensione del fenomeno Coronavirus è stato
esemplificato dall’immagine che per diverso tempo è circolata sui
social, e che curiosamente appare proprio sulla copertina di alcune
edizioni del libro di Gladwell.
Modello lineare a domino
L’immagine
in questione mostra una fila di fiammiferi cui viene avvicinata una
fiamma, suggerendo che sia sufficiente eliminarne (o distanziarne)
uno per fermare l’effetto domino dell’incendio.
L’errore
di fondo è rappresentare la rete sociale in modo lineare, come un
elenco monodimensionale di contatti.
Una seconda errata
rappresentazione è stata data in un
articolo del New York Times,
che mostrava gli individui all’interno di una struttura ad albero,
in cui ciascuno è collegato ad un solo nodo padre sopra di lui e ad
alcuni nodi figlio al di sotto. Anche in questo caso, rompendo un
collegamento la trasmissione del virus si sarebbe arrestata su quel
ramo.
Schema
ad albero. Le frecce in blu indicano i percorsi alternativi ignorati
dal modello
Entrambi
i modelli (a lista e ad albero) sono inadeguati a descrivere la rete
sociale, perché la struttura corretta è quella dei modelli
Watts-Strogatz e Barabási–Albert, un
grafo.
Il
problema di una rete di questo tipo è la ridondanza, ovvero la
capacità di mantenere la propria integrità anche tagliando buona
parte delle connessioni. In termini epidemici significa che
l’ipotetico isolamento (o l’immunizzazione) di molti singoli nodi
non arresta la diffusione, poiché il virus continua ad avere
altrettanti percorsi alternativi per spostarsi.
Il
numero esorbitante di nodi (cioè di individui) e la loro
iperconnessione determina una resistenza alla disgregazione che
difficilmente può essere superata, a meno di non distruggere tutti i
collegamenti.
Il
nostro è un mondo completamente globalizzato, in cui paesi
lontanissimi sono raggiungibili in una manciata di ore d’aereo,
merci vengono trasportate ovunque a ritmi vertiginosi, rotte navali,
ferroviarie e autostradali collegano ogni angolo del pianeta passando
da pochi snodi critici.
Ne consegue che anche comunità
apparentemente isolate, come alcune
tribù indigene dell’Amazzonia,
vengono raggiunte dal virus in tempi irrisori, al pari delle lettere
nell’esperimento di Milgram.
Se solo pochi secoli fa
un’epidemia poteva rimanere circostanziata all’interno di una
zona, limitata da barriere ecologiche, logistiche, tecniche, oggi
riesce a spostarsi dalla Cina all’Europa viaggiando nel corpo di un
turista o di un uomo d’affari, e nel giro di poche
settimane diffondersi
in tutto il mondo con la sola eccezione dell’Antartide.
La
globalizzazione ha costruito quella che viene definita Nuova
Pangea,
un supercontinente in cui gli ecosistemi non sono più davvero
separati da confini geografici, ma vengono invasi di continuo da
umani, animali e virus alieni contro i quali non hanno evoluto alcuna
difesa.
L’idea
del distanziamento è corretta sul piano teorico, ma di difficile
attuazione su quello pratico per due ragioni.
La prima è di
natura socioeconomica. Che piaccia o no, la società post industriale
è alimentata da un motore economico che si basa sull’aggregazione.
I
servizi che utilizziamo (finanziari, energetici, sanitari,
urbanistici, educativi etc…) sono centralizzati perché la
distribuzione dei fruitori / consumatori non è casuale ed uniforme,
ma organizzata in pochi cluster superconcentrati.
Non
solo i luoghi in cui abitiamo e lavoriamo sono gli stessi, ma anche i
nostri comportamenti sono standardizzati.
Viviamo
in poche metropoli dense, acquistiamo le stesse cose dalle stesse
aziende, spostiamo i nostri soldi attraverso gli stessi istituti
bancari, utilizziamo le stesse tecnologie dagli stessi provider.
Siamo negli stessi luoghi agli stessi orari perché le nostre azioni
sono normalizzate.
Siamo perennemente a stretto contatto perché
siamo animali conformisti e perché la vicinanza offre vantaggi in
termini di possibilità, risparmio e comfort.
In tutti i
settori, ad eccezione di quello del lusso, la produzione di massa
consente un’economia scalabile, in cui si possono ottimizzare i
costi e abbassare i prezzi di vendita a fronte del fatto che il
numero di consumatori supera la stessa soglia critica che innesca le
epidemie.
Negozi,
locali pubblici, grande distribuzione, trasporti, fornitori di
servizi ai privati basano i propri guadagni sul fatto che la
richiesta è massiccia, concentrata e non diversificata. Se un
ristorante, un negozio di abbigliamento o una compagnia ferroviaria
dovesse servire la metà dei clienti distribuiti nel doppio del
tempo, non sarebbe in grado di offrire quei benefici che innescano
l’aggregazione.
L’idea
del distanziamento porta con sé un conflitto interno, ovvero il
tentativo di disassemblare la rete sociale senza perdere i vantaggi
dell’aggregazione.
La
seconda ragione è di tipo quantitativo.
La nostra società è
simile al World Wide Web. Se spegnessimo un milione di siti a caso,
un utente che naviga nella rete probabilmente non si accorgerebbe
della differenza, ma se un hacker riuscisse a colpire in modo mirato
i servizi di Google, Apple, Amazon e Microsoft, internet diventerebbe
pressoché inutilizzabile.
Il tallone d’Achille di una rete a
invarianza di scala è la sensibilità ai danni, ovvero il fatto
che la
maggior parte dei nodi è irrilevante per la sua sopravvivenza, ma
eliminando i superconnettori l’intera struttura va letteralmente in
pezzi.
Quello
che tiene insieme la rete sono gli hub:
persone che per motivi diversi vengono in contatto con moltissimi
individui o luoghi ad alta frequentazione, come centri commerciali,
locali pubblici, aeroporti, metropolitane, scuole, industrie,
ospedali.
Sono questi hotspot a
costituire il
vero carburante della diffusione,
e a fare in modo che anche il contagio segua la legge di potenza
delle reti aristocratiche, dal momento che il
20% dei malati emette il 99% della carica virale.
Gli stessi hotspot che
non è possibile eliminare, perché manderebbero in frantumi il
modello centralizzato di servizi.
Come
scriveva David Quammen già nel 2012, secondo molti non c’erano
dubbi che il Next
Big One (la
prossima catastrofe planetaria) sarebbe stato una pandemia di origine
zoonotica, perché un mondo iperveloce, iperconnesso e globalizzato
azzera la soglia epidemica e crea il perfetto terreno di
trasmissione.
Prima ancora che nei comportamenti,
nell’informazione o nel senso di responsabilità delle persone, il
problema è nella struttura stessa di quel terreno.
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