venerdì 23 ottobre 2020

Come si muove una pandemia. Il tallone d’Achille della globalizzazione

 Da: https://lascimmiachepensa.wordpress.com 

Leggi anche: Epidemia e potere - Aristide Bellacicco 

Zygmunt Bauman - La società individualizzata - Il Mulino, Bologna, 2002 - 



Esiste una contraddizione fra l'efficienza  di una società di mercato e la difesa della vita umana soprattutto in circostanze come le attuali. 

È una contraddizione che appare insanabile rimanendo all'interno di un sistema sociale ed economico basato sulla compravendita di merce su scala sempre più vasta ed in tempi sempre più brevi. È come se il virus seguisse la stessa dinamica del denaro, sebbene quest' ultimo, nella sua forma di moneta, non è mai stato indicato come possibile vettore di infezione. 

È pur vero che i grandi scambi capitalistici, quelli cioè che avvengono nell'ambito della produzione, non implicano lo spostamento fisico di masse di denaro, che invece mantiene una sua importanza sui mercati dei beni di consumo. 

E dunque, i grandi capitalisti si sono arricchiti, e si arricchiscono, durante l'epidemia accumulando profitti, in un certo senso, smaterializzati; al contrario, i puri e semplici consumatori, se esistono, si contagiano mentre vanno al mercato a produrre il profitto degli altri. 

Come i puri e semplici comuni mortali, i lavoratori, soprattutto quelli che vanno in fabbrica, alle casse dei supermercati, a fare le pulizie. Ancor più quelli che si svegliano all'alba e sacrificano ore di sonno (fondamentale per le difese immunitarie) per poter portare il pane a casa ed arricchire i capitalisti. Quelli che non possono permettersi di fare 80 Km al giorno con il proprio mezzo, ed affollano treni, metro ed autobus, dove ovviamente la prevenzione dal coronavirus è impossibile.

E gli stessi medici ed infermieri. (il collettivo)

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Osservando i numeri di questa seconda ondata, inizia a prendere corpo la consapevolezza che non solo non #andràtuttobene, ma probabilmente fermare l’aumento di contagi sarà semplicemente impossibile.

Nonostante le misure che, almeno sulla carta, dovrebbero contenere i casi di Covid-19, il rapporto tra sforzi e risultati sembra essere inspiegabilmente sfavorevole, come un ingranaggio che gira a vuoto.
Fino ad ora sono state prese in esame principalmente le caratteristiche di SARS-CoV-2 da un punto di vista virologico: la sua letalità, la sua struttura, le modalità di infezione, il quadro clinico dei malati.
Quelle che tuttavia sono state tralasciate, o non del tutto comprese, sono le dinamiche di diffusione da un punto di vista sistemico, che prescindono dalla specifica tipologia di virus poiché hanno a che fare con il tessuto sottostante sul quale il virus si muove.
Per capirlo bisogna fare qualche passo indietro.

Nel 1994 alcuni studenti si resero conto che l’attore Kevin Bacon poteva essere messo in relazione con qualsiasi altro nome di Hollywood, con cui aveva lavorato direttamente o attraverso contatti comuni. Ne venne fuori una specie di gioco chiamato I sei gradi di separazione di Kevin Bacon, il cui obiettivo consiste nell’individuare il numero minimo di passaggi tra Bacon e un attore a caso.
Il sito The Oracle of Bacon calcola automaticamente la soluzione, e mostra che, ad esempio, Mario Merola (personaggio non propriamente hollywoodiano) ha un numero di Bacon pari a 3.  

Qualsiasi attore professionista, per quanto improbabile o poco conosciuto, ha un grado di separazione da Bacon inferiore a 6.

Ad un risultato simile era arrivato molto tempo prima lo psicologo Stanley Milgram, a seguito di un esperimento in cui chiedeva a perfetti sconosciuti, presi a caso, di recapitare una lettera indirizzata ad una persona specifica. Nel caso la conoscessero personalmente gliela potevano consegnare, altrimenti l’avrebbero dovuta passare a qualcuno che presumevano potesse conoscerla. Sebbene intuitivamente sembrasse impossibile che le lettere potessero arrivare a destinazione, Milgram scoprì che mediamente il numero di passaggi era di 5,5.

Nel mondo digitale di Facebook, mentre gli utenti sono cresciuti da 500 milioni nel 2010 agli attuali 2,5 miliardi, i gradi che li separano sono passati da 4,74 a 3,57. Evidentemente la rapidità con cui una persona può essere collegata ad un’altra non è prerogativa di un gruppo ristretto.

Per qualche ragione, Hollywood, il sistema postale, internet, ma anche le proteine nelle reazioni intracellulari, le connessioni dei neuroni nel cervello, la mappa delle tratte aeree, la catena alimentare di uno stagno e, non da ultimo, la geografia dei contagi durante un’epidemia, seguono uno stesso principio organizzativo che forma piccoli mondi in cui bastano pochissimi balzi per arrivare da una parte all’altra.

Negli anni 90 i matematici Watts e Strogatz elaborarono un modello che spiegasse questo comportamento a partire da una semplice rete sociale in cui ognuno ha relazioni solo con i propri vicini. Si resero conto che bastava introdurre una manciata di connessioni casuali che facessero da ponte tra elementi lontani, per far passare i gradi di separazione da qualche milione a una decina o meno. 

 non è un’anomalia, è la regola in una grande varietà di fenomeni. Ma c’era ancora qualcosa che mancava.
La modalità con cui pagine web, persone o città si collegano tra loro presuppone che la rete non sia statica. I siti web o le città che nascono prima delle altre sono quelle che nel tempo ottengono più collegamenti, diventano punti nevralgici, acquisiscono prestigio perché sulla bocca di tutti, e di conseguenza hanno maggiore probabilità di ricevere ulteriori link dai nodi neonati.
Fu Albert-László Barabási ad introdurre il concetto di collegamento preferenziale, aggiungendo una caratteristica fondamentale del mondo reale: i ricchi diventano sempre più ricchi.

Queste reti “aristocratiche” sono ad invarianza di scala, perché il rapporto tra numero di nodi e loro connessioni segue una legge di potenza. In altri termini, per una élite di nodi con milioni di collegamenti, c’è una massa di nodi scarsamente connessi.

La nostra società è una rete ad invarianza di scala costituita da quasi 8 miliardi di individui connessi da relazioni affettive, economiche, professionali, sessuali. E’ mondo piccolo in cui nessuno rimane isolato, e all’interno del quale pochissimi superconnettori fungono da collante e mettono in relazione tutti con tutti.

Cosa c’entrano le reti con i virus?
Come spiega Malcolm Gladwell ne Il punto critico, un’informazione che sfrutti le proprietà topologiche della rete per spostarsi attraverso i nodi, raggiunta una massa critica, esplode trasformandosi da episodio locale a fenomeno globale. Il modo in cui le persone sono collegate nella rete sociale, insieme al fattore presa, determina la dinamica di diffusione.
Quando l’informazione è, ad esempio, un video su YouTube, i meccanismi del social network possono dare luogo ad un tormentone di portata planetaria facendogli raggiungere la quota record di 7 miliardi di visualizzazioni, senza alcuna spiegazione evidente.
Ma quando è un virus, quello che si ottiene è una pandemia.

Un errore ingenuo nella comprensione del fenomeno Coronavirus è stato esemplificato dall’immagine che per diverso tempo è circolata sui social, e che curiosamente appare proprio sulla copertina di alcune edizioni del libro di Gladwell.

               Modello lineare a domino 

L’immagine in questione mostra una fila di fiammiferi cui viene avvicinata una fiamma, suggerendo che sia sufficiente eliminarne (o distanziarne) uno per fermare l’effetto domino dell’incendio.
L’errore di fondo è rappresentare la rete sociale in modo lineare, come un elenco monodimensionale di contatti. 

Una seconda errata rappresentazione è stata data in un articolo del New York Times, che mostrava gli individui all’interno di una struttura ad albero, in cui ciascuno è collegato ad un solo nodo padre sopra di lui e ad alcuni nodi figlio al di sotto. Anche in questo caso, rompendo un collegamento la trasmissione del virus si sarebbe arrestata su quel ramo. 

                                                                                             Schema ad albero. Le frecce in blu indicano i percorsi alternativi ignorati dal modello 

Entrambi i modelli (a lista e ad albero) sono inadeguati a descrivere la rete sociale, perché la struttura corretta è quella dei modelli Watts-Strogatz e Barabási–Albert, un grafo.

Il problema di una rete di questo tipo è la ridondanza, ovvero la capacità di mantenere la propria integrità anche tagliando buona parte delle connessioni. In termini epidemici significa che l’ipotetico isolamento (o l’immunizzazione) di molti singoli nodi non arresta la diffusione, poiché il virus continua ad avere altrettanti percorsi alternativi per spostarsi.

Il numero esorbitante di nodi (cioè di individui) e la loro iperconnessione determina una resistenza alla disgregazione che difficilmente può essere superata, a meno di non distruggere tutti i collegamenti


Il nostro è un mondo completamente globalizzato, in cui paesi lontanissimi sono raggiungibili in una manciata di ore d’aereo, merci vengono trasportate ovunque a ritmi vertiginosi, rotte navali, ferroviarie e autostradali collegano ogni angolo del pianeta passando da pochi snodi critici. 

Ne consegue che anche comunità apparentemente isolate, come alcune tribù indigene dell’Amazzonia, vengono raggiunte dal virus in tempi irrisori, al pari delle lettere nell’esperimento di Milgram. 

Se solo pochi secoli fa un’epidemia poteva rimanere circostanziata all’interno di una zona, limitata da barriere ecologiche, logistiche, tecniche, oggi riesce a spostarsi dalla Cina all’Europa viaggiando nel corpo di un turista o di un uomo d’affari, e nel giro di poche settimane diffondersi in tutto il mondo con la sola eccezione dell’Antartide

La globalizzazione ha costruito quella che viene definita Nuova Pangea, un supercontinente in cui gli ecosistemi non sono più davvero separati da confini geografici, ma vengono invasi di continuo da umani, animali e virus alieni contro i quali non hanno evoluto alcuna difesa.

L’idea del distanziamento è corretta sul piano teorico, ma di difficile attuazione su quello pratico per due ragioni. 

La prima è di natura socioeconomica. Che piaccia o no, la società post industriale è alimentata da un motore economico che si basa sull’aggregazione.
I servizi che utilizziamo (finanziari, energetici, sanitari, urbanistici, educativi etc…) sono centralizzati perché la distribuzione dei fruitori / consumatori non è casuale ed uniforme, ma organizzata in pochi cluster superconcentrati.
Non solo i luoghi in cui abitiamo e lavoriamo sono gli stessi, ma anche i nostri comportamenti sono standardizzati.
Viviamo in poche metropoli dense, acquistiamo le stesse cose dalle stesse aziende, spostiamo i nostri soldi attraverso gli stessi istituti bancari, utilizziamo le stesse tecnologie dagli stessi provider. Siamo negli stessi luoghi agli stessi orari perché le nostre azioni sono normalizzate.
Siamo perennemente a stretto contatto perché siamo animali conformisti e perché la vicinanza offre vantaggi in termini di possibilità, risparmio e comfort.
In tutti i settori, ad eccezione di quello del lusso, la produzione di massa consente un’economia scalabile, in cui si possono ottimizzare i costi e abbassare i prezzi di vendita a fronte del fatto che il numero di consumatori supera la stessa soglia critica che innesca le epidemie.
Negozi, locali pubblici, grande distribuzione, trasporti, fornitori di servizi ai privati basano i propri guadagni sul fatto che la richiesta è massiccia, concentrata e non diversificata. Se un ristorante, un negozio di abbigliamento o una compagnia ferroviaria dovesse servire la metà dei clienti distribuiti nel doppio del tempo, non sarebbe in grado di offrire quei benefici che innescano l’aggregazione.
L’idea del distanziamento porta con sé un conflitto interno, ovvero il tentativo di disassemblare la rete sociale senza perdere i vantaggi dell’aggregazione.

La seconda ragione è di tipo quantitativo.
La nostra società è simile al World Wide Web. Se spegnessimo un milione di siti a caso, un utente che naviga nella rete probabilmente non si accorgerebbe della differenza, ma se un hacker riuscisse a colpire in modo mirato i servizi di Google, Apple, Amazon e Microsoft, internet diventerebbe pressoché inutilizzabile.
Il tallone d’Achille di una rete a invarianza di scala è la sensibilità ai danni, ovvero il fatto che la maggior parte dei nodi è irrilevante per la sua sopravvivenza, ma eliminando i superconnettori l’intera struttura va letteralmente in pezzi.
Quello che tiene insieme la rete sono gli hub: persone che per motivi diversi vengono in contatto con moltissimi individui o luoghi ad alta frequentazione, come centri commerciali, locali pubblici, aeroporti, metropolitane, scuole, industrie, ospedali.
Sono questi hotspot a costituire il vero carburante della diffusione, e a fare in modo che anche il contagio segua la legge di potenza delle reti aristocratiche, dal momento che il 20% dei malati emette il 99% della carica virale. Gli stessi hotspot che non è possibile eliminare, perché manderebbero in frantumi il modello centralizzato di servizi.

Come scriveva David Quammen già nel 2012, secondo molti non c’erano dubbi che il Next Big One (la prossima catastrofe planetaria) sarebbe stato una pandemia di origine zoonotica, perché un mondo iperveloce, iperconnesso e globalizzato azzera la soglia epidemica e crea il perfetto terreno di trasmissione. 

Prima ancora che nei comportamenti, nell’informazione o nel senso di responsabilità delle persone, il problema è nella struttura stessa di quel terreno.

Bibliografia e approfondimenti

Nexus – Mark Buchanan
Link – Albert-László Barabási
Il punto critico – Malcolm Gladwell
Spillover – David Quammen

SULLA TEORIA DELLE RETI

SULLA DIFFUSIONE DI SARS-COV2

SUL FUNZIONAMENTO DELLE EPIDEMIE 

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